Preliminari di nozze
Agli inizi di ottobre dell’anno 1618, un’ambasceria sabauda partì da Torino alla volta di Parigi incaricata della delicata missione di negoziare e concludere il matrimonio tra il principe di Piemonte Vittorio Amedeo e Cristina di Borbone, terzogenita del defunto re di Francia Enrico IV e di Maria de’ Medici.
Il duca di Savoia Carlo Emanuele I, padre di Vittorio Amedeo, aveva scelto per quel compito così impegnativo alcune tra le personalità politiche e religiose più in vista dello Stato: suo figlio il cardinale Maurizio, il presidente del Senato di Savoia Antonio Favre, il conte di Verrua Filiberto Scaglia, Ottavio Viale vescovo di Saluzzo e Francesco di Sales vescovo di Annecy (santificato poi nel 1665), il quale con la finezza psicologica che lo contraddistingueva aveva ben compreso quali rischi quell’unione comportasse, nonostante che fosse auspicabile per la sua importanza politica. E, una volta giunto in Francia, non mancherà di raccomandare cautela e ponderazione nel concedere in moglie una giovanetta vivace e inesperta quale era Cristina ad un uomo di trent’anni dal carattere riservato e dalle abitudini austere.
Nell’ultima parte del viaggio verso Parigi, i diplomatici noleggiarono alcune barche per raggiungere Orléans navigando sulla Loira. Lungo il percorso, nel paesaggio splendido della campagna francese in un tiepido autunno, i gentiluomini trovarono un’accoglienza degna del loro rango. Dopo Bourg la Reine, dove per il loro arrivo fu preparato un ricco banchetto offerto dai notabili del luogo, si incontrarono con i rappresentanti del re di Francia Luigi XIII, fratello della principessa Cristina, alla testa di un corteo di nobili a cavallo e di carrozze addobbate con sfarzo. Così scortati, gli inviati del duca di Savoia raggiunsero la capitale.
Il cardinale Maurizio di Savoia, il quale era alla sua prima missione diplomatica, rilevò con soddisfazione la favorevole accoglienza riservatagli a corte; durante tutta la sua permanenza a Parigi mantenne con il padre Carlo Emanuele I una fitta corrispondenza per tenerlo costantemente aggiornato sugli avvenimenti e soprattutto su quel delicato momento di intesa con la Casa regnante di Francia che avrebbe potuto portare a scelte politiche e militari decisive.
Il giovane prelato era prestante, di bell’aspetto, brillante conversatore e non tardò a suscitare l’ammirazione dei parigini; naturalmente propenso verso il gentil sesso, seppe apprezzare non solo gli agi della corte francese, ma anche lo spirito e l’eleganza delle dame.
Per gli illustri ospiti sabaudi era stato approntato un lussuoso palazzo in rue de Tournon, un tempo dimora di Concino Concini. Costui, un avventuriero scaltro e senza scrupoli, era giunto da Firenze nel 1600 al seguito della sposa di Enrico IV, Maria de’ Medici, di cui sua moglie Leonora Galigai era sorella di latte e grande amica. Grazie all’ascendente di Leonora sulla regina, i due avevano ottenuto in poco tempo enormi favori: dopo la morte di Enrico IV, Concini era stato nominato marchese d’Ancre e aveva comprato il governatorato di Péronne, Roye e Montdidier, e la carica di primo gentiluomo del re. In seguito era divenuto membro del Consiglio di Stato, governatore di Amiens e Maresciallo di Francia, ma la sua rapida ascesa al potere aveva suscitato rancori e invidie tali da portarlo alla completa rovina. Determinante era stato soprattutto l’atteggiamento irrispettoso che lui e sua moglie erano soliti assumere nei confronti del giovane Luigi XIII il quale, irritato e maldisposto, aveva finito per dare credito ad un’accusa di alto tradimento contro di loro contenuta in una lettera anonima, e nel 1617 aveva tacitamente acconsentito che si procedesse alla eliminazione dei due. Era seguita una fase di “epurazione” che aveva avuto gravi conseguenze sulla posizione della regina madre, costretta all’esilio nel castello di Blois e su quella di Armand Du Plessis de Richelieu, allora vescovo di Luçon, che essendo stato per lungo tempo appoggiato da Concini era stato rimosso dalla carica di segretario di Stato.
Armand Du Plessis, marchese di Chillou, non aveva intrapreso la carriera ecclesiastica per vocazione, ma per sostituire suo fratello Alphonse che aveva preferito diventare monaco certosino. Nonostante aspirasse alla gloria militare, il giovane aveva studiato teologia con grande impegno e, non avendo ancora raggiunto l’età prescritta per la dignità episcopale, aveva presentato un atto di battesimo falso. Aveva rivelato l’inganno al Papa Paolo V solo dopo la consacrazione, ma costui lo aveva perdonato in considerazione dei suoi meriti personali e Armand era partito per la sede che gli era stata assegnata, quella di Luçon, in Vandea, la più povera di Francia.
Per cancellare qualsiasi traccia della presenza dei Concini, il palazzo di rue de Tournon era stato interamente restaurato: il cardinale Maurizio, al suo arrivo, trovò la grande sala da ricevimento e le due camere attigue tappezzate in seta di Fiandra ricamata, su cui erano raffigurate scene ispirate alla leggenda di Psiche e la camera da letto dominata da un imponente baldacchino in velluto rosso e oro.
Dopo l’incontro solenne con Luigi XIII al Louvre e la visita alla regina, l’ammiratissima Anna d’Austria, che il sovrano aveva sposato senza amore per volontà di sua madre Maria de’ Medici, Maurizio di Savoia poté finalmente conoscere Cristina di Borbone. Introdotto nel salotto privato della principessa, fu presentato a lei ed a sua sorella Enrichetta. Nessuna donna gli era sembrata mai così bella: l’ovale perfetto del viso, gli occhi di un azzurro intenso, il sorriso luminoso, la persona aggraziata, tutto contribuiva a darle un incantevole fascino che lo conquistò. Cristina, vestita di rosa e adorna di diamanti, si intrattenne con lui con grande affabilità e semplicità, spinta da un’istintiva simpatia per quel diplomatico che le ispirava fiducia e la faceva sentire meglio disposta verso la prospettiva di un matrimonio che, ai suoi occhi di giovanetta appena tredicenne, non appariva importante e prestigioso quanto lo era stato quello di sua sorella Elisabetta con il principe delle Asturie.
Più tardi, scrivendo a Carlo Emanuele I, il cardinale Maurizio fu prodigo di particolari rassicuranti: le sue parole furono un balsamo per il duca, la cui opera politica era stata votata da sempre alla ricerca del consolidamento di relazioni politiche che mantenessero alto il prestigio della sua casata e che al contempo salvaguardassero lo Stato sabaudo dagli incombenti attacchi delle altre potenze, prime tra tutte la Francia e la Spagna, mosse da una inesauribile sete di predominio. Il duca di Savoia, dopo aver ottenuto la nomina a cardinale del figlio Maurizio, successo questo di notevole portata dato che le famiglie regnanti del tempo erano per tradizione rappresentate nel Sacro Collegio, aveva concordato il matrimonio di Vittorio Amedeo con la principessa Elisabetta, prima figlia di Enrico IV. Il 28 dicembre 1609 erano stati ratificati i capitoli di quel matrimonio e nel gennaio del 1610 erano state stabilite le convenzioni di un’alleanza franco‐sabauda, inserite poi nel trattato di Bruzolo del 25 aprile: in esso si prevedeva l’appoggio sabaudo alla Francia contro l’Impero e la Spagna, nonché l’acquisizione da parte di Carlo Emanuele I del Ducato di Milano e del titolo regio e la cessione della Savoia alla Francia. Carlo Emanuele aveva deciso di imparentarsi con Enrico IV non solo perché gli era ormai chiara la scarsa attendibilità delle promesse spagnole e in particolare di quelle fatte da suo cognato Filippo III in occasione del viaggio e della permanenza di tre dei suoi figli a Madrid, ma anche perché, come Enrico IV vagheggiava una lega di Stati europei per frenare la potenza degli Asburgo, così egli pensava a una coalizione di Stati italiani.
In un’Europa ancora tormentata dagli ultimi fuochi delle guerre di religione, Francia e Spagna, in un duro gioco di rivalità e di alleanze, si fronteggiavano, si scontravano, travolgendo oppure attirando nella propria orbita gli Stati minori. In Francia, Enrico IV aveva tentato di migliorare le condizioni del Paese, compromesse da anni di guerre civili e al contempo di rafforzare il potere della monarchia. Inoltre, sempre nell’intento di ostacolare gli Asburgo, aveva cercato alleanze sia tra gli Stati italiani che in Germania, appoggiando i principi protestanti. La Spagna, dal canto suo, tesa a realizzare il sogno di una monarchia cattolica, assoluta e universale, sotto la guida di Filippo III si trovava ad affrontare enormi difficoltà economiche causate dall’eccessivo sviluppo della burocrazia centrale e dagli sperperi della corte, dove proliferavano ministri e favoriti corrotti e incapaci.
Ma nello stesso anno in cui era stato firmato il trattato di Bruzolo, ossia nel 1610, Enrico IV moriva sotto i colpi di pugnale di Jean‐François Ravaillac, nell’ultimo di una serie di attentati alla sua vita. Quello precedente era avvenuto circa cinque mesi prima, il 19 dicembre 1609: il sovrano e il suo seguito, al ritorno da una battuta di caccia, avrebbero dovuto passare sul Pont‐Neuf, ma poiché i lavori di costruzione del ponte non erano ancora ultimati, l’attraversamento della Senna era avvenuto su un sistema di impalcature alquanto traballanti che avevano dato il destro per l’aggressione da parte di un fanatico di nome Jacques des Isles. Costui era riuscito ad afferrare il re per farlo cadere in acqua, ma era stato immediatamente immobilizzato ed Enrico IV, mostrando in quell’occasione grande generosità, si era limitato ad ordinarne l’arresto senza altre punizioni.
La fortuna che aveva sempre assistito il re di Francia in tante imprese lo abbandonò il 14 maggio 1610. I presagi di morte lo affliggevano, per la verità, già da tempo; uno dei tanti indovini cui era di moda rivolgersi gli aveva predetto che sarebbe morto durante un viaggio in carrozza, in occasione della consacrazione della regina. Proprio in quei primi giorni di maggio il re si apprestava a partire per i Paesi Bassi con un poderoso esercito di 283.000 uomini per appoggiare le pretese dei principi protestanti in relazione alla successione ai ducati di Clève, Berg e Jülich, che dominavano la Westfalia e il Reno inferiore e che l’imperatore Rodolfo II, partigiano della Controriforma ed amico dei Gesuiti, aveva voluto mettere sotto sequestro. L’esercito del re di Francia avrebbe dovuto invadere i Paesi Bassi e attraversare poi le frontiere dell’Impero per raggiungere le milizie dei principi alleati.
Tuttavia Enrico IV aveva intrapreso quell’imponente operazione militare anche per motivi strettamente personali: voleva riprendersi la principessa Charlotte de Montmorency, una delle sue ultime amanti, figlia del connestabile, capo della più potente famiglia di Francia. Il sovrano l’aveva conosciuta a Parigi e se ne era invaghito a tal punto da volerla in esclusiva. Così l’aveva data in moglie a un suo nipote, il ventunenne Enrico II di Borbone, principe di Condé, notoriamente poco sensibile al fascino femminile, imponendogli un matrimonio “bianco”; ma non aveva pensato a tutto perché a un certo momento Condé, seccato dalla piega che stavano prendendo gli eventi, aveva deciso di portare a Bruxelles la giovanissima moglie e di metterla sotto la protezione dell’arciduca Alberto per sottrarla alle attenzioni del sovrano.
Maria de’ Medici, al corrente dell’intrigo sentimentale che stava alla base di una così impegnativa spedizione guerresca, aveva messo sull’avviso il nunzio apostolico, ma Enrico IV non aveva mutato intendimento neppure di fronte ad una minaccia di scomunica. Nella notte tra il 13 e il 14 maggio, dopo la cerimonia di consacrazione a reggente di Maria de’ Medici, Enrico IV aveva voluto raggiungere in carrozza il suo alloggio all’Arsenale, un imponente edificio che lui stesso aveva fatto costruire per custodirvi la polvere per i cannoni. Improvvisamente la vettura aveva dovuto fermarsi, bloccata da alcuni carri messi di traverso nella strada e l’assassino Ravaillac, avvicinatosi indisturbato alla carrozza, aveva colpito a morte il re, senza che nessuno dei quattro gentiluomini presenti, tra cui il duca di Épernon e il duca de La Force, potessero far nulla per impedirlo.
Con Maria de’ Medici al potere, le speranze di Carlo Emanuele I di vedere attuati i patti di Bruzolo si erano dissolte: la regina madre infatti, influenzata dalla fronda filospagnola che si era consolidata dopo la morte di Enrico IV, e dalle intenzioni della corte di Madrid comunicatele dal ministro Feria, aveva dato inizio in gran segreto alle trattative con Filippo III di Spagna per concludere un’alleanza offensivo‐difensiva cui avrebbe potuto infondere grande energia un matrimonio, magari due: quello di Elisabetta con il principe delle Asturie, il futuro Filippo IV, e quello di Luigi con l’Infanta Anna d’Austria. Gli accordi prematrimoniali erano stati conclusi nella massima riservatezza e Carlo Emanuele I era stato informato della disdetta unilaterale della promessa di matrimonio soltanto nell’autunno del 1611, quando Maria de’ Medici aveva mandato appositamente a Susa il maresciallo di Lesdiguières e il duca di Bouillon.
Nonostante il grave affronto subìto, dopo molte esitazioni il duca di Savoia si era deciso a chiedere in moglie per Vittorio Amedeo un’altra sorella di Luigi XIII, la principessa Cristina. Queste nozze significavano per lui la fine dell’isolamento politico e la possibilità di realizzare il suo obiettivo di espansione nella pianura padana, con il sostegno di una grande nazione.
Il 13 novembre 1618 il cardinale Maurizio formulò dinanzi al re di Francia la solenne richiesta di matrimonio e l’11 gennaio 1619 furono sottoscritti al Louvre i capitoli matrimoniali: la sposa portava in dote 400.000 scudi ma lo sposo doveva rinunciare a qualsiasi diritto su eventuali ulteriori somme o proprietà provenienti a Cristina da eredità materne o paterne.
Mancava soltanto la firma di Maria de’ Medici sul contratto di matrimonio. La madre del re era confinata nel castello di Blois e il documento le fu portato da un ufficiale delle guardie svizzere, il colonnello Ornano. Il disappunto di Maria nell’eseguire le indiscutibili disposizioni di suo figlio, fu duplice: in primo luogo non le era stato chiesto il beneplacito per le nozze dato che, probabilmente, le avrebbe osteggiate, come aveva già fatto alla morte di Enrico IV per quelle dello stesso Vittorio Amedeo con Elisabetta, sorella maggiore di Cristina; inoltre sapeva che non avrebbe potuto partecipare alla cerimonia a causa dei sempre più gravi contrasti con Luigi XIII.
A Torino l’annuncio ufficiale del matrimonio del principe di Piemonte, che si sarebbe svolto il 10 febbraio 1619, giorno del tredicesimo compleanno della sposa, fu accolto con esultanza. Il 4 gennaio il Consiglio della città deliberò “tre giorni continui di gioie con fuochi artificiali a torno alla piazza e li habitanti debbano detti tre giorni dalle ore 24 fino alle 4 di notte metter e tener lumi accesi sopra tutte le finestre. I giovani e il capitano con archibugi in honorato equipaggio comparire in paralda nanti Loro Altezze all’hore delle giostre e tornei che si farano a piaza Castello con far salve di archibuggiate, indi venirsene in ordine alla piazza della città ove i sindaci dare fogo al falò”.