Quando Luigi XVI era bambino
I racconti di Versailles ‐ N. 3
Rientrato da Compiégne, la residenza vicino alla foresta dove aveva trascorso un appassionante periodo di caccia e in solitudine si era riletto Robinson Crosue, stanco del viaggio Luigi Augusto si buttò a dormire dopo avere esagerato con la cena: montagne di creme Chantilly sopra la frutta con ghiaccio tritato! Mangiare per lui una droga. Al buio, nella stanza col letto dal baldacchino contornato di tende doppie, lo stomaco pesante come un macigno, stentò a prendere sonno: ripensava, come accadeva spesso, a suo padre e a sua madre entrambi morti prima delle nozze con Maria Antonietta. Che tour de force quel matrimonio, banco di prova, quotidianità stravolta dall’ obbligo dinastico con un’ estranea, una consorte che parlava francese con un accento che intimidiva. Per questo scaricava le energie rincorrendo i cervi, dilettandosi a fare chiavi insieme al fabbro, contento quando poteva andare a letto da solo. Non era felice come marito, cosciente di non essere tale a causa dei suoi problemi sessuali: l’idea di fallire, di non sapere fare figli, lo ossessionava. Avrebbe preferito restare bambino, se avesse potuto. La responsabilità di diventare re, la nuova condizione di render conto a madame delfina, lo disturbava al punto che l’ infanzia pur avara di affetti, a ripensarci, diventava fatata.
Lo stancavano della sua graziosa moglie i continui rimbrotti. Lui applicava la filosofia del “vivi e lascia vivere” assumendo un atteggiamento che avrebbe definito di distacco, ma lei un giorno gli aveva chiesto “a che si deve la vostra apatia Monsignore?”. Si era sentito denudato. Maria Antonietta si ergeva a giudice, voleva condizionare gli altri! Ad esempio, non sopportava Madame du Barry e premeva perché fosse isolata. Non aveva completamente torto dal momento che Madame era passata da una casa di piacere a quella di Luigi XV, ma se suo nonno voleva così, avrebbe potuto mettersi contro di lui? A parte il fatto che segretamente finiva per trovarla simpatica: allegra, sincera, quando lo invitava a cena con sua maestà era affettuosa e sorridente, troppo naïve forse ma non calcolatrice, capace di raffinati intrighi. Una del popolo certo, però buona: a Versailles ciò era merce rara e accettarla significava farsi benvolere dal sovrano senza prenderne a modello la condotta.
Ricordava che una sera, rientrando dal gabinetto del Pendolo dove aveva tirato tardi giocando a carte con la du Barry e suo nonno, Maria Antonietta gli aveva sbarrato il passo:
‐ Monsignore, la vostra condotta è esecrabile!
‐ Cosa?
‐ Siete stato ricevuto da quella signora…
‐ Sono stato dal re…
‐ Come potete avallare questo scandalo a corte?
‐ Non posso decidere io per il sovrano…
‐ Ma siete voi il futuro re di Francia, quale esempio darete?!
‐ Madame, non esagerate… conviene essere gentili con Luigi XV…
‐ A Schönbrunn tutto questo non sarebbe successo…
‐ Madame, qui non siamo in Austria…
‐ Purtroppo… ‐ e Maria Antonietta era scappata via.
Cosa avrebbe dato Luigi Augusto in momenti come quello, insopportabili per il suo carattere, per affondare ancora il viso nel petto di maman Marsan e sentirne il profumo, o meglio la puzza di sudore…
Mamma Marsan, vedova di un principe di Lorena, governante dei figli di Francia, che si era coscienziosamente occupata di lui e dei suoi fratelli giacché la loro madre, sua altezza Maria Giuseppina di Sassonia, non aveva tempo. Luigi sentiva ancora il bisogno di una vera mamma, gli era mancata una persona che lo accettasse per quello che era: dolore da cui neanche i re guariscono. Per di più aveva avvertito con grande sofferenza come madame de Marsan, “la sua piccola amica”, gli aveva preferito il fratello, il duca di Borgogna, l’erede al trono, l’idolo da cui tutti erano attratti.
Girandosi emise un rutto liberatorio e dietro le palpebre rivide la stanza dei giochi com’era allora, con il camino acceso, dove insieme avevano percorso il primo tratto della vita.
Suo fratello era duca di Borgogna, lui duca di Berry: da piccoli venivano chiamati Borgogna e Berry. Luigi era nato il 23 agosto del 1754, Borgogna aveva tre anni di più. Erano molto diversi, persino fisicamente: Borgogna delicato, con lucenti capelli corvini e un viso appuntito, Berry tarchiato, biondo con la mascella quadrata. Mamma Marsan diceva che gli occhi di Borgogna esprimevano uno sguardo da maestro e andava in estasi per le sue frasi argute che il Mercurio di Francia riportava: ‐“ Che acume… sentite questa…” Berry, timido e taciturno, all’ombra dell’altro si sentiva dimenticato. Più veniva messo da parte più si appartava e il delfino per lui diventava sempre più irraggiungibile.
Nel 1758, quando Borgogna ebbe sette anni, certi signori imparruccati e austeri, chiamati “membri della facoltà”, lo presero in disparte e gli fecero molte domande. Sprofondato in una seggiola con braccioli troppo alti il piccolo rispose con padronanza. Richiesto quale fosse il suo più grande desiderio Borgogna dichiarò:
‐ Diventare re… inviato da Dio per incoraggiare il popolo.
I signori si guardarono eloquenti e stabilirono che l’esame era terminato e che il delfino era pronto. Mamma Marsan, cambiati i suoi abitini infantili con un vestito da grande, lo affidò a quegli sconosciuti con commozione e si eclissò per non tradire emozioni.
Il mattino dopo Berry si svegliò da solo.
‐ Borgogna dov’è?
‐ E’ passato agli uomini – rispose madame de Marsan aiutandolo a indossare il pagliaccetto.
‐ Ma dov’è andato?
‐ Te l’ho detto è passato agli uomini… è diventato grande… ora farà una vita veramente seria… dovrà imparare il protocollo, l’etichetta, le riverenze… di lui si occuperà il duca di La Vauguyon…
Berry la guardò interrogativo e sospettoso.
‐ Borgogna adesso è grande… – spiegò la governante ‐ Avrà gentiluomini personali, paggi personali, scudieri personali, il suo elemosiniere, il suo cappellano… hai capito?
‐ No.
‐ Borgogna assisterà alle cerimonie in pubblico come un grande… ‐ lo mise a sedere e gli allacciò i nastri delle scarpe.
Cerimonie in pubblico? Penso angosciato Berry ricordando vagamente come, a due anni e dieci mesi, quando suo nonno gli aveva fatto conferire l’onorificenza degli ordini di Saint Lazare e del Mont Carmel davanti a uno stuolo di sconosciuti era scappato per la paura…
‐ Ma Borgogna dov’è? Perché non c’è? – Berry chiamò il suo nome, attese, nessuna risposta. Corse fuori dell’enorme camera da letto, guardò nelle altre stanze, allineate senza fine in sinistro silenzio. Quando capì che suo fratello non sarebbe tornato scoppiò in un pianto dirotto e inconsolabile.
Borgogna invece divenne presto fiero del suo ruolo. A otto anni era altezzoso, calato nel rango, prendeva sul serio il fatto di ascendere da Dio, cosciente di ciò che rappresentava, era beffardo, arrogante e redarguiva tutti, fino all’insolenza. Pigro e soddisfatto non voleva studiare: il latino in particolare gli ributtava. La sua intelligenza e il suo acume, pur aiutandolo, non potevano sempre colmare il vuoto di chi preferiva trascorrere il tempo a trastullarsi e i cortigiani assecondavano, per calcolo e per paura, il suo amore per il divertimento.
Un giorno accadde che Borgogna si trovasse sopra un bellissimo cavallo di cartapesta nella sala dei giochi con un gentiluomo della Manica al suo servizio, il marchese di La Haye. Il piccolo delfino lo spronava fingendo di essere inseguito e lo stesso faceva il marchese.
‐ Forza Monsignore! Seminate i vostri nemici… ‐ diceva La Haye al piccolo e nella foga, senza rendersi conto della potenza impressa, gli diede una manata. Il bambino perse l’equilibrio, precipitò da oltre un metro, si slogò l’anca rimanendo malamente impigliato con un piede in una staffa. Una terribile fitta. Scoppiò a piangere.
‐ Monsignore, vi siete fatto male? – balbettò il marchese sbiancando.
‐ Sì. ‐
‐ Molto?
‐ Sì.
‐ Fate vedere ‐ la Haye tastò l’anca del duca che mugolò più forte.
‐ Coraggio – il marchese cercò di calmarlo e di asciugargli le lacrime pensando terrorizzato che sarebbe stato cacciato da Versailles se fosse sorto un problema – non è nulla… non fatevene accorgere o ci puniranno. Promettetemi di non di dire niente a nessuno altrimenti ci proibiranno di giocare ancora, avete capito?
‐ Dite davvero? ‐ Borgogna lo guardò perplesso.
‐ Ma certo… promettete di mantenere il segreto?
‐ Ve lo prometto – rispose il piccolo alzandosi e nel farlo sentì che la gamba gli doleva moltissimo ma, onestamente e stoicamente, mantenne la parola data a la Haye.
Fino al giorno in cui l’ascesso all’attaccatura della coscia non divenne così doloroso e gonfio da impedirgli di camminare. Venne messo a letto. Spesso aveva la febbre. L’edema si andava facendo più scuro e i chirurghi decisero di incidere la piaga. Tagliarono, senza anestesia, con un bisturi che entrò a tre dita di profondità e grattò l’osso. Terrorizzato e debole, Borgogna quasi non fiatò. Purtroppo, a causa degli strumenti non sterilizzati e di un’incisione condotta senza cognizione, il male si aggravò. La piaga si fece purulenta e la tubercolosi vi si stabilì. Era ogni giorno più esangue, la febbre toccò vette da far temere per la sua vita. Per alleggerirne la sofferenza i genitori pensarono di dargli un compagno di giochi. E fu così che il duca di Berry, a soli sei anni, uno prima del tempo, fu anch’esso obbligato a “passare agli uomini”. La cerimonia ebbe luogo l’8 settembre 1760: quel giorno il futuro Luigi XVI smise l’abituale pagliaccetto di velluto bordato di pelliccia per un completino da grande, coi pantaloni lunghi, secondo l’ultima moda francese.
Essere separato da mamma Marsan fu di nuovo traumatico:
‐ Maman…. Non lasciarmi… maman… – gli tese le braccia senza esito Berry.
La governante aveva totalmente rimpiazzato la madre vera, Maria Giuseppina di Sassonia che, alle prese con le toilettes, le messe, i pranzi e le cene, le tappezzerie, la musica, le letture pie, non aveva mai vissuto con i propri figli. La separazione e la condizione nuova costarono a Berry una lunga misteriosa malattia. L’adattamento alla vita col fratello non fu facile: era grande fatica accontentarlo, tanto più che l’immobilità e la sofferenza lo avevano reso irascibile. Berry lo riteneva un sovrano e si sentiva il suo servitore.
Un giorno giocando a carte con lui si accorse che barava.
‐ Ma che fate, mi fregate l’asso?
‐ No, quest’asso è mio! – esclamò Borgogna levandolo dal mazzo dell’altro, Luigi fece per replicare ma il delfino lo zittì con un’occhiata. Per quanto sempre meno in forze il primogenito era imbevuto del potere, dell’immagine deificata e falsa, del principe ereditario, e non per cattiveria ma perché così era stato educato.
Al fratello minore impartiva dei sermoni moralizzatori.
‐ Voglio prendere nelle mie mani la vostra educazione… ‐ sentenziava il malato in direzione di Berry, chiedendo al tutore di leggere ad alta voce La gazzetta di Versailles, che elencava le sue debolezze e i progressi spirituali. Quindi, al fratellino che lo guardava con occhi sbarrati, pontificava: – Cercate di imparare come amo correggermi dai difetti… farà bene anche a voi!
Se il tutore si imbatteva in un passo imbarazzante e critico, Borgogna alzava la voce:
‐ Basta! Da tutto questo ormai mi sono corretto!
Berry con quei boccoli biondi, la fossetta sul mento cicciotello, gli occhi cerulei e limpidi, la bocca a cuore, pur trattato con prepotenza e umiliato dal confronto, voleva comunque bene al fratellino, che sentiva come unico protettore. Per questo quando a Borgogna venne impartita l’estrema unzione perché stava per raggiungere il regno dei cieli, Luigi non capì: che voleva dire “passare al Signore”, dove lo mandavano questa volta? Il male però era inesorabilmente giunto allo stadio finale: alla tubercolosi ossea si era aggiunta quella polmonare e Borgogna morì la notte di Pasqua mentre una campana batteva le due. Era il 21 marzo 1761.
Il povero duca di Berry continuò ad abitare le lussuose sale che l’altro aveva abbandonato e si sentì solo. Era intimamente certo, per di più, di non contare agli occhi dei suoi genitori: non era facile succedere a qualcuno che aveva qualità eccezionali, non era facile essere il sopravvissuto, non lo era diventare a sua volta delfino. Ora infatti, dopo suo padre, il principe ereditario sarebbe stato lui perché primo dei figli rimasti. E questa consegna, giunta a seguito di un lutto al quale aveva assistito giorno dopo giorno, gli aveva istillato una segreta ansia, oltre alla sensazione nient’affatto vaga di inadeguatezza e di timore per il futuro.
L’anno seguente si ammalò suo papà: anche il principe Luigi Ferdinando morì a causa della tubercolosi, nel dicembre del 1765, a soli trentasei anni e dopo molte sofferenze. Fu sotterrato con grande solennità sotto l’altare candido della cattedrale di Sens. Il piccolo Luigi aveva di quel giorno un ricordo nebuloso: come di grande vuoto, di smarrimento alla comunicazione che adesso il suo nome cambiava e che per tutti sarebbe divenuto Monsignore il delfino. Poi suo nonno Luigi XV, sulla porta della chiesa, lo accarezzò asciugandogli le lacrime: “Povera Francia… – mormorò – un delfino undicenne, un re di cinquantasei anni…”.
A quel tempo le epidemie, le malattie, non risparmiavano proprio nessuno, nemmeno i più ricchi: fra loro solo i più forti sopravvivevano. Così un paio di anni dopo morì sua madre, Maria Giuseppina di Sassonia, infettata a sua volta dalla tubercolosi al capezzale del marito. A vegliare sul suo futuro non restò che il tutore, il bigotto e interessato duca di La Vauguyon. Ma già anni prima il duca, appena scomparso suo padre, andava accarezzandogli le spalle con languide dita adunche, meditando su quale capitale sarebbero state le confidenze di un futuro sovrano.
Nel freddo marzo del 1766, La Vauguyon e Berry, una mattina stavano percorrendo in carrozza il lungosenna verso Notre Dame. Il protocollo impediva a Luigi XV di assistere a una cerimonia mortuaria e La Vauguyon, accompagnando il piccolo assumeva il delicato incarico di sostituirlo. Scesi sul piazzale i due si avviarono alla cattedrale dove si sarebbe svolta la messa da requiem per il riposo del principe Luigi Ferdinando: vedendo le statue dei re di Israele e di Giudea, ora che suo padre non c’era più, Berry pensò alla caducità dei sovrani ed ebbe un attimo di vero sgomento. Entrarono. C’era odore di incenso, sotto i piedi l’ammattonato diseguale. Presero posto. Il suono dell’organo, osservò interrogativo la vergine. Gli tremò il mento. Dietro le lacrime i rosoni variopinti diventarono fiori bagnati. Provato dall’ufficio stancante sulla via del ritorno Luigi Augusto, depresso, non disse una parola. Di nuovo a Versailles il tutore insistette per condurlo davanti al ritratto di suo padre. Bui corridoi, labirintiche sale, scorciatoie misteriose con porte mimetiche. Poi, rischiarato dalle candele, quel volto, dipinto appena l’anno prima, forse un po’ smagrito ma sereno, la fronte ampia e illuminata.
“Abbiamo reso al delfino gli ultimi doveri – disse ieratico il duca di La Vauguyon ‐ lui non c’è più, ma non potremo mai dimenticarlo e lo piangeremo insieme. Sappiate fin da ora che sarò io a rimpiazzare vostro padre: lui mi ha dato la più grande prova della sua fiducia incaricandomi di prendere il suo posto presso di voi per insegnarvi a diventarne degno”.
Il piccolo scoppiò in singhiozzi e si gettò fra le braccia del tutore.
La Vauguyon, con inconsapevole sadismo, continuò:
“Promettetemi che l’imiterete, che vi impegnerete sin da ora”. Poi indicò il quadro: “Vedete il suo ritratto? Immaginate che respiri ancora, venite a meditare davanti alla sua immagine, proponetevi ogni giorno di copiare una delle sue virtù… ripetete, ripetete le sue orme sempre… fate che io possa un giorno dire: Dio mi ha innalzato tra gli uomini migliori, ha dato alla Francia il più grande dei principi e me lo ha restituito nella persona di suo figlio!”
Quelle parole cariche di morte e di responsabilità piegarono definitivamente il bambino. Il volto mummificato del tutore sembrò ravvivarsi, gli tremò il doppio mento, il naso aquilino fremette di orgoglio, sorrise: ‐ Ecco… vedo che avete capito.
Luigi pianse, si fece accompagnare a letto, gli chiese di restare e di tenergli la mano. Quando La Vauguyon sparì si addormentò con la testa piena di immensità : aveva un modello da perseguire, altissimi livelli da raggiungere, doveva diventare un dio, degno dei suoi avi. Essere se stesso una colpa e un lusso che non poteva permettersi. Dormì male rigirandosi più volte e verso il mattino sognò una scala a chiocciola che lo portava in cielo e non finiva: di colpo si svegliò tutto sudato, vide la stanza piena di ombre misteriose. Affreschi sul soffitto come mostri. Spaventato chiamò il valletto di camera:
‐ Dell’acqua… presto!
Indugiò a bere finché non fu più calmo.
Sensibile, insicuro, con un’infanzia di sofferenze, di inclinazioni naturali soffocate, fragile, senza particolari talenti, senza grinta. Paffutello e sgraziato, un bambino ordinario come milioni: ma per inesorabile forza d’inerzia Luigi Augusto Capet era sospinto dagli eventi, prigioniero orgoglioso di una tradizione secolare, verso un destino da re, incredibilmente straordinario quanto deciso dal caso.