Non posso mentire ancora (prima parte)
Mia sorella Sara stava morendo su un letto d'ospedale ma non volevo ammetterlo né dirglielo; non trovavo, cioé, la forza di spiattellargli in faccia, lei tanto buona e dolce, la nuda e cruda verità. Al tempo stesso, però, dubitavo se mai fosse giusto, da parte mia, seguitare a comportarmi così: se avevo perciò il diritto di tacere ancora.
‐ Chi mai sono io da arrogarmi il diritto di farlo e negarne a lei uno ancor più sacrosanto: quello di sapere? ‐ ripetevo di continuo fra me e me, domandavo alla mia stessa coscienza. ‐ Sono soltanto, in fin dei conti, suo fratello maggiore (ho sei anni più di lei), la sua balia cresciuta ed acquisita cammin facendo (lo ero diventato, mio malgrado, da quando, dieci anni prima nostra madre Gabriella e nostro padre Marco, morti in un incidente d'auto sull'autostrada del Sole, di ritorno da una vacanza trascorsa da soli, ci avevano lasciati per sempre) ‐ era la risposta più logica ed ovvia che riuscivo a darmi. Così soffrivo tanto dentro di me, preso dal dubbio e dalla incertezza, macerato da quella fottutissima "coppia" di bastardi: letteralmente quelle che si definiscono, voce di popolo alla mano, le proverbiali pene dell'inferno!
Erano diverse settimane, ormai, da quel fatidico primo di aprile (non è affatto uno scherzo né un pesce d'aprile, purtroppo!), proprio il giorno del suo ventinovesimo compleanno (quando accusò i primi sintomi), che lei lottava, con tutte le sue forze, strenuamente e con coraggio da leonessa, contro due serpenti a sonagli insinuatisi nel suo corpo senza chiedere permesso e che, lentamente ma inesorabilmente, lo stavano (e la stavano) divorando: il morbo di Hodgkin (un linfogranuloma maligno del sistema linfatico: così chiamato dal nome dell'istologo inglese che per primo lo scoprì, a metà ottocento) ed un sarcoma alle ossa. Lei, invero, è sempre stata un tipo testardo e cocciuto, a dispetto della sua bontà e gentilezza d'animo, molto più di me che pure, per natura, lo sono già abbastanza (è da una vita, infatti, che sono in perenne lotta contro un nemico indistruttibile che si chiama "me stesso"!): questo è un bene, certo, ma a volte non serve o quanto meno non basta a lottare contro la realtà delle cose ed il destino avverso. Sara, infatti, era ricoverata alle Molinette di Torino, nel reparto ematologia donne diretto dal professor Attilio Lombardi, luminare in Europa e nel mondo, amico di liceo di mio padre con cui era rimasto in contatto sino al momento dell'incidente che lo aveva portato via ad entrambi. Spesso il professore era a cena da noi, nella nostra abitazione di Pinerolo (circa trentacinque chilometri a sud‐ovest del capoluogo, sulla strada che porta al Sestriere), in cui ci eravamo trasferiti dopo la nascita di mia sorella, nel 1988; sita al numero 77 di via Kropotkin (il cognome del rivoluzionario moscovita Petr, poi passato all'anarchismo, che il sindaco Girolami, ex PCI, nel 1985 li aveva affibbiato ‐ quella strada si chiamava prima Massimo D'Azeglio, ‐ chissà, se colto da raptus senile o...magari, chissà, lo aveva fatto ‐ inconsapevolmente ed in anticipo ‐ per omaggiare il sottoscritto che di lì a qualche anno sarebbe arrivato in paese con la famiglia e crescendo sarebbe poi diventato l'unico anarchico dei dintorni). Il professore ci veniva con sua moglie Laura (la coppia non aveva figli: lui è infertile), una donna minuta oggi sulla settantina, all'epoca molto avvenente, venuta al nord con la famiglia di umili origini (il padre operaio alla Fiat, la madre casalinga): si erano conosciuti quando la donna faceva pulizie a casa dei genitori del medico e così si erano sposati, nel 1977, in piena epoca delle lotte operaie (l'autunno caldo a Mirafiori e nel triangolo industriale) e studentesche (l'anno fatidico, quello, della nascita del "movimento", di cui mio padre fece parte attiva essendo grande amico, tra l'altro, del fumettista Andrea Pazienza, uno dei deus ex machina dello stesso), in piena epoca "strategia della tensione", quando le bombe ed il terrorismo lasciavano ovunque segni e lutti (e gli anarchici pagavano per tutti!); i compagni autonomi colpivano duro nelle piazze, nei quartieri, negli atenei, nelle fabbriche ed i neri del fascio, però, non erano da meno; nascevano e morivano, nel giro di poco, ideologie, ideali ed utopie: in piena epoca, insomma, degli importantissimi stravolgimenti socio‐politico‐economici che avrebbero cambiato per sempre il volto ed il corso della storia italiana...E' proprio il caso di dire che l'amore (ma non sempre è così, però!) non conosce barriere ideologiche, economiche e sociali. Ebbene, il professore (ironia della sorte) spesso aveva tenuto sulle sue ginocchia Sara, quando veniva da noi, coccolandola e giocando con lei: era una nipotina acquisita per lui, li voleva un gran bene: adesso, invece...Era cresciuta e stava lottando per la vita contro la morte proprio nel suo reparto. La mia sorellina aveva cominciato la chemio già dal primo giorno di degenza, per contrastare il male (i suoi bellissimi capelli castani, morbidi come la seta, lunghi come il crine di un cavallo e profumati sempre di mirto e lavanda, avevano per un pò resistito, ma poi erano caduti a grappolo: sembrava un cocomero bianco!). Subito, però, le cose non andarono come previsto: la realtà, purtroppo, aveva mostrato impietosamente il suo volto vero ed anche ‐ ahimé! ‐ oscuro. La settimana era trascorsa in fretta, tra una visita in ospedale ed il mio lavoro, stressante, di lavapiatti ed aiuto cameriere (al ristorante Rendez‐Vous, in corso Vittorio Emanuele II° 38, di fronte alla stazione di Porta Nuova, sempre strapieno come un uovo, a pranzo come a cena) e senza grossi imprevisti: tranne una piccola crisi nervosa di Sara, a cui avevo fatto fronte col mio proverbiale sangue freddo e con l'ausilio di venti gocce di valium, somministrategli dall'infermiere Alfredo. Devo dire, tuttavia, che il tempo allora non aveva molto senso per me ed al suo trascorrere non ci facevo più caso: tutto era diventato un fare di routine. Eravamo, comunque, vicini alla pàsqua, oramai (sarebbe caduta di lì ad una settimana) e quel sabato sera (il 12 aprile) non lo dimenticherò facilmente. Alle diciassette in punto partii da casa, in macchina, e mi recai in ospedale (avevo un pass speciale, viste le condizioni di Sara, il quale mi permetteva di entrare in visita verso le diciassette e venti‐diciassette e trenta, un paio d'ore prima rispetto agli altri): il fine settimana ero libero, di solito, vista la chiusura del ristorante, e potevo (nonostante tutto...che camminassi minacciosamente di fianco all'oblio) giostrare l'impegno con più tranquillità (potrebbe sembrare un eufemismo, cazzo...è così!), ma in questi casi, si sa, le sorprese, soprattutto quelle non gradite, sono sempre dietro l'angolo (è proprio il caso di dirlo, anzi, di scriverlo dopo averlo pensato a lungo!).
Alle diciassette e ventotto in punto posteggiai la macchina, comprai il solito paccotto di giornali e riviste da portare a mia sorella (tra cui Intimità e Cronaca rosa, quelle che piacevano da matti a nostra madre) all'edicola di via Varazze, di fronte all'ospedale, ed in un lampo fui su in reparto. Entrai nella stanza (la seconda sulla sinistra, partendo dall'ascensore e dal montacarichi; l'unica "riservata", nel reparto, con due soli letti, l'armadietto ed il doppio bagno: trattamento speciale per noi, grazie al prof) e puff, vuoto e silenzio assoluti...mia sorella, ahimé, non era nel suo letto. Un tonfo al cuore, allora, mi prese: il rumore del suo battito sembrava davvero quello di un tuono durante un temporale estivo. Mi rivolsi, così, alla caposala Grimaldi (donna simpatica ed espansiva, no la classica Rottermayer tutta d'un pezzo! sui cinquanta ben portati, originaria di Erice nel trapanese):
‐ Senti, Luisa, ma dov'é Sara? ‐ le chiesi agitatissimo. ‐ Cosa è successo?
‐ Ha avuto una crisi, mezz'oretta fa: ‐ esclamò lei, dispiaciuta. ‐ L'hanno presa per i capelli, sai? E' in rianimazione ora!
Mia sorella, purtroppo, aveva avuto una grave crisi respiratoria (al limite dell'arresto cardio‐circolatorio), dovuta alle carenti difese immunitarie. La situazione, però, era stabile. Come un siluro impazzito letteralmente mi catapultai al secondo piano (ematologia è due piani più sopra rispetto alla rianimazione) e da dietro i vetri dello stanzone, colorati giallo opaco (Sara era sul letto al centro, tra i letti di altri due malati privi di conoscenza), nel corridoio del reparto, vidi lei, la mia dolce sorellina, tutta intubata ed inerme...non ebbi il coraggio, evidentemente, di guardare per molto né di piangere: dopo qualche minuto scappai via e mi diressi verso l'ascensore (non avevo neanche voglia di scendere per le scale, a piedi, com'ero solito fare) che mi avrebbe portato nella hall dell'ingresso eppoi all'uscita dall'ospedale: una volta in strada, però, fui soltanto capace di fare una ventina di passi; dopo di che, giunto che fui in via Nizza, all'altezza dell'ufficio postale Torino 5, mi sedetti sul cruscotto d'una vecchia Punto 900 C posteggiata a pettine: a quel punto scoppiai in un pianto a dirotto.
‐ Finalmente sono riuscito a farlo! ‐ dissi fra me e me (era la prima volta, infatti, che piangevo dal giorno del ricovero di mia sorella). Quella fu per me una sorta di liberazione...fino ad allora ero sembrato essere una faccia di cera oppure, chissà, Buster Keaton col viso da giovane, senza fisionomia: sempre impassibile e freddo.
La "crisi" di pianto, però, durò all'incirca dieci minuti. Un vecchio calvo (con grossi baffi), che camminava poggiandosi al bastone, mi passò davanti e domandò:
‐ Ragazzo, hai bisogno di qualcosa?
‐ No, grazie, è tutto a posto! ‐ risposi.
Mi ripresi. Avevo capito, ero finalmente sicuro sul da farsi: qualora Sara si fosse ripresa ed uscita dallo stato di incoscienza in cui era sprofondata, gli avrei raccontato tutto, per filo e per segno avrei detto a lei la verità sul suo male e sul tempo che le restava da vivere. Dalla tasca del giaccone rosso che indossavo estrassi,allora, il cellulare (un vecchio, desueto apparecchio modello "McOnsen MF03" comprato cinque‐sei anni prima di contrabbando, in piazza Statuto: ero uno dei due dinosauri, o tre al massimo, rimasti in tutta Torino e provincia a non avere con sè regolare porto d'armi...pardon, uno smartphone, o un i‐pod, o un i‐pad!) e feci il 3388181595, il numero del professor Lombardi.
‐ Pronto, chi parla? ‐ Fa lui.
‐ Prof (lo chiamavo così, un po' tra il sarcastico ed il bonario, sin da ragazzino: non ci faceva caso...aveva sempre avuto il sense of humour, lui!), ‐ sono Luciano. Ha saputo? Sara sta malissimo! Mi dica, come andiamo?
‐ Ho saputo! ‐ rispose lui. ‐ Un quarto d'ora fa mi ha chiamato Giulio (il dottor De Carlo, suo vice e braccio destro, più giovane di lui di quindici‐sedici anni: bravissimo medico, gentile e disponibile con tutti, sempre; affabile ed alla mano...Faccia simpatica con un paio di baffi alla D'Artagnan, venuto su dalla Campania, Santa Maria Capua Vetere ‐ il paese della pizza a metro; laureatosi a Firenze, dove ha fatto gavetta: al Cto e al Careggi); non devi preoccuparti, Sara c'é la farà in un paio di giorni e poi...Il resto lo sai (aveva capito al volo che cosa intendessi con la domanda precedente). Le cose, purtroppo, quelle altre, non vanno mica tanto bene: due giorni fa abbiam fatto un'altra biopsia, una metastasi è sotto l'orecchio sinistro, un'altra all'altezza del fegato. La chemio non serve più a niente, ormai. La interrompiamo quando riprende conoscenza. L'unica cosa che potremo fare è di alleviarli il dolore e tu...starli sempre vicino: il tuo cuore deve essere insieme al suo!
Parole impietose, quelle del prof, ma lucide e senza tanti ghiribizzi di sorta o di circostanza; insomma, senza girarci troppo intorno né ricorrere ad ipocriti sotterfugi...sincerità.
‐ Ho capito! ‐ feci io; poi domandai: ‐ lo sapevamo già, vero? Quanti mesi ancora, prof?
(Facevo domande a cui il prof aveva in parte risposto prima: inconsciamente mai avrei voluto conoscere la risposta; anzi, le facevo proprio perché avrei voluto sentirmi dire ben altre cose...Tutti vorremmo sempre che ciò avvenga, in fondo).
‐ Mesi per niente! ‐ rispose. ‐ E' questione di settimane: due, tre al massimo! Vuoi che ci pensi io, Luciano, oppure che lo faccia Laura?
Il professore si riferiva a chi avrebbe dovuto dirglielo a Sara; dirli la verità! Decisi che ci avrei pensato io: lo avrei fatto a costo di farmi evirare e diventare così un eunuco! Alla mia sorellina, la "piccola‐grande Sara", il mio coniglietto verde (così la chiamavo, sin da quand'era bambina, per via di un dente che li sporge dalla dentatura superiore), ci avrei pensato io.
‐ No, prof, tocca proprio a me farlo: è giusto così!
‐ Va bene, Luciano, fai come desideri meglio: lascia parlare il tuo cuore. Ora devo lasciarti, ho una visita in studio che mi aspetta.
‐ Arrivederci, prof! ‐ dissi io. ‐ Ci vediamo in reparto domani.
Lasciato il professore, presi la via di casa, a piedi (dimenticai di aver posteggiato la macchina a due passi dall'ospedale, nel parcheggio abusivo di via Varazze): il nostro (mio e di Sara) è un appartamentino modesto ma dignitoso, preso in affitto; con due camere, più bagno e cucina, in piazzale San Gabriele di Gorizia al civico 13, tra corso Unione Sovietica e l'ospedale inferiore Koeliker, di fronte al vecchio Filadelfia ‐ comunemente, per i gianduia, quartiere Lingotto‐Mirafiori. Giunto a destinazione (mi ricordai, nel frattempo, della macchina posteggiata nei pressi dell'ospedale), mi buttai sul letto, distrutto (senza cibo toccare e tutto vestito, così com'ero rincasato) e dormii sino al mattino seguente: dieci ore filate! Alle sei in punto feci colazione e mi recai in ospedale per recuperare la macchina: dopo di che andai al lavoro. Al termine del mio turno, poi, solita trafila e solito "pellegrinaggio": prima un salto, en passant, a casa, dopo di che, verso le diciassette, pronto per la visita a Sara... ‐ Come l'avrei trovata? ‐ Domandai a me stesso. ‐ Era cosciente, la mia sorellina, oggi, oppure "dormiva" ancora?
Le sorprese, anche quelle positive, in questi casi, o meglio al limite del paranormale e dell'inspiegabile, sono sempre all'ordine del giorno...Girando l'angolo le puoi trovare sulla strada (della vita), lunghe e distese sul marciapiede: a prendersi gioco di te, a meravigliarti o a deluderti...chissà.
Arrivai in reparto e dopo aver salutato la Grimaldi mi affacciai sull'uscio della stanza (come un riflesso condizionato), poi accadde tutto... con sorpresa vidi mia sorella seduta sul letto, sorridente e serena come nei giorni più felici: sembrava un guru indiano, pronto per la meditazione o un incantatore di serpenti subito dopo aver svolto il suo lavoro. Il suo volto non era spento e smunto come nelle settimane precedenti ma bello e naturale, non sapevo se scoppiare a ridere o in lacrime; così ricacciai indietro le mie emozioni ed entrai nella stanza sorridendo: lei aveva bisogno di me e del mio cuore (ripensai, infatti, alle struggenti parole che aveva proferito il prof telefonicamente, sera prima).
‐ Stai meglio, ‐ dissi subito gridando, ‐ oggi hai il colore del sole impresso addosso, sorellina!
Lei non disse niente ma mi sorrise: mi avvicinai al suo letto, la strinsi forte tra le mie braccia quasi a...
‐ Ehi, piano! ‐ fece lei. ‐ Quanto entusiasmo, quanta passione; siamo fratello e sorella, io e te, non due innamorati! Vuoi soffocarmi? Hai vinto per caso al gratta e vinci?
Dentro di me pensavo: ‐ Miracolo (sono ateo da oltre trent'anni ma...), ha ritrovato anche il piglio ed il senso arguto dell'umorismo!
‐ No, stupida! Sono soltanto felice che tu oggi stia meglio: eri in un altro mondo, ieri, ricordi?
‐ Sono semplicemente tornata tra i vivi! ‐ Esclamò lei ironicamente.
Di questo passo verrai fuori da quì prima del previsto, ‐ feci io, gurdandola dritto negli occhi. Lei mi guardò per un attimo quindi scoppiò in una risata, a metà tra il sornione ed il beffardo.
Poi, di botto, esclamò: ‐ Matto che sei, vuoi prendermi mica per il culo? E dopo che sarò uscita cosa faremo?
‐ Andremo al cinema, io e te, in giro per la città, allo stadio, al parco, in qualunque posto mano nella mano, come due innamorati adolescenti...eppoi un bel gelato alla Galleria o al Due Mondi (la gelateria, vicina al Valentino, in via Medaglie d'oro, dove spesso s'era soliti andare, io e lei, insieme agli amici): una coppa maxi, da cinque euro, di quelle che piacciono a te (il suo gusto preferito è cioccolato e pistacchio con due grosse amarene Fabbri che trasbordano il succo fuori dal bicchiere), che dici?
‐ E dopo, dimmi, che altro faremo?
‐ Dovrai fare una cosa grandissima per me: mi aiuterai a programmare il mio matrimonio.
‐ Il tuo matrimonio? ‐ Domandò lei sorpresa. ‐ Fratello mio, allora hai una ragazza! Dimmi, come si chiama? Com'é: bionda o bruna? E' di Torino? Quanti anni ha? Dai, su, raccontami!
Sara era felicissima, anzi, strafelice: si vedeva che lo era per davvero. Ma io, single da una vita (anche lei lo era, oramai da due anni: quando il suo ragazzo, Luigi, l'aveva lasciata andando a vivere con i suoi a Milano), ossia da quando, per lo meno, avevo avuto la mia ultima storia, finita male, con una ragazza di Novara (circa quindici anni prima: decenni passati, quelli non digitalizzati né smartforizzati...ormai nel Devoniano!), avevo mentito: lo avevo fatto per reggere il gioco (era troppo bello veder sorridere nuovamente mia sorella: la cosa più importante, in quel momento, per me!), per far durare più a lungo quel momento, una pausa serena ed imprevista dalla sofferenza (mi ricordai d'aver letto, tempo prima, un aforisma: "non c'é cosa più bella al mondo di un attimo insignificante").
‐ Troppe domande tutte d'un colpo, sorellina! ‐ le dissi con tono scherzoso. ‐ Vuoi farmi venire un'indigestione, che dici? Si chiama Laura, è una brunetta coi capelli lunghi: li porta sempre legati dietro, però, come la coda di un cavallo. Lavora in un bar vicino al Rendez‐Vous, l'ho conosciuta due settimane fa, un colpo di fulmine: abbiamo deciso di sposarci a maggio. Mentivo spudoratamente, ero contento di farlo...Riuscii a farla ridere ancora, però, Ero senza una ragazza perché non avevo tempo: trascorrevo i meriggi e le serate con lei, in ospedale, dopo il turno al locale, infine tornavo a casa: mangiavo un boccone (quasi sempre roba comprata alla rosticceria vicino casa, o pizze e minestre surgelate) e mi addormentavo sul divano, davanti alla tivù accesa. Alle otto del mattino tornavo a lavorare (iniziavo presto perché c'era sempre lavoro arretrato: apparecchiare i tavoli, preparare la lista dei menù, ordinare le bevande, etc.), infine smontavo giusto all'ora di tornare all'ospedale. Erano giunte le venti, intanto: l'orario di uscita. Sara, ancora pimpante (strano a dirsi e a crederci: non si era lamentata né aveva pensato al suo male in quelle tre ore scarse trascorse insieme: prima volta, da settimane, che accadeva) esclamò:
‐ Domani, brocco (mi chiamava così visto che ero appassionato di calcio ‐ tifosissimo da sempre del Toro ‐ ma ero talmente imbranato a giocare da far paura pure ai morti!), portami una di quelle riviste per novelli sposi così ti aiuterò a scegliere un completo adatto a te; e poi me la devi far conoscere, sai? Credi di farmi fessa? Ho un fetente che mi divora dentro ma non sono rimbambita!
Dentro di me ero un fuoco: volevo scoppiare a piangere ma...riuscii a trattenermi (probabilmente Sara sarebbe scomparsa prima dell'inizio della primavera!).
‐ Va bene, stupida, me ne ricorderò: sarà fatto, sei tu il comandante!
La salutai con la mano destra, lei mi mandò un bacio volante. Nel corridoio incontrai il professore: lui, come al solito, mi lesse nel pensiero.
‐ Non illuderti, Luciano! ‐ disse. ‐ Non è un miracolo...è soltanto casualità, è l'andamento della malattia alterno e l'effetto dei farmaci. Ieri era quasi in coma, oggi è arzilla come una scimmia salterina, domani forse...
‐ Va bene, prof, ‐ dissi io interrompendolo. ‐ Non lo faccio: oramai ho perso l'abitudine per le illusioni! Ci vediamo domani.
‐ A domani, Luciano. ‐ fece lui.
Strada facendo, in macchina immerso nel traffico, mentre tornavo a casa, mi passò in testa, come un film, la vita trascorsa insieme a mia sorella, e quella sua insieme ai genitori, quella nostra tutti insieme. Piccoli flash‐backs, refrain, deja‐vù, scampoli di gioie e dolori, mix di sentimenti, soddisfazioni, delusioni, bilanci, pugni presi in faccia, baci, abbracci, vertigini, botte in testa, giravolte: insomma, la vita, col suo dare ed avere, prendere e lasciare, col suo essere o meno in pari con la sorte; la vita è basta: quella grande puttana d'alto bordo! (Come spesso la definivo davanti a Sara).
Ritornò davanti agli occhi una vecchia foto bianconero, in cui mio padre è ritratto insieme a Mike Rutherford e Tony Banks dei Genesis, sul palco del Palasport Ruffini, prima d'un concerto (fu l'ultimo, quello, purtroppo, in Italia) della band inglese nel lontanissimo 1975 (era una domenica assolata di marzo: mi raccontò una volta mio padre stesso). Dopo lessi sul quotidiano torinese "La Voce del Popolo" che i Genesis erano arrivati direttamente dall'Inghilterra: fatto tecnicamente veritiero ma molto improbabile, tuttavia, visto che il giorno prima di quella data italiana, il 22, gli stessi avevano tenuto un concerto ad Annecy, capoluogo del dipartimento dell'Alta Savoia, in Francia, non molto distante da Torino. Risentivo le note di Lilywhite Lilith o quelle di Watcher Of The Skies, le stesse che sovente mio padre, quando era sotto la doccia, intonava e che rimbombavano nelle mie orecchie, quando ero ragazzino, come un tam tam...Ma l'intro di Watcher era sempre da brividi sul fondo schiena quando lo risentivo cresciutello. Eppoi rividi mia madre che portava in spalla mia sorella piccolina, al mare: nella spiaggia deserta di Riccione, in un rugiadoso mattino di una estate di tanti anni fa; della serie: ombre e fantasmi gentili del passato a Samarcanda...Anche quella visione, però, da brividi: su tutto il corpo!
Il suono insitente del clacson d'una 4x4 nera mi riportò alla realtà, alla vita di ogni giorno, appunto: ‐ Coglione! Vuoi muoverti o no? Cos'hai in testa? La strada non è solo tua! ‐ gridarono dal finestrino aperto. Mi ero dilungato troppo ad un semaforo col verde acceso, immerso nei ricordi e nei pensieri, all'incrocio di via Reduzzi con Arnaldo da Brescia, due‐trecento metri da casa!
Arrivai così a destinazione e mi addormentai sul divano davanti alla tivù accesa (avevo fatto appena in tempo, però, a cambiarmi e...sgranocchiare qualcosa).