Porchettone

C’è stato un momento della mia vita in cui mi sembrava di assomigliare a Bukowski. Avevo circa trent’anni e avevo smesso con tutto, perfino di fare palestra.
Conobbi una ragazza, lasciai la periferia e andai a vivere con lei in una città di media grandezza, non proprio una metropoli, però piena di palazzi, smog e donnine allegre nei bar. Allora c’erano ancora posti così, ricchi di feste e avvenimenti, risse e prospettive economiche. Sarà stato cosa? Il ’92? Sì, "certo", più o meno quegli anni lì…
Insomma, come dicevo, mi misi insieme a questa ragazza, in realtà una signora, più grande di me di sette anni, e finii col trasferirmi armi e bagagli nel suo appartamento di due stanze oltre alla cucina e al bagno. Non so ancora adesso con quanto entusiasmo accettò questa mia iniziativa, forse avrebbe preferito continuare a stare sola e io ero troppo invadente. Fu un periodo molto infelice, ero però ancora nel pieno delle forze, alla continua ricerca di un lavoro stabile per poter pagare l’affitto o, almeno, contribuire alle spese di casa.
Dato che la bella morettina aveva un posto sicuro e una tana al piano terra affacciato al giardino di un condominio molto rispettabile, dovevo darmi da fare. Oltre ai baci e alle carezze, all’alcova necessitava qualcos’altro.
La città, “Porchettone”, mi aspettava, voleva offrirmi una possibilità.
Io la colsi, questa possibilità, rispondendo a un annuncio economico apparso sul giornale e, dopo previa telefonata, appuntamento fissato e relativo incontro con i responsabili, capii che mi stavano per assumere.
L’occupazione consisteva nel preparare grandi pacchi, sigillandoli con del telo plasticato. Dentro questi pacchi c’erano i prodotti che dovevamo preventivamente prelevare dagli scaffali e dai ripiani all’interno di un enorme capannone, in base alle commesse e agli ordini dei clienti del grandissimo magazzino alimentare, un grossista facente parte di una catena commerciale internazionale con ramificazioni in tutto il mondo e di cui, con orgoglio, da quel momento sarei dipeso.
Ero dentro, avrei procurato cibo, eterno gaudio in scatolame, per le varie bocche da sfamare quali acquirenti nei negozi da fornire. Un’immensa felicità. Anche i gatti, i cani, un po’ tutti gli animali domestici avrei accontentato, grazie ai loro attenti e solerti padroni che compravano mangime, crocchette, antiparassitari ecc. ecc. ecc. Facevo anch’io parte del mondo della produzione! Avrei guadagnato, fatto carriera, ero stato se‐le‐zio‐na‐to per questo! Non vedevo l’ora di iniziare.
Alla fine, risi felice fissando il contratto e mi presentai al primo giorno di lavoro.
Operazioni sempre uguali, otto ore di su e giù per il magazzino dove erano stipate le merci, robe da spaccarsi la schiena, scendevo e salivo, aprivo, toglievo, mettevo, scaricavo e via a incellofanare; avevo in dotazione un muletto che correva fortissimo, un razzo, per farci risparmiare tempo ed essere più produttivi, talvolta curvavo in bilico col rischio del ribaltamento. Alcuni addetti là dentro ridevano, se cadevi, carico compreso, e non ti aiutavano; c’era concorrenza. Sopra questi mostri elettrici ci stavi sempre in piedi su un’installazione, avevano una specie di manubrio con i comandi a farfalla per alzare e abbassare le forche con i contenuti che ci caricavi sopra, anche botti talvolta, o damigiane. Un triciclo semovente, entravi tra le scaffalature e spostavi bancali, scendevi e smistavi scatole, confezioni, aprivi sacchetti, sollevavi ceste e ordinavi lotti e pezzi. Sempre in piedi, tutto il giorno. Al limite piegato o accosciato, ancora più dura. Mai un minuto per terra disteso a riposare la schiena o seduto. D’altronde, lì non c’erano sedie o divani, solo spazi aperti e giganteschi castelli e scaffali d’acciaio pieni di merce, su ogni parete fino in alto, ad arrivare al soffitto. Potevamo giocare a calcio, là dentro, ma alla sera eravamo tutti talmente stanchi che non ci veniva in mente di portare un pallone, nemmeno per le volte dopo.
I primi giorni passarono, tornavo a casa come uno zombie, non avevo voglia neanche di parlare con la morosa, soprattutto dopo qualche straordinario suppletivo per richieste del tutto eccezionali che, fatalità e guarda caso, avvennero fin dall’inizio.
All’ora di pranzo correvo a farmi un panino, se c’era il tempo, perché talvolta dovevo decidere se andare in bagno o mangiare. In pausa, tenevo la pipì e la facevo di nascosto fuori, sul prato, quando non mi vedevano. Perlomeno, pensavo io che non mi vedessero. Salivo nella mia macchina parcheggiata e lasciavo la porta semichiusa, tiravo giù le braghe e fuori il pisello, ero quasi inginocchiato in una posizione intricatissima, pur di compiere l’atto. Alla sera, col buio e al freddo, dopo il sollievo di averla fatta, prendevo fiato e mi avviavo verso casa, dalla mia compagna. Altrimenti rientravo, durante l’orario di lavoro la scusa buona per uscire era quella di aver dimenticato il portafoglio in macchina e, si sa il perché: potevo rischiare che me lo rubassero. Dopo un paio di volte il pretesto non resse più e, quando arrivavo la mattina per timbrare, subito il responsabile mi chiedeva: «Il portafoglio in macchina… l’ha preso?». Quindi in determinate occasioni, proprio perché non resistevo, la feci dietro al carica batterie nel ripostiglio, dentro una bottiglietta di plastica che mi ero portato, con la scusa di mettere sotto carica un muletto e di prenderne un altro. Già, c’era sempre una macchina, un apparecchio, un muletto di riserva, l’attività non poteva mai fermarsi, era tassativo. Di avere un bagno per i dipendenti però, non se ne parlava.
Quelli originari del posto, i “porchettonesi” insomma, noi, nuovi assunti, a cui avevamo o stavamo per rubare il lavoro, ci chiamavano “i mussi”.
«Lavora "mus", che ti pagano!», «Lavora "mus"! Schiavo!» ci urlavano dietro.
Io in quella città non ci volevo più stare, Porchettone mi faceva schifo; volevo andare via, lasciare quel posto e quella ragazza.
Così feci, dopo appena tre settimane.
Di quel lavoro non ne volli sapere oltre, mi feci pagare in contanti e in nero; andava bene anche a loro, perché la pratica non era ancora stata inoltrata all’ufficio del lavoro. Furbi. Stracciai il contratto di assunzione, nonostante avessi già superato i due giorni di prova e nessuno avrebbe potuto mandarmi via, volendo. L’impiegata dell’ufficio, dandomi i soldi che mi spettavano, mi disse di essere lì da dieci anni e che la ditta, l’emerita società multinazionale, dopo aver bistrattato gli ex dipendenti iscritti al sindacato, li stava mandando tutti a casa un po’ per volta con un benservito calcio nel didietro, alla faccia dei diritti e delle norme sul lavoro. A lei sarebbe mancato poco, ormai: la settimana successiva se ne sarebbe andata. Era stanca e arrabbiata, non valeva la pena continuare quello stillicidio. Si sentiva sottomessa, perseguitata, vittima di mobbing e me lo disse. Nuovi soci, nuovi capitali, nuovi aguzzini. Io, lì, c’ero finito per quello. Tutto cambia, niente si distrugge, tutto si evolve.
Datemi qualcosa da nettàre, sono stufo, datemi qualcosa da nèttare.