Quell'insolita sera del signor Osvaldo
Chi ti rivelerà che sia quel viaggiatore della notte? La stella lucente
Corano, Sura 86
Stella sperduta
Nella luce dell’alba,
cigolìo della brezza,
tepore, respiro –
è finita la notte.
Sei la luce e il mattino.
C. Pavese
“Questa non è una sera come le altre”. Tutte le sere il signor Osvaldo, vedovo da molti anni e dimenticato dai figli lontani, se lo ripeteva senza mai prenderci. In realtà, da molto tempo tutte le sue sere erano identiche le une alle altre, “come vacche tutte uguali se le si guarda di notte”, diceva un tedesco che doveva saperla lunga (il signor Osvaldo sapeva di filosofia, e anche di vacche: da ragazzo era stato mungitore). Tutte le sere al balcone del suo trascurato bilocale al quarto piano, piena periferia; tutte le sere con il suo bicchiere di rosso opaco versato dal solito bottiglione; tutte le sere appoggiato alla stessa ringhiera a rimirare in alto un cielo, ora cristallino, ora rossiccio, ora lattiginoso, ora compatto, ora profumato di vastità marine.
Sera dopo sera aveva, il signor Osvaldo, sviluppato una sorta di familiarità con le stelle; ma non era la conoscenza erudita dell’astronomo, seppure dilettante, alle prese con un cannocchiale nelle notti luminose; no, nulla di tutto questo: il nostro solitario amico nemmeno sapeva quali fossero Orione, o Vega, o Cassiopea, o l’Orsa Minore. Il signor Osvaldo, con i suoi gomiti appoggiati sulla pietra dura della ringhiera e la sua fronte in alto, si era affezionato alle sue stelle e aveva imparato a riconoscerle empiricamente, secondo il proprio occhio, stagione dopo stagione, anno dopo anno, e via da capo. Possedeva uno straordinario talento onomastico: come un padre premuroso in vista della nascita del figlio ne sceglie accuratamente il nome, così il signor Osvaldo battezzava le sue puntiformi amiche lucenti: la Bruna, la Nerina, l’Ottavia, la Fernanda, come le sue vacche quando era giovane in campagna. Non gli difettava mai la fantasia: mille ne sapeva, mille ne ricordava. E tutte le sere in cui il cielo spalancava alta la cortina delle nubi, il signor Osvaldo si concedeva una o due lacrime nel rimirare i suoi lumini siderali lontani, o forse nel ripensare a una felicità familiare lasciata per strada troppo presto.
Null’altro faceva, il signor Osvaldo, se non aspettare, aspettare, aspettare, con i suoi gomiti puntati e gli occhi vispi e puri verso l’alto. Era, il nostro amico, un “aspettatore” professionista, un soldato temprato alle melmose trincee delle attese notturne. Aspettava che cosa? Con le sue parole: “il momento”. Ma neanche lui sapeva bene quale fosse e cosa dovesse essere, quel “momento”. E tuttavia sapeva che quel ”momento” non era mai arrivato. Così, ogni sera, deluso e malinconico, rientrava dal balcone, abbandonava le sue stelle, senza il suo “momento”. Ciononostante la sera dopo ci riprovava, ci sperava, ci credeva: e di nuovo usciva sul balcone, sotto la veste bruna del suo cielo, per mano al suo bicchiere.
In ogni caso, quell’insolita sera qualcosa accadde. Era una serata fine, di febbraio, quando l’aria di quarzo dell’inverno cede il passo alle carezze odorose e miti di un cielo che annuncia un mare promesso e raggiungibile anche nelle stanze d’entroterra, una curiosità accennata di pini marittimi e legno e sabbia, un varco possibile verso la primavera in cui anche le stelle si riscaldano nel loro tremito distante. Il nostro amico, bevuto il suo rosso stinto, si era appena sistemato nella sua consueta posizione, quando un refolo profumato gli accese i sensi. Poi tutto ebbe inizio.
Dal panno tiepido del cielo, dai quadranti puntinati della notte, una stella di fronte a lui, la più piccola, la più fioca, la più lontana (dal signor Osvaldo chiamata la Modestina) si staccò e si mosse in direzione del balcone. Sembrava avesse gambe, e mani, e si muoveva sicura, a ogni passo più nitida, a ogni mossa più disegnata. Sembrava ancheggiare sulle strade del cielo, accendendo di luce pulsante quell’insolita sera; sembrava danzare in arabeschi leggeri e regolari, sempre più vicina, fra strisce incendiate che le facevano da strascico. Era una sposa, bella e preparata per le nozze imminenti. Fu un istante infinito, cosmico, metafisico. Modestina si accostava con grazia celeste al balcone vivificando di aria e luce i sentieri percorsi nel cielo della sera. Quando fu a pochi passi dalla fronte solcata del signor Osvaldo, la stella si fermò attorniata da milioni di coriandoli dorati e invitanti, una pioggia di leccornie e festoni che inondarono il nostro attonito osservatore. Finalmente il nostro amico si lasciò andare, capì che non aveva più nulla da temere: assaggiò uno di quei lacerti colorati, dopo ne addentò un altro, poi un altro ancora, e ancora di più, fino a saziarsi in quella fontana inesauribile, in una sarabanda in cui tutto il creato sembrò vivo, animato, acceso. Poi (ma hanno senso il prima e il poi in un unico istante?) Modestina lo guardò, gli sorrise – pare che le stelle possano sorridere e lo sappiano fare anche bene nello sconfinato biancore di sconfinati denti – e, nell’incendio della notte, gli sfiorò la fronte, le braccia, le ginocchia, in una corrente sgorgante di vita e atomi, pulsazioni e rivoli d’ambra, ritmo e cornucopia di luce. Infine d’improvviso, abbarbicata com’era a quegli occhi nuovi di vecchio, in una lingua nata quell’istante eppure intesa fin dalla prima aurora del cosmo, salutò il signor Osvaldo e scomparve per le feritoie celesti.
Buio.
Quando rinvenne, il signor Osvaldo aprì le palpebre piano piano, intontito dai capogiri. Un attimo dopo, nella notte unanime e spenta, sulla propria destra si accorse di una striscia e di una pioggia colorata di pezzetti di carta portati sul pavimento del balcone da chissà chi e chissà quando. D’altra parte si era a febbraio, Carnevale era appena passato pensò il signor Osvaldo, nulla di strano. No, quella spiegazione non gli piacque. D’improvviso una piccola lucciola irruppe sulla scena accendendo la notte come una lucina nella stanza di un bimbo spaventato dal buio. Il minuscolo corpo d’insetto si illuminò, poi percorse la lunghezza infinita della striscia di carta. Infine soffiò sui coriandoli e volò via nell’ultimo tepore che spense la sera. A quel punto l’aria si rinfrescò.
Il signor Osvaldo si schiuse al “momento” come una vecchia tartaruga alla mano dondolante del mare. E sorrise. E si sentì felice. Ed ebbe quasi paura.