Pantera
Sembra assurdo, ora, ripensare a quanto fossi diversa prima di quel giorno. A volte ricordo a malapena chi fossi, come mi sentivo...
Tutto della mia vita passata sembra così incolore nei miei ricordi, grigio, senza alcuna sfumatura. Ora, invece, ogni colore, ogni singola emozione sembra così intensa, profonda, a volte quasi dolorosa.
E non mi sono mai sentita così viva prima.
Il "Nero e Rosso" apriva alle sette per l'happy hour, ma sapevo che entro un'ora sarebbe stato affollato di clienti in attesa dei loro tavoli già prenotati.
Ecco perché avevo preso il mio appuntamento con il misterioso signor Daimon nella mattinata, quando il locale è chiuso ai clienti ma il personale lavora all'interno per preparare tutto per la serata.
Ricordo ancora quanto fossi nervosa quel giorno. Avevo scelto il mio abbigliamento migliore per il colloquio, disposto strategicamente: una maglia nera sottile a collo alto sotto una camicia bianca a collo aperto come top, per mostrarmi professionale, e la minigonna con le calze nere su tacchi neri per non apparire troppo rigida.
La giacca nera era stata il mio tocco finale preferito. Avevo raccolto i miei lunghi capelli neri in uno chignon per mettere l’ampio colletto bianco della camicia sopra il colletto della giacca e liberare il collo. Avevo studiato ogni singolo dettaglio per non dare un'impressione sbagliata ed essere presa in seria considerazione: la mia tesi di laurea era in gioco.
Ma non ero preparata ad essere esaminata come fece lui. Nessuno mi aveva detto che era abituato a non fermarsi alle apparenze. Nessuno mi aveva detto che era un lettore di anime.
Il signor Daimon era leggermente in ritardo per il nostro appuntamento perché era impegnato a finire di fare qualcosa, mi aveva detto il cameriere che mi aveva accolto, che indossava un gilet color vino con un distintivo sopra, con la parola "volpe" scritta sopra. “Padron Daimon si scusa”, aveva detto, “e le offre un aperitivo mentre lo aspetta e un tour del locale, se di qualche interesse”.
Padron Daimon, presi nota mentalmente.
Non volevo apparire così maleducata da rifiutare la sua offerta, ma volevo rimanere lucida per il mio colloquio, quindi chiesi semplicemente al cameriere (Volpe?) di non esagerare con la gradazione.
Sembrò esaminarmi per un momento, forse persino leggermente divertito da qualcosa, poi si inchinò e mi lasciò per tornare poco dopo con un Martini rosso, con l'immancabile oliva, al centro del suo vassoio argentato.
Girando per il locale, a prima vista, era evidente che sia la cucina che la cantina fossero pronte ad offrire generosamente tutto ciò che un locale da prima serata può offrire: antipasti, affettati, diversi tipi di formaggio e una buona selezione di vini. Era un po' strano vedere così tanto cibo disponibile ma nessun cliente lì, in quel momento.
Il signor Daimon arrivò circa venti minuti dopo, scusandosi di nuovo, gentilmente ma in modo asciutto. Rimasi un po' sorpresa perché mi avevano detto che di solito era piuttosto elegante mentre ora indossava dei semplici jeans e un maglione scuro con le maniche arrotolate che mi ricordavano una foto di Steve Jobs che avevo visto sulle mie riviste preferite.
"L'attacco è la miglior difesa", pensavo a quel tempo, così, subito dopo essermi presentata di persona, dopo la mia richiesta telefonica di intervistarlo, iniziai a spiegargli il mio progetto: una sorta di osservazione sul campo del tipo di clienti che di solito venivano a nel suo locale. Gli promisi ed assicurai niente interviste ai clienti, niente questionari per loro, niente seccature. Loro avrebbero continuato a godersi la loro serata indisturbati. La mia sarebbe stata solo un'osservazione "in tempo reale" per creare una sorta di grafico che descrivesse il tipo di clientela e il momento in cui frequentavano il locale ‐ inizio o tarda serata ‐ come una sorta di mappatura umana urbana. La mia osservazione avrebbe dovuto durare circa un mese e per tutto questo, ovviamente, avevo bisogno del suo permesso.
Ero così presa dalla mia spiegazione che non avevo notato il cambiamento nella sua espressione.
Mi stava guardando molto seriamente, quasi irritato, o almeno così sembrava.
"In cosa ti laurei?", mi chiese, serio ma asciutto.
"Sociologia", fui felice di spiegare, "è la branca della scienza che studia..."
"So cos'è", mi bloccò. Chiusi la bocca e curiosamente sentii come se una pressa pneumatica mi stesse improvvisamente schiacciando e comprimendo la testa. Per qualche ragione scusarmi non mi parve la cosa migliore da fare.
"Sociologia...", disse di nuovo, come inseguendo un pensiero, guardandosi intorno, "penso che sia possibile, ma... Se raccogliessi dati che non puoi usare?"
Non aveva senso per me, "cosa intende, esattamente?"
"Esattamente", ripeté, "quello che ho detto. Vuoi osservare i miei clienti, i loro consumi e le loro abitudini comportamentali qui dentro, o sbaglio?"
"Beh...", accidenti, pensai, non avevo ancora preparato il mio piano di lavoro, quindi non ero sicura di cosa avrei voluto osservare nello specifico, e perché, "io... no, credo che lei non si sbagli"
"Quindi, ti chiedo di nuovo, cosa succede se raccogli dati che non potrai usare nella tua ricerca?"
Sentii il terreno mancarmi sotto i piedi, la mia preziosa intervista improvvisamente in pericolo, ma non potevo essere insincera.
"Mi scusi, non sono sicura di aver capito cosa intende", dissi, sentendomi persa, "qualsiasi dato di osservazione dovrebbe essere utile nella ricerca sul campo, anche un dato negativo è un dato che dice qualcosa, solo il non‐dato non dice nulla"
"Ne sei sicura?", quasi rise, ma per qualche ragione, si trattenne dal farlo.
"Torna stasera", disse, come se stesse piazzando una scommessa, "quando apriremo. Ti aiuterò a raccogliere i primi dati e a iniziare il tuo lavoro nel modo giusto".
Uscendo, ero abbastanza soddisfatta di quel cambio di programma ma per qualche motivo, mi sentivo a disagio.
Alle 19.30 c'era già la fila alla porta del "Nero e Rosso". Un omone in nero addetto alla sicurezza con sulla giacca il badge con la parola “Muro” rendeva onore al suo nomignolo, smistando i clienti e scandendo gli ingressi. Il bancone del bar all’ingresso era affollato di clienti allegri che vociavano da una parte all'altra per richiedere i loro antipasti preferiti.
La grande sala interna apriva alle 20.00 e tutti aspettavano di sedere ai loro tavoli sorseggiando intanto vino e aperitivi.
Quando dissi alla sicurezza (Muro?) che non ero una cliente ma avevo un appuntamento con il signor Daimon, quello diede una rapida occhiata alla sua lista e senza dire una parola mi lasciò oltrepassare la porta girevole, tra i commenti delle persone in fila, facendo appena un cenno al cameriere al bancone.
Quando chiesi del signor Daimon, al cameriere del bancone, che aveva la parola "Denti" scritta sul suo distintivo, lui mi invitò ad incontrarlo al suo tavolo, sul mezzanino di fronte all'ingresso, che era universalmente noto come "il suo ufficio" da dove supervisionava l'andamento della serata, godendosi, nel frattempo, il suo bagno di folla e umanità.
"Folle umanità" la chiama ancora oggi, da lettore dell'anima che non sapevo ancora fosse.
Nonostante il mezzanino fosse aperto ai clienti e affollato come al solito, non c'era un solo tavolo piazzato a meno di tre metri dal suo e nessuno, personale o clienti, infrangeva quella regola, a meno che non fosse richiesto.
Quando lo incontrai ‐ ora potevo dire che era vero ciò che si diceva: era elegantemente vestito di raso nero ‐ stava finendo di assaporare l'oliva del suo cocktail, mi invitò a sedermi con lui continuando a guardarsi intorno e poi "Sono sicuro che stasera farai una buona osservazione", disse, dandomi brividi che non riuscii a spiegare a me stessa.
"Sta aspettando qualcun altro, signor Daimon?" gli chiesi, notando che continuava a guardarsi intorno.
Penso quello sia stato il primo momento in cui mi guardò veramente, quella sera, e lo fece in un modo... Sentii il suo sguardo trapassarmi da parte a parte.
"No", disse, "ma sono abbastanza sicuro che succederà qualcosa. Succede sempre"
Solo per impedirgli di continuare a guardarsi intorno muovendo la testa come fa un ventilatore d'estate, "tutti i suoi dipendenti hanno nomi buffi?", chiesi.
"Cosa intendi, mia cara", disse, mettendosi a suo agio, finalmente parlando con me.
"Il tipo della sicurezza all’ingresso ha la parola Muro sul suo distintivo, il cameriere al bancone ha la parola Denti scritta sul suo, quello che mi ha servita stamattina aveva invece Volpe. È normale, qui?"
"Già al lavoro, vedo..." disse, sorridendo come lo Stregatto di Alice. "Quando faccio le mie selezioni del personale”, continuò, parlandomi lentamente ed irritantemente come fossi una mentecatta, “e le faccio personalmente, do ai miei futuri dipendenti la possibilità di cambiare il nome con cui vogliono essere chiamati. La mia unica regola è la verità"
"La verità?" Risposi incuriosita, "Cosa intende?"
“Essere reale, veri con sé stessi e con gli altri. Non chiedo altro. È una specie di regola della casa”
“Non sono sicura di aver capito”, ed ero molto reale, in effetti.
“Do ad ognuno la possibilità di decidere che persona vogliono essere qui dentro, in base a ciò che loro sentono dentro. Una rosa, anche con un altro nome, avrebbe lo stesso profumo, non lo sai?”
“Questo è Shakespeare... Ma ancora, non capisco cosa chiede”
“A dire il vero, non so nulla di chi sia il mio staff fuori da qui o cosa facciano durante il loro tempo libero. Perché dovrei, dopotutto? Ma per quanto riguarda il qui...” e si guardò di nuovo intorno, “Volpe, per esempio, il mio maître di sala, laggiù, è un tipo scaltro che preferisce non confrontarsi mai con nessuno, ha il suo modo di aggirare qualsiasi ostacolo e risolverlo, alla fine, il che per me va bene. A Denti, il mio guardiano di porta, d'altra parte, piace mordere quando fa sesso, me l'hanno detto alcune delle mie clienti, e la mia fonte è piuttosto affidabile. Stecca...”
“Oh, ho sentito parlare di lui e immagino il motivo dietro il suo nomignolo”, dissi ridendo, sentendomi intelligente per una volta, di fronte a lui.
“E sono sicuro al cento per cento che anche tu, come molti prima di te, ti sbagli!” mi bloccò di nuovo, e di nuovo mi sentii comprimere.
“Il padre di Stecca era un pastore”, disse, “uno di quelli che portano pecore e capre al pascolo, capisci? Quando lo assunsi mi disse che da bambino era affascinato dal modo in cui suo padre usava il bastone per guidare il suo gregge. Non lo usava mai per picchiare i suoi animali ma era sufficiente che il gregge vedesse quel bastone nella sua mano per seguirlo ovunque senza mai perderlo di vista. Lui era orgoglioso di non aver mai perso un solo animale nella sua vita, penso che tu capisca l'importanza di un fatto del genere per un pastore”
Annuii, “quindi, decise di ispirarsi a suo padre?”
“Non a lui, solo al suo bastone, al suo potere, al suo carattere e al suo carisma. A quanto pare, con i suoi bambini non era docile come con i suoi animali”
Il discorso di Daimon fu improvvisamente interrotto da qualcosa che vide al piano di sotto. Abbassai lo sguardo e vidi una donna con un anonimo soprabito grigio.
“Chi è?”, chiesi
“Non lo so”, disse, “ma credo che sia la tua lezione per stasera”, disse, e prima che potessi chiedere altri dettagli
“Volpe!”, chiamò, dalla balaustra, poi a me “cosa vedi, osservandola?”
Non sapevo cosa cercare, quindi dissi solo “una donna con un soprabito grigio? Chissà perché non lo toglie... Fa abbastanza caldo qui dentro”
Mi guardò con aria delusa, “hai gli occhi ma non vedi”
“Cosa vede lei, allora?”, chiesi a mia volta, piccata.
E Daimon, come se pensasse ad alta voce mentre leggeva la realtà davanti a sé
“Sulla quarantina, sciatta, dall'aspetto stanco ma non da oggi, vestita sobriamente ma senza colore...”
“Forse è qui per una coincidenza o un errore”, provai a indovinare, “non sembra una delle sue clienti abituali, anche perché è da sola”
“Non credo alle coincidenze”, disse, “e non è qui per un errore, anche se non riesce ad ammetterlo neanche a sé stessa”
“Cosa intende dire? Cosa non riesce ad ammettere?”, chiesi, passando con lo sguardo da lui alla donna in grigio, mentre cercavo di leggere la realtà attraverso i suoi occhi.
“che sta cercando…” disse laconico Daimon.
Sentendomi confusa e con la sensazione di non afferrare ciò che mi si stava manifestando davanti dissi ancora “ma cosa?”
“Non sei qui per osservare?”, sogghignò, “osserva allora” e strizzando gli occhi aggiunse “seno grande, non celato, non sembra indossare reggiseno, più probabilmente trascurato, non gli viene data importanza sotto quel soprabito e quella maglia sotto. La gonna, anche se leggermente sopra le ginocchia, pur se aderente, è stata indossata per non evidenziare le sue curve”
“Mio Dio, che occhio di falco! C'è altro?” come donna ero sinceramente sorpresa e anche infastidita dal numero di dettagli che riusciva a cogliere.
“Continua ad osservare, forse imparerai qualcosa di nuovo, stasera”, ghignò Daimon.
Non so per quanto tempo Volpe fosse rimasto lì, dietro di noi, a rispettosa distanza, senza dire una sola parola, in attesa di istruzioni.
“Padron Daimon?”, disse semplicemente, quando lo notammo
“Cosa ha ordinato il tavolo numero cinque?”
"La signora in grigio?", disse, e per qualche ragione, non mi sorprese che avesse la stessa capacità di osservazione del suo Padrone, "uno spritz rosso senza oliva"
Daimon pensò a qualcosa per un momento, poi, "assicurati che quello spritz finisca sui suoi vestiti. Avvisa Bruto, digli di aspettare in lavanderia"
"Signore...?", notai l'espressione stupita di Volpe e Daimon che gli torreggiava sopra,
"Tutto chiaro?", disse
"Certo, signore, ma... Bruto?"
"Segui semplicemente le mie istruzioni. Quando hai finito, dai una buona mancia all'esecutore e la serata libera. Scegli un novellino e digli che non ci sono problemi, lo aspettiamo domani, come al solito. Tutto chiaro?"
"Sì, signore", era evidente che Volpe avesse deciso ancora una volta di essere diplomatico.
Daimon si sedette, "e ora, osserviamo"
Mi sedetti anche io, anche se ero turbata, "Ho sentito parlare dell'effetto Rosenthal ma questa è manipolazione. Non sta accadendo spontaneamente, qui. Questa è sicuramente una cosa che non posso usare"
Si voltò lentamente verso di me, ancora quell'espressione delusa sul viso.
"Hai gli occhi, ma non vedi ancora, comunque", disse e fui tentata di alzarmi e andarmene.
Dalla balaustra, vidi il maître di sala passare l'ordine a una giovane cameriera e vidi sul suo viso lo stesso stupore che avevo visto sul viso di Volpe, lo stesso passaggio di ordini e la stessa silenziosa accettazione.
Quando mi voltai, Daimon mi stava osservando intensamente, come cercasse di leggermi dentro. Sono sicura che poteva vedere i suoi ordini eseguiti attraverso i miei occhi.
"A proposito, chi è Bruto?", dissi, per rompere il silenzio tra noi, "non ne ha accennato prima"
"Non prima di adesso", precisò, "ha lavorato in un mattatoio prima di venire qui e ha mantenuto i suoi modi peculiari per fare amicizia, lo vedrai presto con i tuoi occhi"
"Non le faranno del male, vero?", non potei trattenermi dal chiedere
"Tutto l’opposto", disse, sorridendo
Lo spritz stava viaggiando verso il tavolo numero 5, attraversando la marea di tavoli affollati su un vassoio oscillante. Lo vidi volare e atterrare sulla gonna della donna in grigio che balzò in piedi come avesse visto un topo sotto il tavolo, la sua espressione inorridita e poi... Contrita, invece che infuriata, come mi sarei aspettata. Per un attimo mi chiesi cosa stesse succedendo...
Vidi Volpe avvicinarsi alla signora, annuire alla cameriera che era scomparsa tra la folla, verso la cucina, mentre alla signora veniva detto di seguire un altro cameriere ‐ non sentivo niente ma le loro espressioni parlavano più forte delle parole ‐ verso il retro del locale, la lavanderia, il privé...
Volpe alzò lo sguardo verso di noi per un attimo, vidi le labbra di Daimon pronunciare la parola privé senza emettere un suono e il maître di sala annuire leggermente.
“Vieni, mia cara, scendiamo, è ora della tua lezione”, stava sogghignando Daimon, io stavo quasi infuriandomi.
Percorremmo un corridoio nascosto, parallelo ai servizi igienici, il cui accesso era invisibile se non noto, e giungemmo all'ufficio amministrativo. Qui Daimon tiro’ una corda sottile in nylon, quasi invisibile, e una tenda che mi ricordò la cortina sul ritratto di Dorian Gray si aprì in due rivelando un enorme specchio.
"Dobbiamo specchiarci, adesso?", dissi, "Non ho bisogno di uno specchio per sapere come mi sento"
Daimon sorrise, divertito. Poi spense la luce e lo specchio si rivelò pieno di luce proveniente dalla stanza vicina, come una finestra al sole.
"Uno specchio unidirezionale!", dissi, stupita e ‐ non potei evitarlo ‐ eccitata.
"Mai giudicare un libro dalla copertina, mais non, ma cher?" Ghignò Daimon e premendo un paio di pulsanti sulla consolle dell'impianto stereo, riempì l'ufficio dei suoni provenienti dal privé.
Lo scenario sembrava quasi drammatico. Il cameriere se n'era andato lasciando la donna sola nella stanza mentre un robusto e muscoloso magazziniere, con indosso un gilet sporco e macchiato ‐ Bruto, probabilmente ‐ stava finendo di impilare con le sue mani enormi alcune scatole di bottiglie di birra. Mi ricordava un culturista sudato, solo molto più sporco.
"Mi scusi", disse la donna timidamente, "sto cercando la lavanderia..."
"Sei sicura?", disse l'uomo, guardandola rozzamente, "non stai cercando una bella scopata?"
"Prego?", rispose la donna sorpresa
"Oh sì, so che ti piace pregare, ce l'ha scritto in faccia", disse l'uomo mentre le si avvicinava, pulendosi le mani con uno straccio che doveva aver visto giorni più puliti.
"Come si permette..." provò a protestare la donna
Iniziai a preoccuparmi per lei e chiesi a Daimon "è sicuro che non le accadrà nulla? E se si sbagliasse? Sembra a disagio”
“A volte le cose non sono come sembrano, mia cara”, fu la sua laconica risposta, che mi fece solo arrabbiare di più.
Al di là dello specchio, Bruto stava sfacciatamente infilando una mano sotto la maglia della donna afferrandole visibilmente un seno e stringendolo forte mentre la donna colpiva invano le sue spalle in un disperato e debole tentativo di reagire.
Non potevo più sopportare quella scena, la libertà per me aveva un valore fondamentale e ciò che avevo davanti agli occhi la negava decisamente.
“Per favore”, iniziai a implorare, “fermi tutto, non mi interessa più della mia tesi. La lasci andare e basta”
“Guarda”, disse Daimon, immobile
“Non voglio più guardare, non è giusto”
“Ho. Detto. Guarda”, Daimon scandiva ogni singola parola come se fosse una palla al piede che mi inchiodava lì, “Prova ad andare oltre i tuoi limiti. Stai ancora guardando con i tuoi occhi invece che con i suoi. Ecco perché non riesci a vedere”
Mi allontanai dallo specchio, raggiungendo l'angolo più lontano della stanza, ma non potevo fare a meno di vedere la scena aldilà di esso.
Bruto, allentando la presa con un sorriso animale sotto la barba ispida, si era allontanato dalla donna che era crollata a terra mentre lui si annusava le dita come se volesse inalarne l’odore fino al cervello.
"Come ti chiami", chiese il selvaggio con un bofonchio.
"Gloria..." rispose lei, con voce atona, come se la sua mente se ne fosse andata lasciando lì solo il suo corpo. E Bruto, sempre sorridente come un gatto davanti a un topo, "togliti la maglia, Gloria!"
Alle mie orecchie, il nome di lei sulle labbra di lui suonava in modo strano, distorto, ma i miei occhi erano ben aperti quando la vidi togliersi la maglia sfilandosela dalla testa, vedendole sul viso l'espressione di qualcuno che può fare solo ciò che gli viene detto.
Bruto le si avvicinò di nuovo e vidi il suo sesso esposto, fuori dai pantaloni, un enorme verme di carne flaccida e mi sentii disgustata da lui.
"Succhialo... Gloria!"
Davanti ai miei occhi sbalorditi, sebbene insicura, lei lo prese piano con le dita, come temesse di fargli male, e ci mise le labbra sopra, baciandolo, leccandolo e succhiandolo delicatamente, visibilmente imbarazzata di non saperlo fare. Mi sentii male per lei.
Poi Bruto, ridendo rocamente, le afferrò i capelli all’altezza della nuca e iniziò a spingerle il sesso in bocca, fino alla gola, lentamente ma a fondo, con violenza, sembrava raggiungerle lo stomaco mentre i suoi peli pubici riempivano il naso di Gloria e lei sembrava incapace di respirare e vicina a vomitare.
Ciò che fermò le mie reazioni di colpo fu notare che le braccia di Gloria, abbandonate sul pavimento all'inizio, si sollevavano lentamente e tenevano dolcemente le gambe di Bruto. Parevano non volerlo disturbare.
Bruto, con l'altra mano, le stringeva il seno, tirandole i capezzoli, visibilmente più eccitato nel vedere l’imbarazzo sul suo viso. Gloria visibilmente si sforzava, faceva del suo meglio per compiacerlo, mentre lui le spingeva il sesso in bocca come uno che non avesse toccato una donna da secoli. E capii che non era violenza la sua solo il suo modo di farlo, brutale, selvaggio, animale.
La gola di Gloria emise un suono gorgogliante che conteneva poca angoscia, lo si sarebbe definito un gemito eccitato.
"Ti piace, vero? Ti piace sentirlo in gola", grugnì Bruto, sorridendo eccitato. Guardai Gloria e all'improvviso iniziai a realizzare. La stanza era vuota, la porta d'ingresso era spalancata, avrebbe potuto provare a scappare, ma non lo aveva fatto. Poteva reagire, mordendo quel sesso forzato nella sua bocca, ma non lo aveva fatto.
Anche ora, potevo vedere senza ombra di dubbio, non era il sesso dell'uomo nella sua bocca ad eccitarla ma il fatto di esserne dominata in modo cosi bestiale. Senza alcun rispetto. Sembrava, piuttosto, che più Bruto la usasse per soddisfarsi, più lei ne fosse eccitata.
Come se Bruto avesse sentito i miei pensieri con il suo modo animalesco di percepire le persone, portò una mano tra le cosce di Gloria ritirandola con qualcosa che gocciolava dalla punta delle sue dita.
"Sei fradicia! Ti stai bagnando come una cagna in calore e non me lo dici nemmeno?"
Ancora più eccitato dalla sua scoperta, iniziò a spingerle il sesso in bocca ancora più violentemente di prima, tanto che temetti per la mascella di Gloria, ma non avevo dubbi che le piacesse perché’ le sue mani afferravano le gambe di Bruto per aiutarlo a spingere nella sua gola.
Con un brontolio che sembrò provenire dal suo stomaco, Bruto uscì dalla bocca di Gloria esplodendole con un urlo selvaggio su tutto il viso, sulle labbra, spruzzandole e gocciolandole, denso e lattiginoso sulla lingua e nella bocca, ancora aperta.
La tenda si chiuse all'improvviso, coprendo la scena. Per tutto il tempo in cui avevo guardato la scena, Daimon aveva osservato me. Potevo facilmente intuirlo dall'espressione del suo viso.
"Basta, per stasera", sorrise compiaciuto.
"Cosa intendevi dimostrare?", gli chiesi, la mia mente stava ancora raccogliendo immagini e pensieri a cui non avevo mai pensato prima.
"Lo vedrai nei prossimi giorni", disse, mentre tornavamo nella sala principale.
"Cos'altro", dissi, "Gloria ha avuto la sua avventura e domani tornerà alla sua solita vita noiosa finché non ne avrà di nuovo voglia”.
"Non essere sempre così sicura, mia cara", disse, insopportabilmente sicuro di sé, "questo è solo un nuovo inizio per Gloria"
"Cosa intendi?", chiesi di nuovo. Ma non mi rispose più.
Una settimana dopo un ampio sorriso gli illuminò gli occhi quando Gloria tornò al "Nero e Rosso" abbigliata in modo completamente diverso, chiedendo espressamente di vedere Bruto.
Ero senza parole.
"Sapevi che sarebbe successo", gli dissi.
"Te l'avevo detto, mia cara. Il suo viaggio è appena iniziato", disse, mentre mordeva l'oliva dal suo Martini bianco secco.
Aveva ragione. Il viaggio di Gloria era appena iniziato. E anche il mio. Quella notte lasciai la mia vecchia me stessa e il mio vecchio nome alle spalle.
Quella notte era nata Pantera.