Orfeo ed Euridice o dell'amore perduto
‐ Orfeo, cosa significa ascoltare? – Chiese la musa Euterpe.
‐ Vuol dire distinguere i vari suoni, vuol dire analizzare le varie sorgenti che li producono, ‐ rispondeva il giovane.
‐ Chiarisci meglio, ‐ precisò la musa
‐ Distinguere il cinguettio degli uccelli dal gracidare delle rane, o il tremolio delle foglie dal fruscio dell’astuta volpe che, alla ricerca della preda, calpesta l’erba secca. Questo è sapere ascoltare, ‐ puntualizzò Orfeo.
‐ Adesso dimmi quali sono le caratteristiche del suono? – Continuò la maestra pignola.
‐ Il timbro che fa distinguere uno strumento dall’altro, il flauto dalla lira ad esempio; l’altezza che corrisponde all’intonazione del suono; la durata che corrisponde alla lunghezza del suono; ed infine l’intensità, ovvero la forza che produce il suono, ‐ aggiunse con chiarezza concettuale il piccolo alunno.
‐ Quante sono le note musicali? – domandò la Musa
‐ Sono sette e corrispondono alle prime lettere dell’alfabeto che utilizziamo per scrivere i nostri sentimenti: alfa, beta, gamma, delta, ipsilon, zeta, eta, ‐ disse il bravo ragazzo, che aggiunse: ‐ ogni volta che si suona il nostro cuore canta, e al suono nel contempo bisogna abbinare le parole.
‐ Bravissimo! Adesso dimmi il ritmo cos’è? – Domandò, stimolandolo, Euterpe.
‐ Il ritmo è il ritmo, è la pulsazione del cuore, il ritmo è il susseguirsi delle parole di un discorso, il ritmo è la gioia della vita, il ritmo è la vita stessa: la nascita, l’amore, l’arte, la morte. L’amore è ritmo e rende l’uomo simile ad un dio. Come la fiamma è l’espressione ritmica del fuoco che arde, così la passione amorosa che fa pulsare il cuore è ritmo.
‐ E la musica? ‐ Domandò ancora la musa
‐ L’arte, nel suo complesso, esprime tutti gli stati emotivi dell’uomo. Possa ogni uomo, come mio padre Apollo, impossessarsi di tutte le arti! Con esse ogni individuo potrebbe imparare a leggere e ad interpretare tutti i suoi stati d’animo, potrebbe evitare tante sciagure, potrebbe sedare l’odio, potrebbe allontanare l’orgoglio, potrebbe abbandonare la stupidità, potrebbe sentirsi veramente libero, libero dalle inibizioni, libero dagli stereotipi, libero dalle costrizioni, libero dai ricatti psicologici e non, e… Tra tutte le arti, la musica è quella che rende veramente liberi perché fa sognare e fa navigare la mente nel mondo dei sogni. Tutti possiamo partecipare al canto ed ascoltare liberamente la musica che è l’arte che possiamo sentire tutti, e che tutti possiamo comprendere perché il suo è un linguaggio universale. La musica esprime i sentimenti ed anche i sentimenti amorosi che sono in ciascuno di noi, e riesce a scrutare nel profondo dell’animo anche delle persone più aride e superficiali; la musica dà vita anche alle cose inerti, alle cose senza vita, la musica scuote gli animi e li rende miti, la musica fa vibrare l’aria fino a far muovere le foglie degli alberi, ‐ rispose con prontezza ancora il preparatissimo scolaro.
‐ Sei bravissimo, hai le idee chiare, Orfeo. Riferirò a tuo padre della tua bravura. Ma adesso canta e fammi ascoltare il suono echeggiante della tua melodiosa lira, ‐ disse alfine Euterpe.
Era un genio, una meraviglia quel ragazzo. Cantava e suonava, ora piano, ora forte, poi abbassava la voce, poi l’alzava, d’un tratto faceva una pausa, poi iniziava con voce sottile quindi continuava con voce rauca, ora mormorava...
E così Orfeo iniziò a cantare Amore e vecchiaia, accompagnandosi con le note della sua armoniosa lira:
Cos’è mai la vita,
cos’è mai la felicità senza l’aurea Afrodite;
potessi io morire quando…
…… …
quando giunge la vecchiaia
l’uomo diventa turpe e brutto,
e tristi ricordi gli tormentano l’animo,
non gode più nel vedere la luce del sole,
diventa odioso ai fanciulli,
rifugge dalle donne.
…
E, come la primavera stagione ricca di fiori,
…
così noi per il tempo infinitesimo
godiamo dei fiori della giovinezza
per dono degli dei non conoscendo né il male né il bene.
Ma vicino a noi stanno le tetre Sorti,
l’una ha in suo potere la fine della funesta vecchiaia,
l’altra della morte: il frutto della giovinezza dura un minuto
in qualunque luogo si diffonde la luce del sole.
Ma non appena sarà trascorso
questo tempo allora è meglio morire
piuttosto che vivere.
….
E’ come un sogno di breve durata l’amabile giovinezza.
Dopo incombe la vecchiaia, fastidiosa e brutta, che rende deformi;
la vecchiaia, al tempo stesso odiosa e ignobile.
… E, poi, continuava a cantare, vibrando al tempo stesso le liriche corde. Euterpe, ogni volta rimaneva sempre più soddisfatta per avergli insegnato in modo magnifico e sublime a suonare la lira, e l’ascoltava incantata:
Mi sembra beato come un dio
quell’uomo che siede di fronte a te
e ascolta le tue soavi parole standoti vicino
e tu innamorata sorridi. Ciò mi sconvolge
il cuore nel petto.
E non appena ti guardo,
non trovo più le parole,
la lingua mi si spezza
e un fuoco sottile
ad un tratto si diffonde sotto la pelle
e la vista si offusca
e ronzano le orecchie
e divento madida ed un tremore
mi scuote tutta…
Orfeo, era venuto al mondo in seguito alla relazione amorosa che Apollo aveva avuto con la musa Clio. Apollo poi lo aveva educato ad amare tutte le arti con le sue nove muse, poi gli aveva donato una magnifica lira e aveva ordinato alla musa Euterpe di insegnarli la musica e a cantare. Imparò, in brevissimo tempo, il giovane Orfeo che suonava e cantava in maniera così magnificamente incantevole che scuoteva l’animo di ognuno che l’ascoltava e, ogni volta che suonava la lira, tutti gli abitanti del circondario diventavano attenti e ascoltavano quella meravigliosa musica: le belve dimenticando d’essere belve stavano l’una accanto all’altra a sentire le melodiose note senza azzannarsi, stavano vicini beati e senza farsi del male il lupo e l’agnello, gli uccelli cinguettando contenti svolazzavano nell’azzurra aria, e le foglie degli alberi stormivano in sintonia con le note musicali. Fu grazie alla sua musica melodiosa, divina, che gli Argonauti riuscirono a trovare il Vello d’oro ed a superare tutte le avversità che incontrarono lungo la spedizione.
E grazie alla conoscenza di tutte le arti dell’uomo e soprattutto della musica, Orfeo aveva acquisito un animo gentile, amorevole, buono, sincero, nobile.
L’educazione che gli era stata impartita aveva trasformato il suo bisogno di vivere, grazie alla gioia e ai godimenti provati, verso i quali la natura spontaneamente porta la mente e l’anima, in quello di vivere unicamente per la felicità provocata dalla musica e dall’amor verso gli altri.
Per ciò Orfeo amava ogni cosa ed ogni essere vivente, ogni cosa amava Orfeo, ogni essere vivente amava Orfeo:
E numerosi erano gli uccelli
che volavano intorno al capo suo;
e i delfini stando dritti sull’azzurro mare
danzavano al ritmo dell’incantevole canto.
Orfeo era solito passeggiare e suonare la lira per i prati e i boschi della Tracia, trasportando con sé ogni cosa. Attraversando, un giorno, un campo verde, puntellato qua e là di margherite gialle, di fulgidi papaveri rossi e di viole odorose, vide una bella fanciulla dai capelli dorati e dai lineamenti a dir poco divini. Gli sembrava una dea quella giovane che si trastullava canterellando, felice e contenta, con in braccio un grosso mazzo di fiori ed un ramo di mirto che aveva raccolto dianzi. … e a lei la capellatura le spalle adombrava e la schiena. Euridice, questo era il suo nome, esprimeva il modello di bellezza e naturalezza che Orfeo istintivamente s’era creato nel suo animo. E a quella visione, Afrodite aveva fatto insorgere improvvisamente in Orfeo il desiderio amoroso.
Allora Orfeo, avvicinatosi, intonò una melodia con la lira in accordo con la canzone della ninfa, la quale per un attimo, ascoltando quel suono, si zittì, guardò dalla parte del musicista e, subito dopo, continuò a cantare come per incanto:
E l’acqua gelata sussurra tra i rami di un melo,
e tutto il campo di roseti
è adombrato,
e allo stormire delle foglie
sopore si diffonde.
Continuarono per tanto tempo a cantare ed a suonare. Orfeo si beava ad ascoltare la voce soave della ninfa, ed Euridice godeva nel sentire le melodiose note emesse dalla dolce lira. Lui suonava e lei cantava assieme a lui in sintonia:
Tal desiderio d’amore
aggrovigliatosi attorno al cuore
mi annebbiò la vista,
portandomi via dal petto la dolce anima.
Questo canto fece acquistare coraggio ad Orfeo che domandò: ‐ Come ti chiami, o bella fanciulla che ti trastulli tra i fiori di questo bel prato? Io sono Orfeo, figlio di Apollo.
‐ Mi chiamo Euridice, ‐ rispose con grazia la ninfa.
‐ Ti ho finalmente incontrato, o Euridice, io ti cercavo anche se ancora non ti conoscevo, eri nei miei sogni, ‐ confidò senza esitazione Orfeo
‐ Orfeo, ma cosa dici? Non ci conosciamo per niente, ‐ rispose la dolce creatura Euridice, diventata rossa in viso per pudore.
‐ O Euridice, io già ti desideravo, il tuo sguardo, il tuo sorriso, la tua grazia divina, i tuoi capelli, la tua immagine, tutto era sciolto ma fermo nella mia mente da tanto tempo; tu, tutte queste cose, le possiedi all’unisono; e il solo vederti e il sentire la tua incantevole voce portano refrigerio al mio cuore che sta già bruciando di amorosa passione per te, ‐ aggiunse spontaneamente Orfeo.
‐ O dolce Orfeo, mentre dici queste parole un incontrollato desiderio di te mi avvinghia. Il cuore mi batte così forte che sembra voglia sfondare il mio petto. Il sangue mi percorre tutte le vene producendo un gran calore che effonde in tutto il corpo. Non è un caso che tu sia capitato qui, ma è per volere della grande Afrodite, che ha inviato il figlio Eros facendomi bersaglio dei suoi dardi amorosi, ‐ precisò con un nodo alla gola la bellissima Euridice.
Mentre si scambiavano queste dolci parole, Orfeo ed Euridice si adagiarono sulla fresca e morbida erba del prato e continuarono a cantare e a suonare:
Niente è più dolce dell’amore;
e ogni altra cosa è marginale:
ho espulso dalla bocca addirittura il miele.
Nel frattempo, gli uccelli saettavano liberi nel cielo e con il loro cinguettio volevano forse istintivamente condividere la contentezza e la felicità dei due giovani già innamorati. Le farfalle, dai mille colori, svolazzando da un fiore all’altro, facevano da cornice mobile a quel quadro meravigliosamente incantevole.
Si addormentarono, beati e felici. Orfeo dormiva con il capo posato sul seno della sua tenera compagna sdraiata sulla soffice erba, e questa posava il suo delicato braccio sul petto dell’ammaliatore per caso.
Si erano innamorati, forse senza avere ancora consapevolezza dell’amore, lei ascoltando la musica meravigliosa prodotta dalla divina lira, lui ascoltando la voce penetrante e indimenticabile di lei. Avevano già costituito una coppia perfetta sia in musica sia in amore.
Quando si svegliarono, il crepuscolo avanzava velocemente ed allora, cantarono e suonarono ancora:
O Espero, che riporti tutto ciò
che la splendente Aurora scacciò via,
riporti la pecora,
riporti la capra,
e riporti alla madre la figlia.
Quando smisero di cantare forse era buio, ma la luna luceva in cielo col suo candido splendore luminoso. Euridice stava accomiatandosi per ritornare nella propria dimora, ma Orfeo la fermò tenendola per un braccio e le disse: ‐ Fermati, o dolce amore, fammi gustare ancora per un attimo la grazia che effonde nell’aria dai tuoi penetranti occhi mentre su nel cielo piena è la luna. La tua figura è mille volte più incantevole di quella della dea Afrodite, il tuo viso delicato emana dolcezza e incanto. Vorrei dirti tante cose, ma il pudore mi frena nel parlare.
Euridice, scossa nell’animo ancora una volta da quelle parole, si divincolò con delicatezza e andò via. Andava con passo svelto voltandosi, di tanto in tanto, la fanciulla per due motivi, per essere sicura che ciò che le era capitato quel giorno non fosse un sogno e per poter guardare il suo novello amore fino all’ultimo istante. Subito dopo, i due si trovarono come erano prima di incontrarsi, soli e col cuore scosso, ma per poco tempo ancora perché nei giorni seguenti s’incontrarono, suonarono e cantarono insieme, e sdraiati sull’erba si baciarono saziando il loro desiderio d’amore.
Orfeo amò appassionatamente Euridice ed Euridice amò con altrettanto fervore Orfeo. Si amarono, e continuarono ad amarsi. L’uno era fatto per l’altra. Decisero di sposarsi.
Capitò, tuttavia, che, in quei giorni, Euridice, meravigliosamente ancor più bella e armoniosamente più gentile, era andata, per rendere piacevolmente più allegra e vivacemente briosa la sua cerimonia nuziale, che si sarebbe svolta l’indomani al tempio di Afrodite, a raccogliere fiori. In un giorno di primavera, tra cerfogli e trifogli, tra violette e ranuncoli, raccoglieva grosse margherite dai lunghi steli e variopinti crochi e candidi gigli, in un verde prato dove pascolavano casualmente le bianche pecore di Aristeo, un pastore figlio d’Apollo e della ninfa Cirene. Aristeo, era un uomo molto ingegnoso e laborioso, che aveva scoperto come si poteva ricavare più lana e più latte dalle pecore, aveva trovato come si otteneva il formaggio dal latte, e aveva capito il modo di allevare le api e di estrarre l’ottimo miele dagli alveari. Un grande scienziato per quei tempi. Aristeo viveva in un mondo tutto suo, amava ciò che era bello e naturale, sapeva tutto sulla pastorizia e sulla natura, ma non sapeva niente in merito di donne, non sapeva come comportarsi con loro. Era abituato, libero com’era, di prendere tutto ciò che di bello la natura offriva senza chiedere niente a nessuno. E quel giorno, mentre suonava la zampogna e controllava le pecore al pascolo, vide la candida Euridice, solitaria nel prato a raccogliere i fiori, con i capelli che, accarezzati da un lieve venticello, formavano una chioma ampia attorno al suo incantevole capo.
La fanciulla, resa in quei momenti ancor più bella dal grande mazzo di fiori variopinti raccolti che teneva stretto al petto con un braccio, per la sua bellezza destava in ogni uomo, che aveva la fortuna di guardarla, un grande desiderio amoroso, così come era avvenuto per Orfeo. Aristeo si avvicinò a lei e fece rumore per farsi scorgere, ma non ebbe fortuna, suonò allora il suo strumento cantando parole d’amore: ‐ vieni a me, o dolce fanciulla, che solitaria vaghi per i verdi prati, vieni e soddisfa il desiderio che mi scioglie le membra al solo vederti.
Euridice, innamorata e ormai fedele ad Orfeo, anche se scossa nell’animo da quelle frasi ammalianti, negò i complimenti e ritornò di corsa alla sua dimora. Non fece sapere alcunché dell’accaduto al suo innamorato per evitare che s’ingelosisse e si preoccupasse. Il giorno dopo, mentre si recava vestita di un candido velo al tempio per le nozze attraversò lo stesso prato, lungo il percorso vide una macchia di variopinti crochi e le venne la voglia di raccoglierli. Indugiò un attimo. Li osservò con meraviglia! Tanto erano belli! Li raccolse in gran copia.
Mentre stava china sul prato a recidere gli steli di quei profumati fiori, ecco avvicinarsi di nuovo Aristeo che il giorno precedente le aveva cantato quelle dolci frasi coinvolgenti. Era tanto grande l’effusione amorosa che il pastore provava che, con le braccia allargate, si spinse in avanti per afferrarla e abbracciarla. Ma Euridice se ne accorse in tempo, gli lanciò addosso quel bel mazzo di fiori che aveva già raccolto e fuggì. Corse senza guardare dove metteva i piedi, corse all’impazzata, corse come una forsennata, come un’ossessa senza una meta. Non voleva recare dispiacere ad Orfeo, il suo grande amore, e nemmeno a se medesima. Aristeo, abituato a cogliere tutto ciò che gli capitava, la inseguì per averla, come racconta il Poliziano:
Udite, selve, mie dolci parole,
poi che la ninfa mia udir non vole.
La bella ninfa è sorda al mio lamento
E ‘l suon di nostra fistola non cura:
di ciò si lagna il mio cornuto armento,
né vuol bagnare il grifo in acqua pura,
né vuol toccar la tenera verdura;
tanto del suo pastor gl’incresce e dole.
Euridice, tuttavia, fedele e innamorata pazzamente di Orfeo non cedette al corteggiamento del pastore, che gridava amore per lei rincorrendola, e continuò a correre. Fuggendo, andò per campi rocciosi, e durante la frenetica corsa mise inavvertitamente e sfortunatamente un piede su una serpe velenosa che la morse, mentre il serpente stava arrotolato a rigenerarsi con i tiepidi raggi solari. Si fermò Euridice per il forte dolore, s’inginocchiò, pianse perché non poteva camminare, pianse perché si rese conto, guardando quei due puntini rossi che aveva sulla sua esile e candida gamba, di essere stata morsa da una vipera, pianse perché non avrebbe potuto vedere per l’ultima volta lo sguardo del suo uomo, perché non avrebbe potuto ascoltare più le note melodiose del suo incantevole amato, perché non lo avrebbe giammai potuto amare, perché da giovane abbandonava la vita.
Orfeo, preoccupato per l’inconsueto ritardo dell’amata incominciò a disperarsi, andò a cercare la sua Euridice. Dopo un’affannosa ricerca la trovò distesa sulla radura, pallida, immobile, quasi esanime, ma respirava ancora. Erano gli ultimi aliti. La sollevò con le braccia e la portò al suo petto. Orfeo la strinse fortemente a sé e, piangendo, incominciò a suonare e a cantare. Suonò ininterrottamente: ‐ Ti amerò per sempre finché in me ci sarà l’ultimo respiro, o mia soave Euridice. Ti prego non abbandonarmi, non posso vivere senza di te. Ti prego lotta contro la morte, pensa a me. Non lasciarmi solo!
Forse l’avrebbe potuta salvare se avesse succhiato con la bocca il sangue dalla ferita infetta, ma non lo fece perché in quel momento fu colto dall’angoscia. Voleva tanto bene alla sua amata, la volle accarezzare, la volle baciare, la volle guardare fino all’ultimo respiro e poi…. E poi la perse per sempre!
Euridice, come attratta da una forza sovrumana, fu risucchiata negli inferi, accompagnata dai gemiti e dalle grida di Orfeo che vide l’anima dell’amata allontanarsi lentamente e definitivamente da lui fino all’ultimo afflato. Piansero tutti i pastori e le ninfe della Tracia per quella morte senza senso. Pianse Aristeo, angosciato per la scomparsa dell’amata e per averle causato la morte di Euridice. Il suo animo rozzo non gli suggerì altro, se non quello di sacrificare vacche e tori agli dei per espiare la sua funesta colpa.
Orfeo, disperato, incominciò ad errare per il mondo, piangendo continuamente, e angosciato maledisse gli dei che avevano permesso la morte dell’innocente Euridice. Giurò di rimanere fedele alla sua amata e che non avrebbe amato altra donna per sempre. Si consunse per il dolore, finché rimase privo di forze, morì, dicono, ucciso con ferocia dalle Baccanti, e andò ad abbracciare per l’eternità la sua Euridice.
E con una lama bronzea
il capo gli recisero,
e poscia lo gettarono nel tracio mar
con la lira inchiodata,
perché insieme fossero trascinati via dal mare,
bagnati dalle cerulee onde.
E alla sacra Lesbo il mare
schiumeggiante li portò:
e un suono intrattenne
come da una lira dolce
il mare e le isole e le spiagge,
e ivi l’armonioso capo di Orfeo
gli uomini sotto terra posero,
e sulla tomba l’incantevole lira misero,
che smuoveva pure i mutoli sassi
e di Forco l’acqua odiosa.
Da quel dì i canti e
l’euritmica arte della lira
sono tenuti nell’isola,
tra tutte la più musicale.
(Le poesie riportate sono nell'ordine di: Amore e vecchiezza ‐ Mimnerno,
Mi sembra beato come un dio ‐ Saffo, Simonide,
Immagine di fanciulla ‐ Archiloco,
E l’acqua gelata sussurra tra i rami di un melo ‐ Saffo,
Innamoramento ‐ Archiloco, La dolcezza dell’amore ‐Nosside, Il tramonto ‐ Saffo, La favola di Orfeo – Angelo Poliziano, La morte di Orfeo ‐ Fanocle)