Padri e figli
Dove ora c’è l’acquario, a casa mia, una volta c’era un pianoforte verticale. Faceva un bell’effetto, con il seggiolino di finta pelle e la lampada fissata sul leggìo. Era omogeneamente scordato di mezzo tono e perciò quasi tutte le canzoni che imparavo ad orecchio avevano delle tonalità impossibili, si bemolle, mi bemolle, la bemolle.
Dopo tre anni di pallosissime lezioni avevo abbandonato le mie velleità artistiche. Come tutti i principianti avevo imparato a suonare solo i soliti classici, “Alla Turca”, “Per Elisa”, tutte quelle musiche per le quali quel genio di Massimo Civetta coniò una apposita categoria: “la classica commerciale”. Per qualche anno ho profondamente odiato il pianoforte, poi ho cominciato a considerarlo un bel mobile. Verso i quindici anni riprovavo a ticchettare timidamente sui tasti quando ascoltavo la musica allo stereo. L’orecchio non era male e così, come i bambini che smontano le macchinette per vedere come funzionano, mi divertivo a suonare appresso ai pezzi che mi piacevano di più per carpirne il segreto. Le quinte che poggiavano sulle dominanti, gli accordi di settima maggiore, di nona, le diminuite. Ad ogni tensione attribuivo una sensazione. Maggiore uguale enfasi, minore uguale impasse, settima minore uguale aspettativa, settima maggiore uguale consapevolezza, nona uguale piena risoluzione. Più andavo avanti più si complicavano le tensioni più il discorso tra me ed il pianoforte si faceva interessante.
Nella stanza c’era anche il divano su cui mio padre amava adagiare le sue membra di ritorno dal lavoro. Può darsi per la stanchezza, può darsi anche a causa del suono conciliante del pianoforte, fatto sta che iniziava a russare violentemente. All’inizio mi ricordo che mi dava particolarmente fastidio, per un adolescente era davvero irritante mischiare l’arte con altre emissioni sonore, lo trovavo umiliante; così il concerto per archi e corde percosse, di solito, terminava nel momento in cui iniziava quello per trombe e tromboni. Poi, un po’ per necessità, un po’ perché in fondo ero io che avevo invaso il suo territorio, iniziai a convivere con quella strana situazione. Il ronfare era ritmico, di lunghezza pari a due battute piene. La tonalità era stabilmente ancorata al “fa” basso. Modificai, dunque, la struttura della musica per far sì che la mia arte rientrasse pienamente nei canoni della sua improvvisazione. Le tensioni dei giri armonici si dovevano sciogliere necessariamente al ritmo di due battute, così come le parti melodiche non potevano allontanarsi dai solidi binari della tonica, la scala del “fa”.
Chissà, se ci avesse osservato qualche psicologo della terapia familiare da dietro uno specchio finto, forse lo avrebbe trovato un interessante esperimento per risolvere le tensioni ed i conflitti tra padri e figli.