Non un suono, non un luogo, non una palpitazione...
Non un suono, non un luogo, non una palpitazione.
Solo assenza. Di lumi, di udito, di vista, di olfatto. A nulla serve la cornice di cinque sensi che attornia l’incontro. Solo un contatto. Solo tatto. Pura perdizione. Le voci della televisione e il chiacchiericcio dei vicini oltre le mura della stanza si annullavano nelle note della Fur Elize di Beethoven. Le cuffie piantate in testa, fuori dal mondo. Trasportato in un mondo di sogni solo dal senso dell’udito.
Incredibile come qualche nota, ordinata al giusto modo, riesca a insinuarsi nell’anima umana modificandone la percezione della realtà. La musica trasporta i miei sensi fuori dal vero. E dove mi trovo? Non qui, non in questo angolo di stanza. Non tra questi tre sorsi di caffè: perduto nelle mie fantasticherie, nei mari, in una superficie bianca senza spuma. Mare calmo. Mare agitato.
Finché la melodia cambiò ritmo.
Basta così. Non ascolto mai musica classica, anche se ho questo amore per la Fur Elize. Mi rilassa, disperde la mia ragione, il mio buonsenso che stressa ogni movimento che metto in atto. E’ così bello accendere la musica, di tanto in tanto, spegnere qualche neurone e passare la soglia di quelle stupende visioni che solo lei sa darmi, siano esse reali o fantastiche. Quella pelle…
Erano le otto meno un quarto. Avevo il treno alle venti in punto. Alzandomi carezzai inconsapevolmente la superficie della scrivania, immaginando di sfiorare ancora quelle lisce sinuosità. La musica insinua. Corsetta in bagno, una manata d’acqua in faccia, spazzolata ai denti, su il giaccone, giù per le scale, su e giù col pensiero ancora perso mentre le mani e i piedi eseguivano il tutto con il pilota automatico inserito. Passo su passo entrai nella stazione per prendere la solita linea. Le otto meno cinque, giusto il tempo di Can’t Get Enough Of Your Love Babe. Passo dopo passo giù per le scalette e un salto quasi a tempo sulla panca infondo al binario. Si voltò mezza stazione e mi scappò un sorriso consapevole di essermi lasciato trasportare troppo.
Il vociare delle persone presenti venne poi interrotto dal fischio del vento nella galleria. Alzai lo sguardo ai fili sospesi della galleria e notai il loro vibrare appena percettibile all’occhio: il treno stava arrivando. Due minuti ed ero a destinazione. Stavo bene.
‐ Numero 33. ‐ Non so per quale motivo mi sono sempre state antipatiche le pulsantiere numeriche dei citofoni. Punti di vista.
‐ Amore, puoi salire su? Non mi va tanto di uscire e poi fa freddo ed è da poco che mi è passato il raffreddore... – la sua voce era più calda del solito, ma triste.
‐ Sei pazza?
‐ Idiota, non c’è nessuno altrimenti che te lo chiedevo a fare? – replicò impaziente ma con una vena d’ironia, riprendendosi tutto d’un tratto – Sali!
Il cancello fece uno scatto. Lo aprii e mi diressi al portone del palazzo.
Ancora la pulsantiera…
Rilasciando un sospiro con una nuvoletta d’aria calda, digitai ancora quel maledetto trentatré e suonai il campanello. Le mani in tasca, spallucce, con la sciarpa intorno al collo e il freddo intorno alle braccia e sul viso ma con il calore del benessere che mi pervadeva il petto, presi a salire le scale.
Passo dopo passo risalivo le scale bianche ibride ricche di venature, mentre diventavo sempre più sensibile alle pulsazioni delle mie vene. Mi succedeva spesso, era una sorta di musa ispiratrice di pensieri che sussurrava al cuore di battere e, battendo, di vivere. Come una piuma di vetro azzurro che fluttua in un’aria densa di respiri condensati, un’aria liquida capace di lasciar planare il vetro e la pergamena sulla quale avrebbe inciso il succo del suo piumaggio. Un altro passo.
Immerso nella scia di polveri lasciata dalle piume azzurre di poeti e musicisti, improvvisamente risalì tra le infinite particelle che affollavano la mia mente. Lei, perché poesia, perché nota mancante sul pentagramma argenteo delle mie emozioni, nota che rende perfetta tutta l’armonia che vi si adagia. Filo di seta accuratamente intrecciato nella trama del lenzuolo che stringe il corpo della mia piuma. Soffio d’alito tra labbra socchiuse che saturava l’aria di questa densità, respiro di rosea dolcezza. Un nuovo gradino.
Sognavo tra le fessure delle mie palpebre quegli attimi di rumoroso silenzio, di tensione adagiata sotto la sua pelle chiara. Sognavo gli intrecci delle dita delle mani, i polpastrelli che sfioravano appena e sentivano troppo. Sentivo due onde rosee in tempesta e il dolce naufragio del mio tiepido vascello. L’annegamento delle sue parole, l’affievolirsi delle vocali e la chiusura in un sibilo delle consonanti. Un nuovo passo svelto nella moviola dei miei pensieri.
Le dolci acque dei suoi occhi, come laghi scuri paradisiaci tra il sale che affolla le spiagge col suo sapore inconfondibile. Le mani arrancavano sprofondando sempre più negli abissi, inesorabilmente, senza possibilità di risalire in superficie rimpiangendo il cielo e godendo dei fondali. E non esiste fondo più dolce del suo, dello spettacolo di coralli lucenti come rubini, morbidi, addolciti dalle calde acque dei fondali. E non esiste suono più dolce del canto di queste sirene e delle dee del vento che sussurra ai miei lobi il suo soffio di vita.
Un desiderio intenso e peccaminoso mi avvolgeva nelle sue correnti marine, sfiorava il mio mento, il mio collo, il mio petto... sfiorava il mio ventre e inebriandomi, stringendomi nella candida seta azzurra che filava attorno alla mia pelle.
Mi guardava.
Le scale erano finite.
“Fai volare questa piuma nel luogo che nessun uomo ha mai osato rivelare.”
C’era una frase che di continuo risuonava attraverso la mia stessa voce. Il suono non si propagava nell’aria, ma nella mia anima.
“Sono solo sensazioni”...
Le mie labbra schiuse continuavano a calcare mutamente quella frase. Mi avvicinai alla porta del suo appartamento e bussai il campanello. Dietro la porta mi attendeva Iris, col suo sorriso, i suoi boccoli color mogano belli come l’inferno, morbosi e possessivi come catene intrecciate, le sue dita sottili terminate da unghie che erano dolci pugnali, le punte di una trappola per l’uomo. La porta si schiuse calcando l’uscio con un po’ di difficoltà e potevo intravedere i suoi occhi azzurri attraverso i nodi della catena del chiavistello.
Lei lo aprì, con una strana espressione sul volto. Entrai. La Fur Elize aveva smesso di cullarmi.
La mia attenzione per un attimo di silenzio fu tutta per Iris mentre la porta si chiudeva in un secondo stridio sul pavimento la cui percezione fu ovattata come un urletto filtrato da un muro di spugna. Era come una foto d’arte in cui solo il soggetto prendeva colore; ed era grigio il pavimento di parquet, bianche le tende dorate, grigio ancora il tavolo da pranzo di ciliegio, nera la mensola scarlatta della libreria … tutti i colori perdevano saturazione per rendere grazie alle sue mani, alle sue labbra.
‐ Per quale motivo mi hai fatto salire su, piccola? – le richiesi, poco convinto della prima motivazione.
‐ Mia madre non c’è e avevo bisogno di approfittarne per stare un po’ sola con te. Devo dirti … una cosa … ‐ rispose mentre i suoi pugni vibravano leggermente. – io.. non posso … ‐
‐ Cos’è che non puoi? ‐
‐ Non ci riesco. – esitava sottovoce.
E la sua esitazione era la mia tensione, come una corda del pianoforte trattenuta dall’alto e in procinto di essere battuta col martelletto: essa sa già di non potere emettere alcun suono. E il silenzio fu il portatore del suo messaggio attraverso l’intensità delle sue pupille lucide puntate nelle mie. Quel silenzio mi innervosiva. Con lo sguardo nascosto afferrò il suo braccio con la mano, ma le tesi la mia. Guardai lo specchio dell’ingresso alla nostra destra, il jeans e la maglia azzurra che vestivano il suo corpo, la mia mano nella sua e le nostre dita che si sfioravano, si intrecciavano, si avvinghiavano l’una con l’altra. E ad un tratto quelle luci bellissime nacquero tra i riccioli sulla sua fronte: mi sentivo impallidire. I suoi occhi fissi nei miei resero d’un tratto in bianco e nero non solo i colori ma anche il tempo che ci circondava. La mia mano era intessuta nella sua, l’altra sul suo fianco stretto, sull’epidermide vellutata della sua schiena, le dita vivaci attorno alle fossette di venere. La mia luce la scaldava, la sua luce mi fondeva. Le mie labbra alla soglia delle sue, le sue labbra in un tremolo sulla soglia della pazzia e il mio viso, il mio collo, le mie spalle, le mie braccia, il mio petto, il mio ventre non desideravano altro che accoglierla. I secondi rallentati dal pallore dell’assenza in quella stanza, iniziavano a desiderare di smettere d’esistere e la loro volontà stava per avverarsi. Talvolta la realtà può essere rimpiazzata, e l’essere umano ha la piena facoltà di gestire lo sviluppo della sua: si possiede la possibilità di vivere in un modo o nell’altro il nostro contesto, e questo stravolge la nostra versione dei fatti. Ciò che resta è solo la poesia e il sapore di un corpo lasciato immergere nella nostra anima.
Non c’erano più scuse perché questo preambolo si prolungasse oltremodo. La magia era pronta per essere scoccata dalla punta della nostra bacchetta, era sufficiente pronunciare la formula giusta, la giusta combinazione di movimenti. E fu così che le mie mani sopraggiunsero al suo viso, impugnando la sua bocca nella mia: forti, decise, rigide.
‐ No … non farlo... … Ti amo Paolo. – Senza legame, senza collegamenti e l’unico senso che poteva trovare una sosta per le infinte ipotesi che si accalcavano era nascosto nelle parole che sprigionavano dal suo seno, dal suo ventre meno che dalle sue labbra tremanti e impedite, almeno fino a che un bacio, una boccata d’ossigeno per le mie membra soffocanti, non ebbe avuto modo di parlare più chiaramente, imponendosi al di sopra del suo arbitrio. Una dolce violenza scorreva nelle mie braccia, avviluppava nell’assuefazione ogni sua volontà trascinandola nel nostro regno del piacere.
I suoi fianchi divennero più morbidi, la schiena si inarcò, il vento soffiò dietro le tende incolori, dietro le sue orecchie attraverso le mie narici fino a che i suoi occhi non si spensero e si chiusero nella resa più totale. Un altro bacio. Un nuovo bacio. “Eri già partita, amore mio”.
La sua maglia morbida era adagiata sul letto, planata e atterrata con leggerezza, non lanciata. Potevo assaporare le sue spalle, ancora una volta, e godere dell’illanguidirsi del suo collo che portava pesante la sua testa all’indietro. E i suoi occhi divenivano preda dell’estasi perché la predatrice potesse provare l’ebbrezza dell’essere predata.
La sua chioma divenne la trama di una rete, il suo seno appena scoperto per l’impeto che si manifestava a tratti nei miei movimenti nel mio modo soffocato di afferrarla e portarla al mio corpo. Finché uno scatto non strinse improvvisamente le mie dita nel palmo e la pelle della sua schiena tra essi, e l’altra mano portò violentemente il suo bacino al mio inebriando le sue gambe, il suo sesso con la sensazione tattile della mia eccitazione a loro stretto contatto. Potevo percepirlo nei versi misti alla sua voce, ai suoi “no” di flebile resistenza e di scarsa credibilità. Mi invitava.
Le pareti, le lenzuola, le tenebre e l’acqua di vita che risaliva le nostre carni.
E all’improvviso nulla emise più un gemito, un fonema, un accenno di fiato, non un suono, non un luogo, non una palpitazione. Solo noi, solo la nostra pelle e la pulsazione repressa nei nostri polsi che sarebbe esplosa di lì a poco.