Quella parola

 Non so se ce la faccio, ho un impegno.
Al telefono, a mio padre che mi invitava a cena, mentivo… non avevo alcun impegno.
Era il 19 marzo, festa del papà, l'ultimo che avremmo potuto trascorrere insieme.
Persi quell'occasione e il rimorso di aver negato a quell'uomo buono, che mi amava teneramente, la gioia di vedere me, sua figlia, di abbracciarla e parlarle… mi bruciava, mi faceva star male.
Avevo cominciato a dire bugie qualche anno prima, dal giorno infausto in cui uno tsunami mi aveva travolto, sconvolto la vita, ed entrato di prepotenza nella mia casa, ospite sgradito a cui non è dato negare l'accesso: la malattia. In quel giorno infausto, sul tram che mi riportava a casa, due giovani donne sedute di fronte a me e a mio marito, parlavano.
─ Cosa prepari oggi a pranzo?
Io non avevo alcun interesse per il pranzo, altri pensieri tenevano prigioniero tutto il mio essere, la mente fissa a una sola parola e non riuscivo a pensare ad altro, se non a quella "parola". La parola concludeva la frase con la quale, al termine della visita, l'esimio professore aveva confermato la diagnosi che dava definitivamente vita allo spettro che io da tempo temevo e di cui sapevo il nome, lo stesso che sentivo riecheggiare in quella stanza anonima di ospedale: "PARKINSON".
─ Cosa prepari oggi a pranzo? ─ Continuava a rimbombarmi in testa, mentre tornavo a casa, alternandosi con il chiaro verdetto del luminare
─ Lei ha una lieve forma di Parkinson.
Le due frasi, come palline da ping‐pong, martellavano il mio cervello… ero completamente frastornata.
─ Ma sa che lei è fortunata. Ci sono tante ragazze con patologie più gravi! Parole gentili, quasi affettuose, con le quali il professionista aveva tentato inutilmente di calmare il mio pianto sommesso. "Fortunata!"
Guarda che razza di fortuna mi è capitata e io, ancora oggi, non l'apprezzo.
In tram sentivo crescere dentro di me una rabbia sorda che mi faceva star male, ma non riuscivo a tirar fuori il mio dolore, a urlare la mia disperazione.
─ Te la sei tirata, è da tanto che vai dicendo di avere il parkinson!─ Mi rimproverava mio marito.
Non solo fortunata, ma una fortuna "fai da te". Quasi una colpa, dunque, essermi ammalata. Ero arrivata a casa e, ancora, l'eco di quella frase risuonava nelle mie orecchie e nella mia testa.
Un tormentone, "Cosa prepari oggi a pranzo?", da cui non uscivo fuori. Era come se la mia vita si fosse fermata nell'attimo in cui avevo sentito quelle parole.
─ Le prescrivo un farmaco leggero, altrimenti fra dieci anni… ─ frase infelice del luminare che mi tornava in mente e nel cui ricordo crollavo e mi vedevo disabile in carrozzina.
Continuai a vivere tra una peregrinazione e l'altra degli ospedali, da un ambulatorio più o meno specializzato a un altro; costretta a dimenticare le certezze e i punti saldi progettati per il futuro per gli effetti di una patologia di cui quasi mi vergognavo e che, per questo, avevo deciso di nascondere. Avevo scelto, infatti, di non dichiarare la verità sull'esito della visita ai parenti, a mio figlio, ai colleghi. Avevo scelto di piangere il mio dolore solo con mio marito e l'amica più cara su cui sapevo di poter contare in ogni momento e per qualsiasi motivo. Per questa decisione fui costretta a nascondermi, a mentire alle persone più care. Avrei voluto, invece, urlare, gridare la verità, vomitando tutta la mia rabbia e liberandomi di quel segreto che mi uccideva più della malattia.
Mi è costato molto tacere ai miei genitori la verità. Mi è mancato l'abbraccio consolatorio di mamma e papà il cui affetto è e sarà sempre incondizionato. Recitavo un copione dove "quella parola" non poteva essere pronunciata, cosa che mi lasciava l'amaro in bocca e non mi aiutava. Mi rilassavo solo tra le quattro mura della mia casa ma anche il più insignificante degli eventi quotidiani, come l'improvviso suono del citofono, mi mandava nel panico, temevo che qualcuno riuscisse a decodificare e dare un nome all'insieme dei miei sintomi. A scuola, dove insegnavo, lo sguardo insistente di una collega che doveva aver capito e che abbassava gli occhi non appena osavo guardarla, mi infastidiva, mi innervosiva. Modificavo di volta in volta le mie abitudini rinunciando anche a ciò che amavo, evitando di frequentare i luoghi dove mi conoscevano, dove ero stata bene… sempre per la paura che qualcuno potesse arrivare alla verità che avevo chiuso in "quella parola".
─ Quest'anno rinunciamo alle vacanze al mare. Non scendiamo al tuo paese… in Sicilia ─ proclamai come un’eroina che si privava del piacere di bagnarsi in quelle acque smeraldine.
Mi mancò la terra arsa di quell'isola polverosa, il mare cristallino e il profumo intenso dei gigli bianchi che facevo fatica a non raccogliere dalle dune di sabbia finissima di spiagge ancora selvagge.
In pubblico cercavo di comportarmi in modo disinvolto, con quel fine assurdo che mi ero prefissato.
─ Ma tua moglie sta bene? ─ Chiedevano a mio marito che rispondeva mentendo… così mi raccontava. Invece credo che tanti sapessero perché lui non ha mai saputo mentire. Il farmaco leggero prescrittomi dal luminare non era molto efficace, le difficoltà e gli impedimenti erano sempre più evidenti finché mi resi conto di non poter continuare a svolgere la mia professione di insegante in modo corretto, come avevo sempre fatto. Non riuscivo a scrivere, la mano si bloccava ed ero costretta a fare correzioni a voce o alla lavagna, a volte mi si bloccava la gamba destra mentre la classe era in fila per andare a mensa!
La verità veniva prepotentemente a galla, scalciava, voleva uscire dalla gabbia in cui l'avevo ristretta e io non ero più in grado di contenerla. Lentamente arrivai alla resa, accettai la malattia come compagna di viaggio e decisi di presentarla in società.
─ Sono malata di parkinson ─ cominciai a comunicarlo alla mia collega di classe, piangendo e scusandomi per non averlo fatto prima e con un mazzo di fiori per ottenere il suo perdono.
Finalmente pronunciando "quella parola" mi sentii liberata dal masso che mi stava schiacciando. Stranamente la divulgazione del mio segreto non fu una sconfitta ma l'inizio della lotta, l'uscita dall'apatia e dall'autocommiserazione… inutili strumenti di penitenza di un medioevo ancora fra noi.