Ombre Cap 11

Capitolo 11‐ L'ultimo rintocco della campana

Non parlo con nessuno da giorni, forse settimane.

Per me non è un problema, sto semplicemente ricambiando la stessa cortesia a cui sono abituata.

Se l'intero ospedale vuole vedermi come una persona strana, perché deluderle?

Tutto sembra aver perso di valore, importanza e significato. Tutto ha il sapore amaro di una bugia.

Stiamo solo apparentemente prendendoci cura di persone malate di mente, ma siamo cieche o, peggio ancora, nel mio caso, consapevoli ma indifese contro qualcosa che ruba non solo la salute e la vita dei nostri pazienti ‐ la morte stessa fa parte della vita, l'ho imparato fin dall'inizio del mio lavoro ad Abbey Hill ‐ ma la loro stessa anima, la loro cosa più sacra.

Qualcosa che dovrei essere in grado di proteggere sia come infermiera che come suora.

Ma sembra più semplice fare solo ciò che è possibile e ragionevole. Sento altre suore affermare che possiamo solo condurre i nostri pazienti al limitare della vita. "Il passo successivo e ciò che accade dopo non sono responsabilità nostra, sono già nelle mani del Signore".

Vorrei tanto che lo fossero.

Ascoltando espressioni di tale saggezza, i miei compiti diventano ancora più insopportabili da portare a termine. Parlando con i miei pazienti, ho la dolorosa sensazione di star loro mentendo, promettendo che staranno meglio, mentre so che c'è la concreta possibilità che nessuno di loro starà meglio, nemmeno dopo la morte, in questo posto. E questo sta accadendo qui, sotto gli occhi di tutte, ma nessuno lo vede.

Quando sono in giro, non volendo fingere di sentirmi meglio, con la coda dell'occhio riesco a vedere i loro volti passare dal disappunto alla pietà mentre mi osservano fingendo di non vedermi, con la stessa espressione di inevitabilità che vedo sui loro volti ogni volta che uno dei nostri pazienti è vicino alla fine.

Nemmeno piangere mi aiuta più. Mi sembra di arrendermi e non voglio. Provo solo rabbia, così tanta rabbia come non ho mai provato prima in vita mia.

Nel profondo, so che sbaglio a sentirmi così, Suor Sophia non sarebbe felice di sentirmi parlare così, ma non posso farci niente.

Probabilmente a causa di tutto quello che è successo, mi sento come fossi chiusa in una stanza senza porte ne’ finestre per far entrare la luce.

Trovo conforto solo quassù, seduta per ore sul tetto dell'ospedale, passando dalla finestra della stanza quadrata sotto il campanile, quella con le croci alle vetrate.

Visto da quassù, tutto sembra piccolo, lontano, un po' meno banale e più sopportabile. Ma la mia rabbia è ancora con me, quieta per un momento, ma ancora lì.

Cercando di ricordarmi chi sono e perché sono venuta qui, non posso fare a meno di sentirmi come una povera piccola creatura nelle mani di qualcosa di enorme e completamente fuori dal mio controllo, come la piccola pietra che ho in mano in questo momento.

Dovrei essere in grado di appoggiarmi sulla mia fede e confidare negli eventi, ma non riesco a trovarne traccia.

E...

E poi la campana suona di nuovo.

È così forte e inaspettato il rintocco, qui vicino al campanile, che la pietra salta dal palmo della mia mano e inebetita la guardo saltare e rotolare, saltare e rotolare finché finisce oltre il bordo del tetto.

All'improvviso, un'altra campana inizia a suonare, dentro di me. Mi confonde, è assordante, ma suona, ancora e ancora...

Cos’ho visto? Non riesco a capire, ma qualcosa mi scuote improvvisamente dall'interno.

Non sono sicura di cosa stia succedendo, raccolgo un'altra piccola pietra tra le tegole del tetto e provo a ripetere lo stesso movimento. E di nuovo la guardo saltare e rotolare, saltare e rotolare finché non finisce oltre il bordo del tetto.

Oltre il bordo... A chi appartenevano queste parole? Dove le ho sentite? Di chi è la voce che sento improvvisamente parlare dentro di me?

No, non c’entra nulla la pietra. È qualcosa che la mia memoria sta cercando di dirmi, di ricordarmi... E non ha niente a che fare nemmeno con il tetto... È solo quella parola... Oltre...

Sono certa che troverai la risposta che stai cercando se oserai guardare oltre te stessa...

Oh, mio... Suor Sophia... Sei tu...

Mi siedo sul tetto, piangendo di nuovo dopo giorni in cui i miei occhi sono stati aridi come il mio cuore, inalando e sentendo il mio petto aprirsi dopo tanto tempo a ogni singhiozzo.

La mia gola non pare larga abbastanza da lasciar passare tutte queste lacrime, eppure, mi sento come se respirassi per la prima volta, come un neonato al primo vagito.

Quando il mio respiro affannoso si placa un po', mi alzo e lentamente, con attenzione, cammino verso il bordo del tetto. Quando ci arrivo, provo vertigini e un improvviso leggero capogiro, guardando laggiù. È così in alto...

Penso di aver sentito qualcuno urlare laggiù, ma a causa della distanza, è improbabile che possano riconoscermi. Forse possono indovinare, ma questo non mi disturba. C'è qualcosa che devo capire.

Sai che non puoi farlo perché hai dei limiti.

Sì, ora riesco a vedere, alla fine. La paura è il mio limite. Paura di fallire, paura di cadere, paura di morire.

Ora immagina la tua volontà senza limiti.

E capisco. I miei limiti sono solo nella mia mente. L'unico ostacolo che mi impedisce di fare ciò che so di dover fare sono io stessa.

All'improvviso un dubbio angosciante, come una mano che mi afferra la camicia da dietro. E se mi fossi semplicemente ingannata? E se le mie sorelle avessero fatto bene a limitarsi ai loro doveri ragionevoli? Pensavano che Suor Sophia fosse impazzita. E se avessi seguito le sue orme nella follia?

Ma se n'è andata. Ora è al sicuro... O forse no?

Per un momento sento il tetto scomparire sotto i miei piedi. Forse essere ragionevoli è giusto, dopotutto, e non sono costretta ad affrontare un compito impossibile.

Abbasso lo sguardo sui miei piedi, cercando un fondamento per il mio pensiero, e lo sguardo mi cade sul piccolo crocifisso che tutte indossiamo appeso ad una catenina.

Se osi guardare oltre te stessa

E mi inginocchio, di nuovo, piangendo e ridendo allo stesso tempo.

"Perdonami", prego, ridendo ancora con le lacrime che mi scorrono sul viso, "perdonami, Madre. Sono davvero una povera piccola cosa"

Il pensiero nella mia mente ora è molto chiaro e molto ragionevole...

E se Gesù fosse stato ragionevole quando i soldati vennero ad arrestarlo? E se fosse stato ragionevole quando Pilato gli chiese se fosse o meno il Figlio di Dio? Quante volte avrebbe potuto essere abbastanza ragionevole da sfuggire al Suo destino e salvarsi la vita? Forse oggi avrei il simbolo di un uomo più ragionevole appeso alla mia collana invece di Lui sulla croce.

Nonostante i miei sciocchi dubbi, sento il perdono scendere sulla mia testa, accarezzarla come una mano premurosa. Immagino che anche Suor Sophia stia ridendo, di me e con me.

Alla fine, mi alzo. Allungo la mano verso la finestra per rientrare e scendo nella mia cella nel dormitorio dove finisco di scrivere queste note.

Sono qui da ore ormai. Il polso mi fa male. Gli occhi mi bruciano.

Ma il mio cuore è calmo ora, dopo non ricordo quanto tempo. Sento che ogni evento della mia vita, ogni passo che ho fatto da quando ero bambina era destinato a condurmi a questo momento.

Preparerò l'olio per la lanterna e stasera scenderò per la scala sotto il campanile, nel seminterrato.

So che c'è una parte di esso, al di sotto della sala d’ingresso principale, giù nelle fondamenta, vietata a chiunque, persino alle Sorelle Anziane. Sono sicura che lì troverò il luogo che sto cercando, la Sala delle anime, anche se immagino che ora sia in rovina. Lei sarà li ad aspettarmi probabilmente...

Ma devo trovare un modo per aprirla e dare una degna sepoltura a quei poveri resti, e poi... E poi forse sarò in pace con me stessa e con le persone a cui tengo.

Quando tornerò...

No, devo considerare ogni possibilità.

Se tornerò, scriverò la fine di queste note.

Altrimenti, spero che qualcuno trovi questo diario nel buco nel muro dietro il crocifisso e porti a termine il compito ciò che io non sono riuscita ad affrontare.

Se questa è la Sua volontà.