Quando in città chiuse l'ufficio delle poste
Quando in città chiuse l’ufficio delle poste dal balcone del municipio era già stata ritirata la bandiera della nazione. Un devoto impiegato comunale, tale Gaudio Stanchieri, si era preoccupato di riavvolgere il vessillo, ripiegarlo con delicatezza e riporlo in una vecchia cassaforte arrugginita, così per dare senso ai ricordi di una gioventù passata tra barricate, manifestazioni e moti insurrezionali. Gli operai della nettezza urbana, vigili come le circostanti rupi imperiose battute da venti di tramontana, passavano in rassegna le vie principali del centro storico, raccogliendo sornioni i mastelli e i residui di mondezza popolare, virtuosismo del fallimentare piano di raccolta differenziata imposto anni prima dall’amministrazione.
Escluso lo strofinio della grande scopa a spazzola, indomita contro le cicche incollate come tasselli di un mosaico sulle scale della monolitica cattedrale eburnea, non vi erano, in città e nelle distanze, principi di rumori e riverberi di quotidianità. Le porte dei bar chiuse a doppia mandata, le saracinesche calate implacabili sulle edicole e le vetrine spente andavano a formare un quadro desolato e spoglio di esistenza. Un fioco e borioso sole cullava i piccioni appollaiati come avvoltoi sui tetti delle abita‐zioni svuotate, sventrate di animo e pace. La combustione della sigaretta fumata dell’operaio ecologico pareva un motore su di giri tanto era il silenzio siderale della città. Ogni tanto si sentiva un forte ansimare seguito da un clangore metallico che anticipava la corsa di qualche sventurato in bicicletta, con la morte scolpita in volto e la fronte tempestata di gocce di sudore, che pedalava svelto senza apparente destinazione. Bastava un attimo e già non si vedeva più, fuggito via in qualche angusta via con la spontaneità dell’adrenalina e la forza della paura. Le autovetture da tempo erano ferme e chiuse dentro polverosi garage impregnati di gasolio. Più che per propria volontà, il blocco delle vetture era imposto dalla mancanza di rifornimento dato che l’ultima trivellatrice aveva smesso di funzionare al seguito della guerra in Libia. Le pensiline degli autobus venivano utilizzate come punto di ricovero dagli strenui residenti rimasti in città. Delle chiese, simbolo un tempo di carità e voluttà sepolta, non rimaneva che l’aspetto spento e disadorno di un culto andato a male, soppiantato dall’energica memoria virtuale delle RAM.
Mentre intorno la vita tornava alle radici, la sala consiliare del comune, foro peccaminoso di rubizzi politici, era occupata con ostinazione dai seguaci del sindaco detronizzato, esiliato dall’avvento messianico del sistema informatico. I banconi dell’opposizione, rivoltati contro le porte, impedivano ai mostri elettronici di penetrare fisicamente all’interno del rifugio, ma i server della rete comunale erano andati in tilt già tempo addietro. Le barbe lunghe, i volti pallidi e le membra sfiancate dalla sopravvivenza avevano fatto degli abili oratori una masnada di pellegrini affamati, vittime del loro stesso potere. Per non dover abbandonare l’autorità e il ruolo dirigenziale tanto bramati, il primo cittadino e i suoi fedeli servitori si erano barricati all’interno della sala mentre fuori, inesorabile, il mondo andava a rotoli. Ma la loro epoca era al tramonto; presto le serpi elettroniche sarebbero sgusciate tra i pertugi degli scaffali e a quel punto, anche per i privilegiati, non ci sarebbe stata più speranza.
Un bip acuto, ripetuto e amplificato dal campanile della cattedrale si propagava per tutta la città scandendo le ore come una campana invisibile e spietata. I cittadini obbedivano assuefatti al suo sibilare e come formiche volenterose defluivano dalle case per vagare tra gli scheletri di cemento. Dalle alture circostanti alcuni uomini sbirciavano con un potente cannocchiale i movimenti in città. Vestiti di stracci, sporchi come primitivi e una luce viva negli occhi avevano ritrovato nella caccia un istinto sopito tra le poltrone e tra i telecomandi caleidoscopici impugnati come scettri. Quando l’invasione dei cervelli elettronici era cominciata, i più avveduti, fiutando l’inganno, si erano dati alla macchia trovando rifugio lungo le coste, in campagna e tra le montagne, dimora sepolcrale dei propri antenati. Ogni luogo, ogni casa, ogni ufficio dotato di un computer era stato assoggettato, in una burrascosa notte estiva, al volere di particelle virtuali venute da un universo parallelo, conquistato a sua volta secoli prima con un reboot micidiale. Ora le terre emerse e il regno degli uomini, dopo l’avanzata delle milizie cibernetiche, era in scacco a sceriffi senza pistole e senza nome, entità senza scrupoli e senza margine di errore. La vita sulla terra era stata in breve disinstallata, così come la grazia di Dio. I più scaltri, i disonesti, i farabutti e gli avanzi di galera si erano presto dileguati dalle carceri di metallo e venduti ai nuovi sovrani virtuali. I giusti, gli instancabili lavoratori e gli umili si erano ritrovati, invece, coinvolti in un unico destino. Preferendo mantenere integra l’identità si erano decisi ad abbandonare le città prima del collasso del sistema urbano e ritirarsi in luoghi remoti, dove il canto della vita ancora si dispiegava armonicamente con la natura. Qui, tra tronchi silenti, radure incolte e bastioni di polvere dolomitica avevano organizzato la resistenza contro il potere cibernetico venuto da galassie lontanissime. Mentre in città l’astio, il rancore e l’invidia cementavano le basi della società, nelle tribù isolate ai confini del mondo prosperavano la felicità e il benessere, e la quiete non appariva solo dopo la tempesta.
Più passavano gli anni e più sui volti degli uomini raccolti sulle spiagge dorate, tra i verdi prati carezzati dalla rugiada e a ridosso delle frastagliate pareti verticali si distendevano delicati e affabili i segni di uno sperato ripristino sociale. Nessuna ombra incuteva timore agli scampati, nemmeno la più ripugnante. Al contrario, nelle città, il destino degli asserviti incrociava la via della tirannia e del terrore. L’invasione dei cervelli elettronici aveva cancellato ogni diritto sociale e calpestato quello divino. Sottomessi e in balia di soprusi e perversioni, i cittadini, persi nel vuoto dei viali abbandonati, senza tabacco né alcool, tornavano a pregare nelle vecchie chiese in rovina, sotto lo sguardo indagatore di una croce sgretolata da umidità e tarli. Ma oramai, per loro, era troppo tardi. Dalla sommità di un frassino, coltivato in gran segreto dagli ultimi uomini al centro del ghetto in periferia, due pestiferi corvi gracchiavano sospetti al calar della sera.