Occhi di sole
Cammino lentamente a piccoli passi, decisi. Sono titubante circa la direzione dello sguardo: non so se fissarlo dritto in faccia, o se volgere il viso altrove. La paura si impadronisce della rabbia, amica infedele, che mi sta abbandonando. A dare un preciso assetto ai miei pensieri era lei, stratega evanescente. Dovevo prevederlo: i pensieri non sono le azioni. Lì, nella massa informe, sei tu a condurre il gioco. Qui no.
Percorro il corridoio stretto e lungo dell’albergo, illuminato solo da applique al muro, e associo involontariamente il colore rosso della carta da parati con quello del sangue. Sento il battito del cuore nelle orecchie. Ho caldo. Sto sudando. Lui, come al solito, è impassibile. Anaffettivo. Immobile. Non sembra stupito. Sul suo viso non leggo alcun entusiasmo. È a meno di tre metri da me. Credo non voglia guardarmi negli occhi. Abbassa lo sguardo. Chiude le palpebre. Toglie le mani dalla serratura della porta, dove stava per infilare la chiave, ora stretta nel palmo destro. Con la nuca tozza volontariamente contro la porta. Una e due volte, tre. Strizza gli occhi. Ingoia e mi chiede: «Che vuoi?» Io non riesco più ad articolare, con rigore logico, una frase di
senso compiuto. Ma non posso assolutamente rendere visibile tutto questo. E allora, mi schiarisco prima la voce. Poi respiro, lo guardo, ma non parlo. Non riesco a dire nulla. Lo guardo mentre i suoi occhi roteano verso l’alto a fissare il soffitto. Apre la bocca, sospirando. È attraente nel modo che solo lui può. E che solo lui sa. È affascinante come nessuno. E come sempre. Tuttavia gli dico: «Gli uomini come tesono solo capaci di ricevere. Quindi, cosa mai potrei volere?»
«Me lo chiedo anch’io» risponde lui con un cenno beffardo sul labbro che ora si sta grattando con l’indice sinistro. Le sue labbra sono carnose, ma non in un modo indisciplinato, eccessivo. I contorni sono netti, decisi, taglienti.
«Sono venuta perché ha bisogno di te una persona che in passato ti ha dato tanto. Le devi un piacere».
«Ambasciator non porta pena» sorride lui, non credendo nemmeno a una sillaba da me pronunciata. Infila la mano destra nella tasca del jeans, dove ha appena fatto scivolare la chiave, e poi, si tocca l’omero sinistro. È nervoso. È irrequieto. Non riesce a star fermo. Guarda oltre la mia figura, come se non esistessi. L’iride dei suoi occhi emana una luce, che tutta la luce cattura. Specchi catarifrangenti al cospetto dei quali mi sento sempre in forse. Ora le sue pupille cercano le mie, e io non sono più io. Scompaiono i contorni di ogni cosa, come nei dipinti ad acquerello.
«Perché mi guardi così? Mi infastidisci» replico con fermezza, vestita
di un’autorità fragile, ma mai inutile.
«Ah, sì?» dice lui con tono irriverente e irrispettoso, come se sapesse
tutto a prescindere da ciò che io decida di fargli sapere.
«Sì» gli rispondo.
Lui recupera la chiave dai jeans e apre la porta.
«Prego» mi fa con tono ironico, indirizzando il braccio destro
verso la suite. Così entro, prima di lui.
«Allora, sentiamo: con chi dovrei sdebitarmi?»
«Con Flavio. Vuole conoscere il nuovo assessore ai lavori pubblici
della tua città. Dicono che sia una donna particolarmente sensibile
al fascino della virilità. E tu – per dir così – dovresti esserne a conoscenza.
O sbaglio?»
«Vai avanti».
«Ad ogni modo, la ditta di Flavio deve vincere un appalto. Un
grosso appalto. Lui sa che, con la tipa, sei in buoni rapporti e confida
che non esiterai a fungere da intermediario. Ti ha prestato del denaro,
ricordi? E… ora… pretende un corrispettivo. Esige che la fiducia,
che da subito ha nutrito verso di te, sia ricambiata, così come
è richiesto agli uomini d’onore».
«Perché non è venuto lui? È lui che aspettavo, non te».
«Perché avrebbe dato troppo nell’occhio. D’altronde sei uscito di
galera nemmeno una settimana fa. Lo hai già dimenticato?»
«Grazie per avermelo ricordato».
«Di nulla».
«Stai con qualcuno?»
«Perché vuoi saperlo?»
«Ti ho chiesto se stai con qualcuno» tuona lui agitato, camminando
verso di me fin quando non ho le spalle al muro.
«No. Non sto con nessuno».
«Sicura? O lo dici perché ti faccio paura?» mi fa lui mentre con le
mani mi cinge i polsi, stringendoli forte.
«Non ho paura».
«Sicura?» mi chiede mentre stringe ancora più forte.
«Sicura».
«Nemmeno ora?» insiste lui, facendo salire la mano sinistra sino
al collo, che mi stringe piano, ma con insistenza.
«No, non ho paura di te».
«E sbagli».
«No, non sbaglio».
«Ti dico che sbagli. Dovresti stare lontano da uno come me. Lasciami
perdere. È meglio così, fidati».
Apre la porta, che non ha nemmeno il tempo e la forza di sbattere
violentemente e, sillabando, mormora: «Dimentica tutto, dimenticati
di me».
Esco dalla stanza dell’albergo; vorrei prendergli il braccio, strattonarlo e impedirgli di andar via. Ma lui si ferma. Due imbianchini stanno restaurando una suite vicina alla stanza che ha appena ospitato le nostre paure. Portano fuori vari complementi di arredo. C’è un comò che ha impedito a lui di avanzare rapidamente e non può
ancora fuggire via da me, da noi. I due imbianchini stanno ora trasportando uno specchio enorme e, mentre attraversano la larghezza esigua del corridoio, lo inclinano. Posso ancora vedere lo sguardo di lui che, attraverso la lastra di vetro, mi guarda: i suoi occhi sono rossi e lucidi. Ingoia, ma una volta che lo specchio è stato addossato
alla parete, il passaggio è tornato libero e lui va via. Come cascate impetuose, scivola sulla superficie vetrata ogni tentativo di comprensione.