Pin-Up e Norimberga
Entrarono in Alba con occhi di sonno.
Uno si fece il segno della croce, l’altro niente.
La gente in strada gli gettò uno sguardo discreto, poi più niente.
L’aria condensava sui vetri delle finestre: tempo strano, a tratti soffocante, più spesso freddo.
“Giustizia è stata fatta.”
Tirò su col naso: “Norimberga. Non sono convinto.”
Tacquero. Attraversarono le stradine stando attenti a calcinacci e finestre pericolanti.
“All’Augustiner Weissbier sputano nella birra.”
“Dove Hitler diede di matto: chi te l’ha raccontata questa balla?”
“Nessuno in particolare. Si dice in giro, tra le fila dei nazionalsocialisti.”
“Ce ne sono ancora, a volto scoperto?”
Presero a ridere piano.
Aveva l’aspetto di un’osteria, però mancava l’insegna e le finestre tutte rotte.
Grida e odori di spezie.
Entrarono, ma la porta non c’era e gli stipiti neanche.
Dentro era tutto molto spartano: tavoli grandi e spaziosi apparecchiati, senza tovaglie.
Trovarono un tavolo libero, si accomodarono senza che nessuno dedicasse loro uno sguardo.
“Beppe, ce l’hai una?”
[trans]
Beppe era pelato, i pochi capelli rimastigli li aveva rasati a zero: il naso era lungo e affilato come il becco d’un corvo. Era di Asti. Tutti i suoi erano stati di Asti e lì erano morti per guerra o malattia. Poi era scoppiata la Seconda e Beppe aveva lasciato i campi dell’astigiano, aveva preso in spalla lo zaino e un vecchio fucile e si era unito ai Partigiani: in un gruppo aveva trovato Leucò, pallido, dall’aria malaticcia, ma aveva la forza di un bue e non era ottuso come l’animale.
Beppe tirò fuori un pacchetto malandato di Camel americane e lo lasciò sul tavolo: Leucò ne tirò fuori una per sé e un’altra che lasciò sul tavolo e che Beppe subito raccolse fra le labbra. Beppe ritirò il pacchetto in tasca. Accesero con i cerini di Beppe. Respirarono il fumo, lo lasciarono cadere nei polmoni.
“Buone.”
“Meglio delle Nazionali.”
“Quelle fanno schifo. Il Duce non le fumava.”
“Che ne sai tu?”, buttò lì Beppe: “Mica lo sai che fumava.”
“E invece lo so.”
“Sì, sì.”
Per un po’ Beppe fissò Leucò, con un sorriso di niente; poi Leuco si guardò attorno in cerca di una chellerina per ordinare zuppa calda, una forma di pane e del vino rosso.
“Senti Leucò, tu che ne dici di Norimberga. E’ davvero finita?”
Quello tirò su con il naso, poi sputò fumo dalle nari. Sbiancò un poco e alzò le spalle. “Non finisce mai”, si limitò a farfugliare, perché altro non sapeva.
Beppe si grattò il cranio, spegnendo la cicca sulle assi del tavolaccio. Nell’intanto un donnone: tutt’e due soltanto uno sguardo. Dissero che volevano della zuppa ben calda e pane. E del vino.
Il donnone appuntò qualcosa a matita su un foglio bisunto, dopodiché ciabattò via sbuffando.
Leucò tirò fuori un fiato; ci ripensò e rimase in silenzio.
”Cosa c’è?”, domandò allora Beppe.
“Le sigarette… quelle americane sono una cosa, non sono quelle nostre, sono buone.”
“Già. Gli americani. Ma io non li vedo bene.”
“Che intendi?”
“Non sono venuti qui a farsi sbudellare per niente e per darci le Camel.”
“Però sono venuti. Gli dovremmo essere grati.”
Beppe sputò sul pavimento in segno di disprezzo: “Nessuno si fa sbudellare così, nemmeno se ci sono i fasci dietro.”
“Il Duce le portava nel suo boudoir le ebree, le faceva mettere a novanta e dopo che si era sfogato chiamava perché qualcuno se ne sbarazzasse.”
“Se ne dicono tante adesso che gli è stata fatta la festa al bastardo e a quella puttana della Claretta Petacci.”
“Sì, tante.”
Tennero il silenzio per poco.
“Non arriva ancora la zuppa”, osservò Beppe.
“La starà facendo quella che è venuta.”
”Non l’ho vista bene.”
”Non è come le americane. Io le ho viste.”
“No, tu non le hai viste.”
”Ti dico di sì. Gli americani le chiamano pin‐up.”
“Quelle disegnate sugli aerei non sono donne.”
“E che cosa sarebbero allora?”. E così dicendo tirò fuori da una tasca una figura bisunta: “Questa me l’ha data uno, ha detto che le femmine americane tutte così.”
“Tu non parli americano”, gli fece notare Beppe. “Quello non può averti detto nulla.”
“Ha parlato.”
“Tu parli americano? Fammi sentire.”
Leucò rimase in silenzio arrossendo, poi squittì: “Però quella lì è vera.”
“Può darsi”, si limitò a osservare Beppe. E subito dopo aggiunse: “Non sono venuti per farsi sbudellare da tedeschi e italiani. Vogliono qualche cosa.”
Leucò abbozzò un mezzo sorriso: “Le nostre donne forse!”
Beppe si passò una mano sulla pelata lucida e ormai bagnata di sudore: “No. Le femmine sono dappertutto.”
Leucò accusò il rimprovero.
Beppe lo fissava con occhi a spillo, duri come diamanti.
“Che pretenderebbero secondo te?”
Beppe si fece scuro in volto, come se un’ombra gli si fosse incollata sulla faccia per non staccarsi mai più: “Solo il tempo ce lo dirà.”
“Adesso stanno con noi.”
“Tu lo capisci l’americano? Io sento solo che parlano, ma non capisco che dicono. Non mi fido.”
“Che vuoi dire?”
“La zuppa!”, gridò Beppe a nessuno in particolare.
“Voglio dire che lo vedremo domani”, spiegò sempre più cupo, con voce spenta: “Si era travestito da militare tedesco. Il porco voleva fare la fuga assieme alla Claretta, verso la Valtellina. Ma a Dongo i nostri Partigiani lo beccano. Che figlio di puttana! Il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra finisce. Ma non finisce veramente. Niente finisce. Data e luogo da ricordare, Leucò.”
“Lo so anch’io com’è andata.”
“Se lo sapessi non mi chiederesti delle americane.”
“Non ti chiedo di loro. Ti dico soltanto che le chiamano pin‐up.”
Mentre discutevano, gli arrivò la zuppa e un forma di pane nero, e una brocca di vino, rosso e denso come il sangue d’un porco appena sgozzato. Il donnone gli mise tutto sotto il naso, poi sbuffando si tirò via, senza prestare orecchio alle chiacchiere dei due.
Presero a spezzare con le mani il pane, lo cacciarono nella zuppa bollente e quasi più nera del pane: non si capiva di cosa fosse fatta, però andava giù bene nello stomaco.
Quando le scodelle furono ripulite, Beppe prese la sua fra le mani, con fare cerimonioso quasi fosse il Santo Graal: “La vedi questa? Adesso è pulita. E’ finita, devi capirla la differenza.”
Leucò fece finta di non capire: “Non lo puoi sapere che non hanno sputato nella zuppa prima di servirtela.”
Beppe allora sputò nella scodella vuota: “Anche se fosse, adesso il conto è pari.”
“Hanno cominciato a ricostruire.”
“Non qui. Alba è dei Partigiani italiani.”
“Costruiranno.”
“No, stanno tutti giù, sulle coste. O dalle parti di Salò. In Sardegna soprattutto, e in Sicilia. Quelli c’hanno qualcosa in testa, te lo dico io.”
“Delle donne hanno preso nel letto alcuni americani.”
”Sono uomini pure loro: una donna ti fa dar di matto anche se non lo vuoi. Non si è mai liberi.”
“Il Governo fascista ha ridato al popolo le essenziali libertà che erano compromesse o perdute; quella di lavorare, quella di possedere, quella di circolare, quella di onorare pubblicamente Dio, quella di esaltare la Vittoria e i sacrifici che ha imposto, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte, non già un semplice satellite della cupidigia e della demagogia altrui” (* ), recitò in maniera meccanica Leucò: “Lo ha detto Mussolini da qualche parte.”
”E tu l’hai imparato a memoria.”
”Ero giovane e pensavo che avrei studiato, che sarei diventato qualcuno. Poi i miei vecchi sono morti e io ho girato in lungo e in largo.”
”E’ successo a molti. Non sei il solo.”
“Non è bello: certe cose mi sono rimaste scolpite nella testa. C’è mancato un pelo, un fascio stava per farmi la pelle, ma io sono stato più veloce. Capisci?”
“E’ successo a molti, non sentirti speciale per questo.”
Nell’intanto era arrivato il conto. Beppe guardò con la coda dell’occhio la donna… le cacciò in mano delle monete.
“Non bastano.”
“E’ tutto quello che abbiamo. Abbiamo fatto la guerra.”
La donna si limitò a dargli uno sguardo torbido, quasi fosse abituata a simili battute. Solo aggiunse: “Qui non si fa credito a nessuno.” E si portò via.
Beppe e Leucò si portarono fuori, gettando nell’intorno fugaci sguardi fra le dense spire di fumo.
Fuori non era meglio: l’aria era pesante, indefinita, pareva d’essere dentro un limbo dove non si è né vivi né morti. La condensa sui vetri era così spessa che lo sguardo non riusciva a spiare alcun segno di vita al di là.
In Alba le strade erano dissestate, per terra vermi e sangue ancora fresco. Le campane suonavano di un suono tetro, più o meno volgare. I due camminavano tirando un passo lento di stanchezza, l’uno accanto all’altro.
“Io dico che quella ha sputato nella zuppa.”
Beppe diede un sorriso a metà sotto il naso aquilino: “Anche se fosse, oramai l’hai buttata giù. E poi non hai reclamato prima, perché dovresti farlo adesso, non so.”
Leucò sorrise pure lui: “Sì, mi sa che hai ragione. Però all’Augustiner Weissbier sputano nella birra.”
”Tanto tu non la bevi lì “
“Già.”
Più passavano avanti più l’aria si faceva pesante, di nebbia.
“Non è buono questo tempo: si respira male.”
“E’ il tempo. E’ il tempo.”
Beppe tirò fuori le Camel, se ne cacciò una in bocca e una la offrì al compagno.
“Americane.”
“Americane”, gli fece eco Beppe. “Quelli non sono venuti qui per farsi sbudellare… per questo fumo. Te lo dico io, quelli hanno qualche cosa che gli frulla in testa.”
“Tu lo sai?”
”No. Lo so e basta che è così. Chi vivrà vedrà.”
Leucò cambiò argomento, di botto: “Hai mai pensato che potresti metter su famiglia?”
”No, no. Un uomo nasce libero.”
”Perché una donna lo mette al mondo.”
Beppe non trovò argomenti con cui controbattere, inghiottì un bolo di rabbia e aspirò ben forte il fumo della Camel fino a farsi fumare il cervello. Perse per mezzo secondo il passo, niente di più.
“Andiamo.”
”Stiamo già andando. Siamo al tramonto. E’ bello rosso, anche se c’è la nebbia.”
”Non lo so se quello è il tramonto. Potrebbe essere il fuoco di una guerra. O il colore dell’alba.”
“Non ci avevo pensato.”
Camminarono in silenzio fendendo la nebbia, andando incontro al tramonto o a qualunque cosa fosse, mentre Leucò confessava a Beppe, in un fil di voce, che lui una famiglia l’avrebbe voluta.
Finirono i loro passi in Alba con occhi di sonno.
- (Parole rivolte ai rappresentanti dei Sindacati agricoli in Roma, il 30 Luglio 1925). ‐ V, 124.