Poste Italiane
L’ufficio postale di via Garibaldi è piuttosto angusto e stretto Per una svista del dipartimento delle ristrutturazioni, non è mai stato considerato nel progetto di rinnovamento.
Tullia entrò a testa bassa, Teneva in mano un bollettino di conto corrente, nell’altra il portafogli, era uscita di casa senza borsetta, ma senza nemmeno le scarpe. Cioè, non era scalza, era semplicemente in ciabatte; chi se ne sarebbe accorto, erano delle belle ciabatte, piuttosto eleganti. All’ingresso già era impossibile procedere, la fila arrivava fin quasi all’uscita, Tullia soffiando si sistemò una ciocca di capelli che le scendeva sul viso e si asciugò le mani sudate sulla gonna leggera. Il caldo era insopportabile, meno male che sul soffitto girava una ventola a pale grandi.
«Senta lei, che fa la furba? Ci sono io dopo il signore...».
Tullia non ascoltava, si era solo spinta un po’ avanti guardando all’insù per cogliere in pieno l’effetto del ventilatore, in modo che le alzasse i capelli e le raggiungesse il collo bagnato.
«Certa gente fa finta di niente, come se gli altri fossero stupidi...».
«Già, noi qui a fare da bravi la fila...».
«Non c’è limite alla maleducazione...».
«Mi piacerebbe anche a me passare davanti a tutti...».
Tullia si accorse di essere l’oggetto della conversazione, e arrossendo tornò sul fondo della fila senza parlare.
Le pareti dell’ufficio erano tappezzate di avvisi, manifesti e slogan:
«Banco posta, e sei a posto...».
«Librati in libertà: basta un libretto...».
«Appostati alla posta...».
«Dio mio...» disse Tullia a bassa voce, poi scoppiò a ridere, così forte che le veniva da piangere, ma era così imbarazzante.L’impiegato delle raccomandate la fissò accigliato mentre continuava a timbrare con veemenza e rabbia. Il colorito giallastro che gli dipingeva la faccia era identico al marmo vecchio e consunto del bancone. Anche le sue unghie dovevano avere lo stesso colore. Non gli avrebbe mai stretto la mano, a uno così. Tullia si guardò le sue, di unghie, inesistenti. In ospedale gliele avevano tagliate cortissime. I capelli questa volta glieli avevano risparmiati. Non lo avrebbe sopportato. Erano il suo orgoglio: riccioli lunghi e ramati che le coprivano le guance e che le davano un notevole senso di protezione. La caposala le voleva bene, e aveva capito.
Il collo di un vecchio tarchiato e robusto davanti a lei sembrava assai interessante: era attraversato da righe che si incrociavano diritte e profonde, due grossi solchi formavano una «X» un po’ larga e appiattita proprio al centro della nuca; qualcuno si era divertito a procurargli quella incisione, o forse era un casuale disegno della vecchiaia. L’uomo si girò lentamente verso di lei, e Tullia scoprì due occhi chiarissimi, quasi bianchi, incavati nelle orbite piccole e rotonde.
«Mia scusa, segnorina, qual è la fila delle raccumandate? Nu è che sto facendu la fila sbajata, su venta minuta che sunu aquà e nun ze va avanti».
Doveva essere vedovo, il vecchio, indossava ai due anulari due vere d’oro, una di certo era di sua moglie. A giudicare dal diametro di entrambi gli anelli, anche la donna era stata molto robusta. Sembrava che lui le leggesse nel pensiero:
«Da quando mia moglie s’è scomparsa, vado girando sembre solo».
«... È morta da... molto tempo?» azzardò Tullia che aveva voglia di chiacchierare mentre era in fila.
«Macché. Uno mese fa. All’ospedale dei Gemelli. Se l’è portata via un «ipso», com’è che se chiama».
«Mi dispiace...».
«I duttori su stati bbravi, nun posso di’ niente, ma essa nun s’è data da fa...si inzomma, come se dice, nun s’è aiutata pe’ vincere lu male...essa vuleva murì...» la voce gli si spezzò e gli occhi divennero lucidi. «Ecco, lu vedi chisto? È la tassa du’ camposanto, so’ millecinguecento euri, da paga’ fino a oggi, sinnò c’è la multa. Devo da pagaì tre muorti, mi’ moje, mi fijo, e la fija de mi moje, tre muorti. Fanno cinquecento euri a testa».
Tullia annuiva e moriva dalla curiosità di sapere la causa di tanti decessi.
«Ma se me moro io, nisciuno paga...». E si sfogò in una grassa risata. «Capito, segnurì? Nisciuno paga!». E continuava a ridere forte.
Tullia sorrise, ma provò subito disgusto, si era stancata e non voleva tenere a lungo quella conversazione. Si guardò il polso destro, senza orologio, tanto non ne possedeva uno che funzionasse. Alzò lo sguardo alla ricerca di un padellone da muro, era in alto sulla parete di fronte, uno di quelle vecchie anticaglie da stazione anni sessanta, con il quadrante grigio e le lancette di metallo, un po’ sgangherate. Segnava un’ora impossibile. Il vecchio la guardava.
«Che stai a cerca’, segnurì?». L’uomo estrasse da una tasca un orologio da polso d’oro massiccio. «Nun lo posso allaccia’, stu gioiello. Era de mi fijo. Esso ci aveva le braccia più fine». Il tono della voce si era abbassato. «È morto co’ lu camio, un accidente stradale». Gli occhi si erano imperlati.
«Ecco» pensò Tullia «adesso mi manca la figlia».
«La fija de mi moje s’è morta subbeto dopo la madre, ma essa era mejo che s’è morta... Essa era ‘na mala femmena...».
Ma di cosa era morta? Non dovette attendere molto.
Il vecchio le prese un braccio, e avvicinò il suo volto a quello di Tullia, alitandole sulla faccia quattro o cinque zaffate di cipolla. Tullia restò ad ascoltare in apnea.
«A’ troga... Troga e prestituzione... me capisci che voio di’?».
Eccome.
Tullia si divincolò dalla mano bitorzoluta che la stava stringendo e cercò di concentrarsi sulla respirazione addominale, così come le avevano insegnato per dribblare gli attacchi di panico.
«Che ci hai, segnurì? Stai bbene?».
«Sì... no... fiu...» soffiava e parlava. «Fiu... fa caldo... fiu... mi manca l’aria... fiu... adesso passa...».
L’uomo le appoggiò una manona sulla spalla e le parlava con una variegata gamma di tonalità e timbri di voce che avevano il solo scopo di rassicurarla, ma gli effluvi alla cipolla mal digerita avevano già raggiunto i suoi organi vitali.
Tullia perse i sensi e cadde senza che il vecchio ebbe il tempo per trattenerla.
«Madri sandissima! La femmena ha svenuta!».
Nessuno tra i presenti sapeva esattamente cosa fare. Si agitavano senza prendere iniziativa. L’impiegato giallognolo gridava da dietro il vetro.
«Raccoglietela!» e imprecava bussando sul vetro per attirare l’attenzione su di sé.
Si riebbe che era distesa sull’unica panca addossata al muro, sotto una finestra stretta carica di sbarre. Una donna pietosa le sventolava un depliant «banco posta», giallo e blu. Gli altri ventotto occhi sopra di lei la scrutavano con interesse. Il vecchio le stava tenendo una mano. La cipolla si riaffacciò crudele.
«Merda!» gridò Tullia di rabbia, e balzò seduta con gli occhi fuori dalle orbite.
Il pubblico arretrò intimorito. L’impiegato era diventato verde e stava mutando pelle. Perdeva un rigagnolo di saliva da un angolo della bocca.
«Lasciatela respirare!». Un gemito intelligente emerse dal sudore collettivo. Era di un uomo giovane, grande e grasso, sulla trentina, rosso in faccia e goffo nei movimenti, con le sue dita ciccione allontanò con garbo il vecchio diventato ormai insopportabilmente fetido e invitò Tullia a uscire da quella luogo infernale per farle prendere un po’ d’aria. Tullia rifiutò.
«Sto benissimo!» disse indispettita. Poi si raddolcì. «Grazie, non si disturbi».
«È meglio che esca» esclamò una signora anziana.
«Sì, deve prendere aria» continuò l’omone giovane.
«Chiamiamo una bulanza?» azzardò il vecchio che era tornato alla carica.
«No!» insorse Tullia. «No! Niente ambulanza!».
Ma cadde di nuovo svenuta sulla panca.
Tullia senza sensi ebbe visioni celestiali, il vecchio le parlava, ma dalla bocca non uscivano parole, solo fiori profumati che andarono a posarsi sui suoi capelli. Lei si alzò in piedi scalza, cercava lo sguardo dell’impiegato dietro il vetro. Lui le sorrise, ma non aveva un dente, eppure le sue gengive rosa erano dolcissime e non seppe resistere: trovò la forza di scavalcare la folla che l’attorniava morbosamente, diede un forte pugno sulla vetrata antiproiettile che li divideva. Gli altri arretrarono per non essere colpiti dalla miriade di minuscoli pezzi di vetro frantumato che volarono in tutto l’ufficio postale. Con un balzo si arrampicò sul bancone, ma non si ferì, e fini tra le braccia dell’impiegato. Lui non smise di accarezzarla, di rassicurarla: «adesso non devi avere più paura, Tullia, ci sono io qui con te, no, non tornerai mai più in ospedale, niente medicine, niente iniezioni, niente elettroshock. Resterai con me, al sicuro, vieni, andiamo sotto il bancone, nessuno può vederci».
I due si accovacciarono in una nicchia tra scartoffie, scatole, buste imbottite, mentre la folla già urlava spaventata. Si udirono sirene di polizia, ambulanza, grida concitate, pianti di bambini piccoli.
Poi silenzio.
«Tullia...».
Tullia aveva gli occhi chiusi, sentiva una voce flebile in lontananza.
«Tullia... ci risiamo...». Ma non era la voce del suo dolce impiegato. Aprì piano gli occhi, era il dottore, e lei era sul letto dell’ospedale, ancora una volta. Provò a muoversi, senti che non poteva. L’avevano bloccata nel letto.
Girò piano la testa sul cuscino, più volte, come per sfregarla. Sentì la cute a contatto con il cotone della federa, troppo a contatto: le avevano di nuovo rasato la testa. Sentì la rabbia salirle forte nel petto, e le lacrime bagnarle gli occhi.