Periferia

"Artù, il cesso sembra un campo profughi senegalese."
"Shh..."
Un garage, utilizzato come laboratorio da un serigrafo e da un clavicembalista, s'affaccia su una minuscola corte interna, costretta tra quattro bassi palazzi. E' estate, l'afa addosso è umida e pressante come un accappatoio riscaldato dopo una doccia gelata. Cantano le cicale, in quel continuum potenzialmente eterno, qualche macchina passa nel silenzio ovattato della periferia.
Due ragazzi stanno seduti su un paio di sgabelli, con le schiene poggiate contro una delle quattro mura erose dallo smog, dal tempo e dal muschietto che s'abbarbica sopra e in mezzo ai mattoni, accompagnato dalle erbacce. Lo spazio è poco curato ed utilizzato come deposito per macchinari in attesa di riparazione e scarti di lavorazione, secchi di trucioli e telai ammollo. Entrambi stanno guardando il piccolo bagno, ricavato in una scatola di cartongesso di un paio di metri cubi, senza scarico e occupato in via permanente dalle mosche e dalla vellutata puzza di piscio.
"Che? Che ho detto?"
"E' che devi parlare a bassa voce, cioè, per il buon vicinato. Poi va a finire in cose strane..."
Ad ognuna delle cinte v'è aperta una finestra, che corrisponde circa ad un secondo piano che è anche l'ultimo, sicchè gli ammassi di malta e foratini non superano i sette metri, e da lì in basso si vede giusto il cielo, o quantomeno il sole. Sarà mezzogiorno, l'ora cisposa del pranzo. I due amici cercano di appropriarsi della poca ombra proiettata, appiccicati contro la parete come due carcerati nella doccia comune.
"Ma cosa? Ho solo detto che hai il cesso zozzo, mica che hai ammazzato una persona... E' pessimo, ma non è da gogna, insomma."
"Se tu dici, ehi, Artù, l'altro giorno mi è caduto un pelo nella minestra... Poi rielaborano, e vanno a dire in giro che t'hanno sentito farti una pera in finestra."
Sfumacchiano tranquilli, gettando la cenere grigia per terra, senza troppo ritegno, aggiungendo disordine e sporco ad un posto che ne abbonda, per intrinseca natura di laboratorio. Il ragazzo che non si chiama Arturo, un pò grassoccio e coi capelli corti, ridacchia da solo, con gli occhietti stretti piantati sul cesso, le gambe allungate e i piedi incrociati.
"Seh, e magari adesso iniziano a credere che tieni segregato un profugo senegalese nel cesso."
"..."