Parentesi di Sudan
Il clima era insopportabile, un caldo afoso e umido che non faceva sconti e l'odore che vomitava il suolo era nauseabondo, un misto tra piscio, escrementi e residui di cibo. La gente inoltre passava le giornate riversa per terra, a non far niente, ad aspettare che il tempo passasse senza un perché. Mi guardavano come si guarda un oggetto lontano, con lo sguardo stanco di chi ha appena aperto gli occhi dopo una notte di sonno. Anche loro puzzavano, dello stesso appiccicoso puzzo della strada. Il silenzio era interrotto, ogni tanto, dal gracchiare di corvi che si contendevano i resti di un gattino smembrato e corroso dal sole o dal frusciare dei cavi ad alta tensione, sempre scoperti, che arrostivano gli uccelli che incauti vi si appoggiavano. Era il luogo più lontano che avessi mai visitato, fisicamente e non, da casa mia. Eppure, seduto sul ponte della barca, a guardare il porto pieno di navi logore, arrugginite ed affondate e quel vecchio con le cataratte negli occhi intento a calciare un grosso topo lontano dalla sua scodella, mi sentivo in pace. A casa, o come diavolo si voglia chiamare.