Nessuno sfugge al tempo
‐ Ciao – mi fece. Aveva lo sguardo vacuo.
‐ Ciao ‐ gli risposi. Ormai lo aspettavo da tanto. Avevo sognato il suo viso moltissime notti e di volta in volta era sempre meglio definito.
Mi feci da parte per farlo entrare e richiusi la porta dietro di lui; intanto quello si inoltrava nel salotto, come se fosse un parente e un ospite abituale. Prima di chiudere la porta d’ingresso vidi che stava passando davanti al camino acceso, lentamente; la fiamma sembrò ritirarsi davanti alla figura scura, appiattendosi sui tizzoni neri.
Scossi la testa e mi affacciai sul salotto, fissandolo seduto sulla poltrona di nera pelle, nell’angolo più lontano dal camino e dalla finestra. Pochi riflessi arancioni dalla fiamma del camino rischiaravano tratti della poltrona, ma lo evitavano, quasi gli scivolassero via.
Abbozzai un lieve sorriso e gli chiesi – Vuoi qualcosa, una cioccolata, del vin brulé, prima di…? ‐ lasciai in sospeso la domanda e un brivido mi percorse la schiena; immagini lontane mi tornavano alla mente.
L’altro stette in silenzio alcuni istanti; in lontananza si udirono degli scoppi, ormai molto ricorrenti negli ultimi giorni. Vidi che si voltava a guardare fuori dalla finestra la palazzina di fronte. Alcune stanze erano illuminate e si vedevano le persone, gioiose, aggirarsi fra i tavoli portando i primi piatti della cena. Le urla dei bambini passavano attraverso i vetri, e di tanto in tanto se ne vedeva passare qualcuno rapido, inseguito da qualche altro coetaneo. Vedendo i sorrisi su quei volti giovani, guardai immediatamente il cielo, scuritosi, ed il sorriso forzato s’incrinò. Lui seguì il mio sguardo e sorrise sarcastico, sadico quasi; mi rispose, finalmente, basso e lento – C’è ancora un po’ di tempo. Non molto, ma c’è. Se hai anche dei biscotti…‐
‐ S... sì, certo‐ balbettai, e mi diressi, strascicando i piedi sul pavimento gelido, verso la cucina.
Mi era salito un groppo in gola, quando misi il latte sul fuoco e ci aggiunsi il cacao; un peso, che molto raramente avevo conosciuto, mi crebbe sullo stomaco, mentre tiravo fuori i biscotti al cocco dalla dispensa. Erano lì da un anno, che io sapessi, o forse da sempre, dalla notte dei tempi; non potevo saperlo. Lanciai un’occhiata all’esterno, dove il cielo plumbeo stava diventando nero, come tutto, all’esterno come all’interno; tutto tranne il caminetto, dove la fiamma arancione si faceva sempre più esigua. Non mi ricordavo nemmeno più l’ultima volta in cui misi nuova legna nel caminetto; o forse sì, ma non importava.
I primi lampioni si accesero sulla strada all’esterno, e desiderai che nevicasse, quella notte; come per magia, cominciarono a scendere dei fiocchi dal cielo, lenti, delicati, fragili. Rimasi sognante a guardarli alcuni minuti, finché la cioccolata non venne pronta. Portandola nell’altra stanza, sperai di vedere la poltrona in pelle nera desolatamente vuota. Ma lui era là, vestito tutto di scuro, tanto da non distinguersi dalla poltrona. Lo vedevo più vispo di prima; si girava, accavallava le gambe, incrociava le braccia, le disincrociava; appoggiava la schiena alla poltrona, si staccava dallo schienale e si teneva il mento con la mano destra.
Io mi sentivo stanco e spossato, al contrario di lui, e gli consegnai la tazza con le mani che tremavano; poi mi sedetti su una sedia di legno vicino al camino, con il batticuore, e mi portai la mano destra al cuore, cercando di riposarmi da quello sforzo che mi pareva sovrumano. Lui intanto sorseggiava la cioccolata, muovendo gli occhi azzurri, sempre più vispi, frenetico, e mi scrutava al di sopra del bordo della tazza. Deglutii, mantenendo lo sguardo su di lui, sentendo il silenzio pesare sulla mia testa, sul petto e sullo stomaco; dopo non molto non riuscii a sostenere gli occhi gelidi e azzurri del mio ospite: così, mi misi a guardare intorno a me la stanza che ben conoscevo. Dopotutto, era quasi un anno che vivevo in quei piccoli locali; vi avevo passato la fine di un inverno rigido, una spensierata primavera, una breve, emozionante estate ed un autunno malinconico. Ed ora l’inverno era incominciato da giorni, artigliandomi il cuore, preannunciato da pioggia, nebbia e gelo.
I tristi, bigi colori della città si riflettevano sull’appartamento; ma io non avevo paura delle ombre, dei rumori notturni e del silenzio. Io aspettavo lui: e sapevo che sarebbe arrivato quel giorno, e prima di quel giorno sapevo che il tempo sarebbe stato mio. Mio, e solo mio.
Sentivo il suo sguardo sulla mia pelle come una lama che cercasse di dilaniarmi la carne; sentivo, sapevo che sorseggiava ancora la cioccolata. Il rumore della tazza sul piattino mi riscosse da quel sordido, malinconico torpore. Vidi un mucchietto di lettere sul basso tavolo al centro della sala; così gli chiesi – Non ti dispiace se sistemo queste lettere? Sono le ultime, o quasi‐
‐ Prego‐ fece, gelido, laconico e divertito dal tremore che si udiva distintamente nella mia voce; provai un moto d’odio verso di lui, che si prendeva gioco di me. Ma così, come ricordai improvvisamente con repulsione, avevo fatto anche io.
Presi il mucchietto di lettere ed il tagliacarte d’argento lì vicino; aveva la forma di uno stiletto, ed era molto affilato, tanto che un giorno di primavera rischiai di recidermi un dito.
Mi risedetti sulla sedia, e cominciai ad aprire, meticolosamente, ogni lettera ed a leggerla alla debole luce del camino. A volte sorridevo, a volte mi adiravo ed altre ancora mi intristivo. Nella stanza si sentivano solo i vaghi rumori della carta, del fuoco e dei morsi sui biscotti da parte sua.
In alcune lettere venivo ringraziato, quasi venivo invocato. C’era chi mi pensava a fondo e chi aveva fatto l’abitudine a me come agli altri. Parecchi ora mi pensavano, ma erano felici che fosse arrivato questo giorno. Questo tipo di lettere le leggevo con un sorriso amaro; alla fine, dopo aver finito di leggere l’ultima da parte di un giovane che mi ricordava per aver trovato l’amore, la misi sopra a quella di un contadino diventato improvvisamente ricco grazie ad un’annata favorevole. Presi la pila di scritti, sospirai e la buttai nel fuoco, che avvampò. Rimasi alcuni istanti a guardare la fiamma, assente, quando ancora lui, l’ospite, mi fece tornare alla realtà; aveva posato la tazza sul tavolo, alzandosi in piedi.
Lo guardai, e poi feci lo stesso con l’orologio. Pochi minuti a mezzanotte. Sette‐ otto… cominciai a sudare freddo, capendo quel poco che rimaneva da capire e ricordando tutto il mio passato.
Lui parlò – E’ giunta la fine, collega. Sono miliardi di miliardi di miliardi di… infiniti NOI che aspetto questo momento. Come tu lo aspettavi, quasi dodici mesi fa‐
L’odio che provavo per lui si fece più forte, e mi venne un conato di vomito al riemergere dei ricordi. Lo guardai, cercando di mantenere ferma la voce – Non essere tanto… giubilante… non vedi? Non capisci?‐ le parole mi arrivavano alle labbra spontanee, e lo guardavo con cieca determinazione, adesso – Sei… ottuso, come lo sono stato io. Guarda, dannazione, guardami! Sono invecchiato. Quando arrivai qui ero giovane… in realtà dovevo ancora nascere, come te ora. Stavo per farlo… e ho vissuto. Non capisci?‐
Lui mi guardò con cipiglio seccato, e feroce. In lui rividi la mia stessa espressione di quello che mi sembrava tantissimo tempo prima… e nei suoi occhi lo stesso viso della mia vittima.
‐ Hai fatto il tuo tempo. Capiscilo. Sei giunto al termine, ‐ mi diceva, quasi annoiato, avvicinandosi un passo alla volta. I suoi occhi, ghiacciati, dardeggiavano fra me e l’orologio. La lancetta dei secondi sembrava stanca di compiere il suo eterno moto – cerca di facilitare le cose. E’ così da sempre, Vecchio. Il ciclo si ripete, all’infinito; e così si ripeterà‐
Arricciai il naso, vedendolo avvicinarsi – E’ così solo perché siete giovani. Stupidi. Inesperti‐ scandii, fregandomene dello sguardo di feroce odio dell’altro. La lancetta dei minuti era ormai prossima a mezzanotte, sfiorava il dodici. Due minuti, pensai – Non capisci che la vera vita è un’altra? Non è questo stupido, breve lasso di tempo…‐
‐ TACI!‐ urlò, stravolto dalla rabbia. Ma me l’aspettavo; anche io ero così. Non volevo pensare, sfiorare l’idea – Lo sapevi, lo sapevi dalla notte dei tempi! La verità è che sei un debole che non vuole accettare la sua natura, la sua morte… sei passato, sei solo l’Anno Vecchio! Io sono il Nuovo Anno… ed il mio tempo è venuto, finalmente!‐
Rimasi zitto, e il mio occhio squadrò l’orologio. Era una pendola. Era appena scoccato l’ultimo minuto, e nella palazzina di fianco la gente si accalcava sui balconi per salutare con botti il Nuovo Anno e abbandonare il Vecchio Anno.
Per un attimo feci per arrendermi. Le voci eccitate delle persone che scandivano il conto alla rovescia mi riempivano la testa, e credo anche la stanza. Per un attimo, ripensai all’Anno Vecchio che uccisi l’anno prima; era rimasto fermo, fissandomi sulla sedia, finché non gli ero saltato addosso facendolo a pezzi.
Poi, mi riscossi. Ripensai per un attimo a tutto quello che era successo quando io ero stato l’Anno Corrente; potevo interrompere il Tempo essere il primo Anno Vecchio che si è fatto Nuovo. Un precedente, il primo… sarei stato potentissimo, molto più potente di un semplice Anno Corrente, avrei avuto la saggezza oltre i poteri. Il Tempo si sarebbe inchinato a me… bastava una manciata di secondi, e tutto sarebbe cambiato.
Fu un attimo: lui si distrasse per le forti voci di umani provenienti da chissà dove che scandivano gli ultimi venti secondi. Afferrai il tagliacarte alla mia destra, stringendolo all’impugnatura, e mi scagliai contro di lui.
Finimmo a terra in un turbinio di mani, piedi, braccia, corpi che si contorcevano nella lotta.
Tredici… Dodici… Undici…
Lo ferii, ne sentii l’urlo di dolore e soprattutto sorpresa; risi di gusto potevo farcela e sopravvivere.
Nove… Otto… Sette…
Ma lui era giovane, forte. Sentii dolermi il petto e il viso per alcuni pugni ben assestati, e finii riverso a terra. Feci per rialzarmi, ma ero tutto un dolore, e rimasi con la schiena sul gelido pavimento. Lo guardai avvicinarsi; stringevo ancora il tagliacarte nella mano destra. Ora troneggiava sopra di me, e rise, di scherno.
Sei… Cinque… Quattro…
Quando fu abbastanza vicino, alzai il braccio per colpirlo, veloce; ma lui se l’aspettava. Mi bloccò la mano, sebbene stillasse liquido scuro dal braccio sinistro, e avvicinò lentamente la mia stessa mano al mio collo. Sorrideva, sguaiato, e io serravo i denti, non volendo ammettere di essere vinto.
Tre… Due… Uno…
‐ Nessuno sfugge al Tempo. Nessuno ‐ mi disse. Sorrise sguaiatamente, a pochi centimetri da me.
‐ Neanche tu ‐ gli sussurrai, ridendo sommessamente, in segno di sfida.
L’Anno Nuovo spinse il tagliacarte contro la mia gola, e me la recise; l’ultimo ricordo che ho, prima del buio, è il suo viso, furente, e i suoi occhi attraversati dalle prime ombre della mia stessa ansia e preoccupazione.
Zero…