Quattordici
Interno sette. Contenuta dentro una luce al neon, Penelope recita Ulisse. Smette i panni da educanda funerea e indossa quelli da felina immalinconita. È due righe scazzata per via delle dita anchilosate.
In fondo alla stanza, violino e pianoforte accompagnano con discrezione il suo profilo ovale e diafano che ricerca il pettine per rintracciare i nodi, e stringe in tasca la vertigine ostinata di un’emozione perduta. L’inadeguatezza le prude la schiena e non può grattarsi, al momento.
Alle due opposte estremità della stanza, l’uomo e la donna si sfiorano. Chi sono? E chi lo sa, siamo sei miliardi di orfani di noi stessi.
Itaca schiude l’uscio. Non teme la nudità, stasera.
I due colmano la distanza che separa le labbra mute intrecciando la trama del buio con l’ordito delle note.
‐ ehi? Se morissi, domani, ricorda che hai fatto mondo.
‐ ehi? Se morissi prima io, domani, ricorda che hai lasciato piuma.
Penelope s’inchina e si porta fuori dalla scena.
Inserita nell'antologia Malus Ed. 2009