Non posso mentire ancora (seconda parte)

 L'indomani, al ritorno in ospedale, ritrovai mia sorella abbastanza intontita (o intronata: che è poi identica cosa, detta solo con meno tatto!): era l'effetto della fiala di Toradol (la terapia d'urto, a base di rinforzo delle difese immunitarie al mattino e, soprattutto, per arginare i dolori, era di due fiale da 20 mg/ml pro die: le cose andavano benino, per il momento)...al risveglio, ovvero di rientro dal suo viaggio, Sara mi salutò e sorrise; poi, però, si ammusonì di colpo.
‐ Un bacio per i tuoi pensieri, ‐ feci io ‐ (era un gioco che entrambi facevamo spesso da ragazzini: la metteva di buon'umore).
‐ I miei pensieri...non val la pena conoscerli, oggi, credimi! ‐ disse lei. ‐ Ma sì, dai...(lei stessa si contraddisse e riprese a parlare), quando mi farai conoscere Laura? Allora, scemo, quando?
‐ Presto! ‐ feci io. ‐ Dimmi il tuo pensiero, ora.   
Leggimi il nostro libro…(era Le avventure di Huckelberry Finn, di Mark Twain, glielo leggevo spesso prima di farla addormentare, quando erano ancora vivi i nostri genitori). Cominciai a leggere ma lei si addormentò di nuovo. Al risveglio, pensai, sarebbe stato il momento buono di dirgli tutto oppure… Al risveglio, due ore dopo, mi precedette (forse, chissà, mi aveva letto nel pensiero):
‐ Devi dirmi la verità, Luciano. Almeno tu devi essere sincero, con me; sono tutti gentili e vaghi: il professore mi dice sempre che passerà…ma io non credo a niente di quello che mi dicono, neanche una parola. A te, invece, qualunque cosa mi dirai, crederò. 
‐ Non posso mentire ancora! ‐ dissi tra me e me. ‐
Dopo quelle parole neanche una statua di marmo avrebbe potuto esimersi dal parlare. Era mia sorella e non meritava di essere presa in giro: del resto, ‐ pensai ironicamente
‐ anche un vecchio montagnardo francese mi avrebbe detto “Luciano, la vérité, l’apre vérité!". A quel punto una lacrima sgorgò dalla ciglia del mio occhio destro, ma rimase in bilico, quasi fosse stata strozzata anch’essa dall’emozione, e non volle cadere…‐ Non c’è più speranza! ‐ le dissi tutto d’un fiato mentre al contempo le stringevo la mano. Lei, sorprendentemente, ebbe una reazione che non mi sarei mai aspettato, di quelle che solo io, freddo per natura, avrei potuto avere…mi chiese senza tentennamenti:
‐ Quanto tempo ho ancora? Giorni? ‐ chiese, ferma e decisa. – Oppure soltanto minuti? 
‐ Non lo so, credimi, mm…‐ tentennai un po’, poi mi ripresi – qualche settimana, mi ha detto il prof per telefono, quando tu sei stata male, sabato scorso. 
‐ Bene! ‐ fece lei, con fare quasi sarcastico ed ironico. ‐ Allora siamo a cavallo, non credi? Pensavo avessi meno tempo, in fondo! 
‐ Tu sei tutta matta, ‐ esclamai io ‐ sei proprio mia sorella, lo sai? 
‐ Domani, Luciano, mi porterai la rivista di cui ti ho detto (la povera sorellina pensava ancora di potermi e dovermi aiutare a trovare l’abito per il mio matrimonio, quello “fasullo” di cui le avevo detto: di organizzarlo insieme a me… ma che importa; contava solo che vivesse attimi di serenità e, forse, di gioia insieme a me) e dopo…‐ Si fermò per un attimo, aveva avuto una fitta fortissima in mezzo alla fronte (effetto collaterale del Toradol), ma poi riprese:
‐ Prendi carta e penna, ‐ disse, ‐ devi aiutarmi a scrivere. 
A quel punto mi ammutolii per un attimo (sembrava quasi che fossi io ad avere un male che mi divorava dentro e che, di lì a qualche settimana, forse meno, mi avrebbe portato via da questa terra), mi venne in mente un aforisma della grande scrittrice e poetessa franco‐belga Marguerite Yourcenar (lo avevo letto da qualche parte, ma non ricordavo dove, però): "Dobbiamo entrare nella morte ad occhi aperti"…e lei, Sara, la mia dolce sorellina lo stava proprio facendo: ad occhi aperti e con coraggio, prendendo di petto (anzi, a calci nel culo!) la vecchia signora con la falce. 
‐ Dimmi, vecchia, (ogni tanto la chiamavo in quel modo, per prenderla in giro e farla arrabbiare) ‐  cosa vorresti fare con carta e penna: hai da fare testamento? Se non hai un soldo bucato! – esclamai. (Anche io, a quel punto, avevo ripreso le mie forze e riuscivo a reggere il suo gioco…ricominciavo ad essere ironico e un pò pagliaccio). 
‐ Una cosa del genere: ‐ mi rispose Sara ‐ devi aiutarmi a scrivere a tutte le persone che conosco, a cui ho voluto bene e che mi hanno voluto bene (erano tante, tra parenti ed amici: ma non mi scoraggiai). E poi voglio organizzare il mio funerale, voglio essere cremata e seppellita accanto a mamma e papà (la cappella di famiglia, quella dove riposavano i miei genitori, insieme ai nonni, era a Castellania, piccolo borgo dell’alessandrino di appena centocinquanta‐cent’ottanta anime, dedito alla viticoltura, in cui si passavano le vacanze estive: sù, in cima al colle di San Biagio che sovrasta l’abitato, vi è il piccolo cimitero in cui riposa anche il “campionissimo” Fausto Coppi; ‐ di li a poco anche lei…‐ pensai, tra me e me ‐ sarebbe stata lì). Sara a quel punto si bloccò un attimo e si asciugò una lacrima: poi continuò imperterrita a parlare e a darmi disposizioni sino all’orario di uscita. Nei giorni che seguirono, sino al venerdì 18 aprile, il giorno, cioè dell’antivigilia di pàsqua (sarebbe stato, insieme al successivo, quello cruciale), aiutai mia sorella a scrivere le lettere di cui detto (lei era fantastica, come al solito: scrisse anche una bellissima lettera all’ex fidanzato, in cui diceva di non aver rancore per lui, per il fatto che l’avesse lasciata due anni prima); poi lei aiutò me a trovare il vestito giusto per il mio fantomatico matrimonio (il suo, invece, glielo avevo comprato io, qualche giorno prima; cinquantanove euro in svendita – anche quel tipo di vestito, forse, risente della recessione – in un negozietto vintage in largo Belgio al quartiere Vanchiglia, poco distante dal centro). Stentavo a credere a tutto quanto stava avvenendo, cioè, stentavo proprio a crederci, letteralmente: non riuscivo a capire dove mia sorella prendesse tutta quella energia e quella forza interiore.
‐ Chissà, ‐ dicevo a me stesso ‐ se era opera di un dio o di un diavolo…avevo, però, altro da fare, in fin dei conti, e restavo, per così dire, agnostico. Alcune volte, tuttavia, il dolore (il suo, quello vero, alle braccia, o al collo, o al fianco destro) era insopportabile; mia sorella, però, mi toccava con la sua mano, dolcemente (era sempre la sinistra, quasi a tranquillizzarmi...lei, stranamente, lo faceva a me!) ed io capivo: allora Alfredo, o Gino, o la caposala Grimaldi entravano nella stanza, en passant, e ironicamente esclamavano:
‐ Bimbi, è l’ora della puntura (il Toradol era rimasto tal quale a prima: in aggiunta, però, li iniettavano una dose di Contramal da 1,5). Il venerdì suddetto arrivò. Entrai nella stanza: Sara era colorita in volto (per via della febbre, probabilmente, e della dose più alta di antidolorifici iniettatagli), la baciai sulla guancia destra. Nel frattempo entrò anche l’infermiera Sallusti, una milanese trapiantata a Torino, bionda e bella da impazzire.  Somministrò a Sara la dose di immunostimolante e poi le prese la temperatura:
‐ E’ scesa ‐ disse; poi andò via. Io ero uscito in corridoio, nel frattempo, a fumarmi una sigaretta (è da una vita che fumo le Merit senza filtro: più che fumarle, però, faccio due o tre tiri e poi le getto via; è per questo che consumo circa quattro‐cinque pacchetti da venti al giorno). Rientrai in stanza e mia sorella, di getto, cominciò a parlare. 
‐ Sai, Luciano, ‐ mi disse, decisa e sicura (sembrava quasi un kapò di Auschwitz!) ‐ penso che non importi, in fin dei conti, quanto tempo vivi né il tempo che trascorri su questa terra, a questo mondo: ciocchè conta, invece, è quello che hai fatto durante il viaggio, le persone che hai amato e ti hanno amato. Quello che conta è la vita terrena, non quell’altra che probabilmente non c’è, e se hai lottato e vissuto con fierezza, dignità e coraggio. Sai, fratellino – continuò ‐ pensa alle farfalle, che vivono una settimana soltanto da quando hanno terminato di essere crisalidi: giusto il tempo di fecondare…mentre ci sono persone che vivono cent’anni e passa ma non fanno nulla di buono. Questo pensiero bellissimo espresso con poche, essenziali parole in un momento così difficile e drammatico nella vita di entrambi (non era una stolta, tuttavia, mia sorella, lo sapevo: non a caso si era laureata in filosofia, a Roma, con tanto di lode sulla tesi) mi diede serenità e coraggio: avevo capito che lei, pur essendo atea come me, oltre ad entrare nella morte ad occhi aperti (come dice la Yourcenar) ed a sua volta coraggiosamente, era pronta ad affrontare la situazione senza patemi di sorta, con la ben chiara consapevolezza di ciò a cui andava incontro. Ironia della sorte, era proprio lei che in quel frangente riusciva a darmi buone sensazioni e, inconsapevolmente, a donarmi ancora una volta aiuto e sostegno morale. Il resto della serata, prima che tornassi a casa, lo passammo uno seduto sul letto e l’altra con la testa appoggiata sulle mie gambe. In quei momenti, dentro me stesso, pensai:
‐ Darei qualunque cosa, anche la mia vita, perché la mia Sara non dovesse fare quella brutta fine, scambierei più volte, persino dieci, la mia vita con la sua, ma…non si può avere sempre quello che si desidera nella vita! 
Terminato l’orario di visita ci salutammo e la lasciai (non sapevo, però, che quello sarebbe stato l’ultimo saluto tra noi, l’ultima volta che l’avrei vista in vita). L’indomani sera, infatti, arrivato sull’uscio della porta della stanza mi accorsi che il letto era vuoto. Si avvicinò a me il dottor  De Carlo e fece:
‐ Luciano, Sara è entrata in coma stamattina, alle dieci e trenta in punto. Abbiamo tentato di contattarti più volte ma il tuo cellulare era sempre senza segnale. Vieni con me, ti accompagno in rianimazione; animo dai! 
In effetti il mio cellulare era scarico dalla sera precedente: avevo disgraziatamente dimenticato di porlo sotto carica. Giunti in rianimazione, non ebbi il tempo di dire neanche un amen e…mi avvicinai al letto di  Sara, nella stanza con la luce rossa soffusa, e mi accorsi che non respirava; venne vicino a me, allora, il professor Anselmi e mi disse:
‐ E’andata, Luciano!
Erano le ventitrè, mia sorella non c’era più: non potevo crederci ma dovevo farlo.   Dentro di me pensai: 
‐ Ora sì che sono solo! 
Al tempo stesso, però, pensai che in quelle settimane dolorose ma anche, a loro modo spensierate, era stata proprio mia sorella che mi aveva insegnato a capire alcune cose sulla vita e l’esistenza: non fui io, invece, ad aiutarla a morire. Qualche settimana dopo, un venerdì, mi recai sulla tomba di Sara, nella cappella di famiglia, nel cimitero di Castellania. Lessi: "Sara De Bernardi, nata il 1°aprile 1988, morta il 19 aprile 2017".  Sotto le date, sul lato sinistro del marmo tombale, vi sono scritte in corsivo piccolo, coi colori bianco e nero, le seguenti parole (io stesso avevo incaricato il marmista, a tumulazione avvenuta, di farle incidere): "Tutto quello che hai visto ricordalo, perché tutto quello che dimentichi ritorna a volare nel vento" (Claudio Lolli, profeta di un sogno). 
‐ Parole stupende! – dissi tra me e me. – Ora, pensai, anche Sara è lì, insieme a Coppi, in compagnia dei miei genitori. La morte è uguale per tutti, la sola cosa che rende uguali a questo mondo. Tutti uguali dinanzi all’ignoto, solo e soltanto uguaglianza “per i piccoli come per i grandi”! Nel tragitto che mi ricondusse a casa, a Torino, in macchina, mi tornarono in mente anche alcuni versi, in latino, che mio padre spesso leggeva a me da ragazzino; facevano il paio, quelli (ironia della sorte, forse) con il pensiero che Sara aveva esternato a me, poco prima di lasciarmi per sempre: "Damna tamen celeres reparant caelestia lunae: nos ubi decidimus quo pater Aeneas, quo Tullus dives et Ancus, pulvis et umbra sumus". Sono versi di Orazio (la celebre ode dedicata a Torquato): il più realista, in fondo, dei poeti latini. Sottolineano la caducità e la precarietà delle vicende umane ed il fatto che né pietà, grandezza, onori o ricchezza possano sottrarre ogni essere vivente dal suo destino di finitudine (…di polvere e di ombra soltanto siamo fatti). Permeato di crudo realismo ma anche di velata speranza ed estrema dolcezza, giunto che fui sull’uscio di casa, era qualcos’altro: 
‐ Adesso sono davvero solo?! ‐ feci a me stesso; ‐ ma no che non lo sono, pensai poco dopo: d’ora in poi il ricordo di mia sorella sarà per sempre al mio fianco!   

Taranto, 17 dicembre 2017.                                               [email protected]