Nota incauta sull’Ossimoro
"Povero Bobby, erano quattro anni
che era morto ed era ancora caldo.
Un vero cadavere vivente
‐E com’era allegro!”
( Ionesco, La cantatrice calva).
Sinceramente ignoro – e la sincerità è pessima amante della letteratura – se l’ ossimoro sia stato mai affrancato dalla coazione dell’esercizio retorico e, reso oggetto di cura dai suoi incoscienti adepti.
L’ossimoro è pervaso da una invadente nuance, qualcosa di tenero e temibile ne rende tanto cauto l’utilizzo quanto prodigiosa la lettura; per sua grazia “piove in petto una dolcezza inquieta”… sussurra imperioso Montale in “Ossi di Seppia”. In tutta onestà cercherò di evitare ulteriori citazioni, non per metodo, ma per acquistare congedo da quel miraggio, consolidato nello sguardo della storia della letteratura, rappresentato dalle “figure retoriche”, tanto utili quanto non strettamente necessarie. Nessuna selvaggia apologia dell’ autodidattica – perché ogni vero autodidatta è abitato di continuo da una profonda umiltà, partorita da felici doglie d’incertezza – ma, una semplice constatazione: perché dedicarsi sempre e solo alla critica letteraria, senza mai soffermarsi allo stupore del lettore? Ammiro, imito i buoni lettori, merce rara e preziosa, come mercanti ebbri di storie, tesori provenienti da oriente e sempre in cammino verso l’occidente del pensiero.
Un excursus etimologico è d’obbligo nel caso dell’ossimoro, come, e forse più, di ogni altra figura retorica; Oxymoros, acuto e sciocco, la possibile e dispersiva fascinazione della paleonimìa tenga sempre in allerta il lettore. Ecco cosa accade quando si accostano parole opposte per significato, l’ossimoro è acuto e sciocco, si badi sciocco… non folle, in quanto la follia è sempre progenie di acume e sciocchezza.
Paradosso non eclatante è la stessa coincidenza tra nome e definizione: l’ossimoro stesso è già ossimoro, puro, irrisorio incanto del linguaggio, un arabesco sempre chiuso ed aperto, un limite diafano della parola.
In genere, ma mai regola, l’ossimoro chiude un verso, in alcuni casi, azzardati ed eroici, addirittura un concetto; è un sigillo in geroglifico che non permette un oltre ma lo lascia immaginare. In poche parole è come porsi di fronte ad uno specchio ma, paradossalmente, vedersi di spalle; si è di fronte a se stessi, potremmo alzare una mano, toccare con la punta delle dita le nostre labbra, ma non riuscire a vedere questa scena. Immagine caleidoscopica… inquieta e, per questo, carica di fascino. Ma nulla che un buon gioco di specchi non possa geometricamente realizzare! Ci sarà un motivo se il giullare ancora ride quando la corte è vestita a lutto… forse il pianto stesso del potente monarca?
Tutto assume l’indiscreta e gelida forma di una “impasse” . Alla lettura di un ossimoro restiamo fermi su quelle parole, invasi da stupore, ma con un intimo desiderio di fuga. Non credo esista spirito sottile che non abbia saggiato desiderio, inquietudine ed imbarazzo tra le pagine di un buon libro, così come un buon amante di “ogni primo bacio”.
Esistono anche azioni in ossimoro: pensiamo al terzo atto – scena seconda ‐ dell’ Amleto; artisti girovaghi rappresentano l’ assassinio del padre del principe danese da parte di Claudio. La dinamica dell’azione è giocata tutta sul paradosso; gli attori recitano, Amleto, corifeo, gode, il re è giudicato e condannato da un tribunale di straccioni che han messo in scena il pensiero di un folle. La disperazione saltella, in modo apparentemente indiscriminato, dal dolore celato del principe di Danimarca alla finzione degli attori… fino a giungere lacerante, nella coscienza del fratello omicida! Così Claudio scopre, in modo sarcastico e tragico, che la follia di Amleto è in realtà, acuta e dolorosa conoscenza dell’atto efferato da lui compiuto. La vera follia adesso è consegnata all’animo disperato di Caino. Il messaggio e la sentenza sono giunti per vie tanto ignobili quanto impensate; ora tutta la tragedia sarà l’effetto domino di quella pantomima. L’atmosfera è soffocante, Amleto incalza, i suoi commenti diventano di volta in volta sempre più chiari al fratricida, i commensali ridono, applaudono e si ingozzano ignari, i tremori della colpa ghiacciano Claudio sino alla sincope; il sudore gli gela le tempie, il volto… le spalle. La corona ora è un peso immondo ed insopportabile. La sala è un vortice infernale nello sguardo colpevole del re. Ora tutto è chiaro, ora tutto gli è stato svelato ma, allo stesso tempo, tutto è finito! La verità si è vestita di stracci per schernire e schiacciare la colpa. Per grazia di Atena, Ulisse è reso canuto e mendico per realizzare la sua vendetta… per riconquistare Itaca. Tutto questo non può che imbarazzarci e stupirci, non può non esser nel contempo… prodigioso e letteralmente tragico! Gli esempi si perdono; a dire il vero mi sarebbe bastato, in maniera molto più sintetica, citare il plautino Euclione e definirlo un “pezzente ricco”, ma la semplicità – dono perfetto – offenderebbe in modo irreparabile gli animi artificiosamente tormentati dei nostri tempi! Ma ci basti pensare che da vivi, immancabilmente, spendiamo buona parte dell’ esistenza pensando alla nostra morte – e Dio solo sa se potremo fare il contrario –, per sentirci di continuo abitati dal paradosso.
In definitiva l’ossimoro ci si presenta innanzi inesorabile e sorridente, ad ogni vero slancio del pensiero come un muro di diamanti, un prisma prezioso dove l’oltre ci è permesso solo come l’iridescente visione ottenuta attraverso un caleidoscopio.
L’ossimoro è un bacio, è prender dimora presso l’ amato senza varcare la soglia della sua anima, un sostare tra le sue labbra… sentirne scorrere il sangue in volto. Ma tutto questo resta un limite, un confine sempre desiderato ma non oltrepassabile. È deliziosa consolazione, osservare degli amanti intrecciar le mani, ed avere coscienza che sono inconsapevoli e teneri allievi… votati al continuo esercizio di un indefinibile ed incantato assurdo. Perché si sa, ciò che non può giungere ad una conclusione non può dirsi mai finito, e che nome dare a ciò che non ha mai fine… se non infinito?