Quando ero viva
Quando ero viva, mio padre fu ricoverato d’urgenza nell’ospedale cittadino.
Fortuitamente, da quell’emergenza risultò una diagnosi più subdola di un ‘brutto’ male.
“Dobbiamo portarlo in un’altra struttura ospedaliera?”, chiedemmo al suo medico curante.
Il medico curante ci rassicurò: “In questo momento, nel reparto di chirurgia dell’ospedale cittadino c’è un primario di livello universitario.”
E infatti passarono settimane prima dell’intervento, l’organismo di mio padre doveva prima essere rimesso in sesto. L’intervento andò bene e mio padre si rimise rapidamente.
Trascorsero tre settimane prima che mio padre iniziò la terapia e, in quelle tre settimane, mio padre stava relativamente bene. Poi iniziò la terapia, nella stessa struttura ospedaliera cittadina, e una settimana dopo mio padre iniziò a stare male. Soffriva tremendamente. E sopportava quella sua sofferenza, seduto sulla sua poltrona.
La sua sofferenza era visibile ed io cominciai a capire coloro che parlavano di eutanasia.
Ma cos’era che lo faceva soffrire così? Era la cura? Era il male?
Mio padre si recò da chi lo aveva operato che lo trattò come un bambino capriccioso, dicendo che era la terapia e doveva sopportare.
Trascorre un’altra settimana. L’infermiera che assisteva mio padre durante la terapia diceva: <<Ma non sono questi i problemi che dà la terapia.>>
Trascorre un’altra settimana. Mio padre si reca di nuovo da chi lo aveva operato. Volevo parlare col primario, ma mio padre non vuole che lo accompagni. Mia madre mi riferirà che il primario praticamente gli aveva sbadigliato in faccia.
Passano pochi giorni. Sono, in serata, sulla strada per rientrare a casa dall’ufficio. Sono ferma, sono passata a prendere mio marito al suo ufficio e avevo parcheggiato. Squilla il telefonino. È mia madre. Dice: <<Tuo padre ha vomitato nero.>> ‘Mamma, deve andare in ospedale’, penso. Penso e non dico. E dove lo portiamo? Dove chi lo tiene in cura lo ha sottovalutato? Dove, al pronto soccorso la prima volta, prima di riconoscere che aveva bisogno di cure e di essere ricoverato erano passati dieci giorni? Sì, all’inizio della storia era accaduto anche questo.
Ora che sono lucida, penso che sia assurdo che non abbia pronunciato quelle parole. Penso che sia assurdo che, rientrata, in città non sia andata a casa dei miei a valutare personalmente la situazione ed invece me ne andai, vigliaccamente, a casa mia. Ma quei mesi, quelle ultime settimane mi avevano provato. I dieci giorni passati a giocare a ping‐pong tra medico curante che diceva che mio padre doveva essere ricoverato in ospedale, pronto soccorso che sosteneva che non occorresse ricovero, primario di una struttura privata che sosteneva che non ci fosse bisogno di ricovero, ma fosse sufficiente una cura che avrebbe seguito lui stesso. Poi il ricovero d’urgenza, di cui seppi mentre ero sull’autostrada diretta all’università per sostenere il primo esame dei due corsi di specializzazione che stavo seguendo. Poi i giorni che passarono da quando ci dissero che c’erano dei valori anomali su cui indagare fino all’altra diagnosi. L’informazione che mio padre rischiava di andarsene per uno starnuto, eventualità nascosta al paziente naturalmente, i momenti passati con lui con il timore che una risata lo uccidesse in attesa che i parametri tornassero normali e si potesse eseguire l’intervento. La tensione per l’intervento ed il decorso. Poi la ciliegina sulla torta. Il fratello grande che, una settimana dopo le dimissioni dall’ospedale di mio padre, inizia ad aggredirmi e a parlarmi come fossi una cretina perché, secondo lui, non ero capace di sapere quando mio padre dovesse iniziare la terapia, costringendomi a telefonare inopportunamente al reparto, cominciando a far decadere i rapporti con lo stesso.
E, quando ti dicono in continuazione che sei una cretina, cosa che in famiglia, soprattutto nella famiglia allargata, hanno amato dirmi in continuazione fin da quando sono nata, così, per principio, per partito preso o, meglio, per la loro perfidia, finisci per comportarti come una cretina.
L’idiota, oltre che cattivo, si rilevò essere il fratello grande, ma non lo ha mai ammesso, non lo ha mai riconosciuto. Infine, quelle settimane di sofferenza di mio padre che mi fanno pensare a chi parla di eutanasia. L’atteggiamento del primario nei confronti di mio padre. Forse era stato troppo.
E, nel frattempo, avevo continuato a dividermi tra lavoro e corsi di specializzazione all’università. Quella sera, prima che arrivasse la telefonata di mia madre, stavo pregustando la ritrovata libertà. In realtà, dopo la mattinata di lavoro, stavo rientrando dall’ultima lezione all’università per quell’anno e stavo pregustando le prossime tre serate di festa per il decimo anniversario di una associazione corale di cui avevo fatto parte, per poi mettermi a studiare per l’ultimo esame di quell’anno di lì a sette giorni.
Per vigliaccheria, perché non ce la facevo ad assistere impotente, non vado a casa dei miei genitori e torno a casa mia.
Il mattino dopo, presto, sto chiudendo la porta di casa mia e squilla di nuovo il telefonino. E’ mia madre. Vado da loro. Vedo mio padre e pronuncio le parole che avrei dovuto dire la sera prima: <<Mamma, deve andare in ospedale.>> <<Ho chiamato il suo medico, dovrebbe venire a momenti.>> Mi sembra che stiamo perdendo momenti preziosi. Aspetto. Telefono al medico curante. Sta arrivando. Arriva, visita mio padre e dice: “Ingegnere, deve andare in ospedale.” “Chiamo l’ambulanza?” chiedo. “No, puoi portarlo tu. Ora scrivo che è già un paziente del reparto di chirurgia, così stavolta non sbagliano.” Scrive il biglietto e lo appunta sul petto di mio padre.
Come fu come non fu, nel frattempo compare anche mio fratello minore che stava dormendo nella stanza a fianco, dovetti chiamare l’ambulanza e mio padre, invece di essere ricoverato dove era già in cura (“Non c’è posto”, avevano detto), si ritrovò ricoverato nell’ospedale del paese vicino.
Nel reparto di medicina interna.
“Ma come medicina interna? Non dovrebbe essere ricoverato in chirurgia?”
“Anche nell’altro ospedale dal pronto soccorso avevano chiamato il reparto di medicina interna dove non c’era posto”, replica candidamente mia madre. Afferro, in ritardo la situazione. Nell’altro ospedale quando se ne erano usciti con “Non c’è posto”, ero stata sul punto di andare a sfondare le porte del reparto di chirurgia (lo avessi fatto), avevo chiesto all’addetto del pronto soccorso che volevo parlare direttamente io con la caposala, sottointeso ‘di chirurgia’. Aveva composto il numero e nessuno aveva risposto. Quelli avevano interloquito solo con il reparto di medicina interna e mia madre e mio fratello lo sapevano!
Mentalmente, li scostai con il braccio e pensai: “Levatevi di torno. Ora, il capofamiglia sono io.”
Il primario di medicina interna mi disse che aveva bisogno della cartella clinica del ricovero precedente.
Il giorno dopo, oramai era giovedì, mi reco di mattina presto all’ospedale cittadino. La mattina precedente avevo telefonato al mio capo, informandolo che per qualche giorno non mi sarei recata in ufficio.
L’ufficio cartelle cliniche era ancora chiuso. Io, il topolino timido, quella che chiede sempre ‘Permesso’, mi ritrovo dentro l’ufficio. Spiego la situazione all’addetto che fa, come meravigliato: “Ma suo padre è del ’27?” Lo guardo come per dire: “E allora? Che tiene settantasei anni cosa significa? Che deve morire?”
Alla fine, conclude: “Va bene, tra una settimana.” Mi sembra che abbia un’espressione negli occhi come se mi stesse valutando, come se mi stesse mettendo alla prova. Io, il topolino timido, quella che rispetta sempre le regole, seguendo la mia natura, direi, rassegnata: “Va bene” e mestamente guadagnerei l’uscita. Invece, do un profondo respiro, lo guardo dritto negli occhi e, ferma, dico: <<No. Adesso>>. L’espressione nei suoi occhi è soddisfatta: ho superato la prova. Si stringe nelle spalle e va a farmi la copia della cartella clinica.
Con la cartella clinica mi reco dove sarei dovuta andare la mattina prima: al reparto di chirurgia. Parlo con la caposala che mi conferma che non erano stati informati. “Troviamo posto per tante persone, perché non avremmo dovuto trovare posto per suo padre?”
Vado all’ospedale della città vicina, affrontando di nuovo la ripida e stretta salita che occorre fare per arrivare all’ospedale del paese vicino. Il giorno precedente, avendo con me mia madre e mio fratello come passeggeri, ora sono sola. La salita che avevo affrontato due volte il giorno prima e che avrei ancora affrontato nei giorni successivi. Io che avevo paura di guidare in salita.
Vado nella stanza dove è ricoverato mio padre che mi fa, tutto contento: “Lo sai dove sono stato oggi? Mi hanno portato in ambulanza nel nostro ospedale per fare un TAC, perché qui l’apparecchio non funziona”. Viviamo in un manicomio.
Porto la cartella clinica al primario (di medicina interna). Mi dice che i chirurghi dell’ospedale avevano esaminato la TAC. Continua: <<I chirurghi hanno esaminato la situazione. Il tumore ha invaso lo stomaco. I chirurghi propongono di levare il duodeno e di fare un by‐pass, però deve rendersi conto che si tratta di una soluzione palliativa.>> Mi crolla il mondo addosso. “Questo è il momento peggiore della mia vita”, penso. Cosa devo decidere? Se fare eseguire quell’intervento massivo su mio padre per dargli cosa? Altri quindici giorni di vita e che vita? O di non fare niente e lasciarlo andare?
Il primario ribadisce anche: <<Nel momento che decidete per l’intervento, devo fare trasferire suo padre nel reparto di chirurgia.>>
Il primario mi aveva anche detto che quella mattina aveva parlato con mio padre, era una persona squisita, e lui avrebbe fatto tutto il possibile per salvarlo. “E’ l’unica persona squisita della famiglia”, avevo, a malincuore, confessato.
Per fortuna, per tanti anni ho pensato “Per fortuna”, il pomeriggio potei parlare con mio marito che mi disse: <<Devi parlare con …(il chirurgo che aveva già operato mio padre)>>.
La mattina dopo, venerdì, mi accompagna all’ospedale cittadino. La caposala di chirurgia ci informa che il primario arriverà alle 13:00. La informo anche che mio padre la mattina prima era stato in quell’ospedale per una TAC <<E poteva rimanere!>>, esclama.
Ci predisponiamo per l’attesa. È il 2 luglio. La terza domenica di maggio, mia suocera ci aveva telefonato informandoci: “Non riesco a muovermi dal letto”. In tutta quella situazione, ogni mattina mio marito, prima di andare al lavoro, da fine maggio andava prima a 20km più a nord per sistemare la madre e poi andava a lavoro. Quella mattina telefona: <<Mamma, qui la situazione è grave, ora non posso venire, verrò più tardi>>. La madre, giustamente risentita, fa: <<E Giulfurio?>> Si riferiva a mio fratello grande. << È a Canicattì>>. Mio fratello lavora e vive lì, a 300 km dalla nostra città. <<E Alfredo?>>. Si riferiva a mio fratello minore. << È a lavoro.>>
Mio marito rimane con me fino a quando, alle 13:00, non arriva il primario. Ci fa accomodare subito nel suo ufficio. Non ci fa nemmeno parlare e subito afferma: <<Secondo me è un calcolo. Cosa vogliono fare lì? Levare lo stomaco? È una cosa che non si fa da nessuna parte: portatemelo qui.>>
In quel momento decido. Non so chi abbia ragione. Mio padre deve essere di nuovo operato nell’ospedale cittadino. Almeno lì abbiamo una speranza. Nell’ospedale cittadino sarebbe stato operato in laparoscopia. Nell’ospedale del paese vicino prospettano un intervento massivo da eseguire in laparotomia. E sono convinta, magari errando, che mio padre non sarebbe uscito vivo dalla sala operatoria.
Quando arrivo nell’ospedale del paese vicino per concordare il trasferimento, il primario è già andato via. Avevo dimenticato che il primario e la (o il) caposala normalmente hanno orario 08:00‐14:00.
Raggiungo mio padre, al quale naturalmente nessuno ha detto niente delle diagnosi ipotizzate, e mi raccomando che non firmasse niente. Temevo il trasferimento nel reparto chirurgia ed il consenso all’intervento.
La mattina dopo, sabato, ci chiamano perché il primario del reparto dove è ricoverato mio padre ci vuole parlare. In seguito, farò mente locale e capirò che il primario si era recato di sabato in ospedale appositamente per mio padre. Questa volta ci sono anche mia madre e tutti i miei fratelli. Ill primario spiega loro la situazione e comprendo, dai loro volti, che mia madre e mio fratello grande pensino che per mio padre non ci siano speranze. Penso: “Oh, ma qua siamo tutti impazziti?! Stiamo parlando di MIO PADRE!”
Il primario spiega che non è riuscito a parlare direttamente con il collega, primario di chirurgia dell’altro ospedale, ma dal reparto avevano fatto loro sapere che erano pronti ad accogliere mio padre. Il problema è che mio padre si rifiutava di essere trasferito dove era stato già operato e dove lo stavano seguendo per la terapia. Il primario ci propone di andare dal paziente. Mio padre ribadisce il rifiuto di essere trasferito di ospedale. Il primario, rassegnato, sta per uscire per disporre il trasferimento al reparto di chirurgia. Urlo: “NO!” Il primario mi afferra e mi trascina in una saletta. Comincio a dirgli i motivi della mia insistenza. Mi interrompe: “Lasci fare a me.” Torna nella stanza dove è ricoverato mio padre ed esordisce: “Ingegnere, se lei dà il consenso, non deve nemmeno chiamare un’ambulanza privata per il trasferimento, la faccio trasferire io con un’ambulanza dell’ospedale.” Mio padre sembra più domo e dice: “Va bene, se è meglio, andiamo a ….”.
In quel momento, mio fratello maggiore, che nei giorni precedenti era rimasto, per fortuna, tranquillamente a Canicattì a lavorare, si volta verso di me e fa: <<Se papà muore, è colpa tua>>.
Una mazzata. Non lo sapevo ancora, ma, in quel momento, comincio a morire.
P.S. Per la cronaca, verso le 21:00 del lunedì successivo, l’aiuto del primario di chirurgia del nostro paese viene a chiamare noi tre figli del paziente che era stato operato quel pomeriggio alle 14:00. Il primario ci vuole parlare.
Nel suo studio ci mostra il grosso calcolo della colecisti che aveva causato il blocco delle vie digestive e che aveva levato in laparascopia. Nessun tumore che dal colon si era esteso allo stomaco.
Il primario ci tiene un bel discorsetto che conclude con le parole: <<E lasciate in pace questa povera signorina!>>