R.I.P. - In Loving Memory-
(A Short Story)
Dei fiori giacevano accanto ad una pietra. Il corpo era fresco e lentamente veniva seppellito, accanto vi erano i suoi guanti colorati, li prese. Lasciò i fiori nel vaso e se ne andò via, zoppicante dai singhiozzi, ed ogni passo un fiore veniva calpestato, era pieno di fiori in ogni angolo, ERA PIENO D’AMORE.
"Un ticchettio fragoroso e intermittente ruppe il silenzio nella stanza dalle pareti spoglie. Eros come forgiato dal proprio divano si alzò lentamente e con altrettanta pacatezza si portò rapidamente la mano sul petto, il suo cuore era ancora lì, dove l’aveva lasciato: nessun cigolio, nessun problema cardiaco, era semplicemente regolare come un orologio, eppure lui ne aveva in tempo raccolto i pezzi, sentiva solo gli echi dei battiti attraverso i suoi singhiozzi divorargli la gola, si era dimenticato della funzione per il quale quell’organo era predisposto. Tutt’uno con la stoffa del sofà bianco ma nero nella parte dove poco prima si era sistemato (tanto per ricordargli che così come si era alzato poteva riprendere la medesima posizione a pancia sotto a contatto con la stoffa, che come qualsiasi superficie nella quale entra in contatto ne può amplificare le pulsioni), si era in breve ricordato di non essere morto, l’aveva sperato, anche perché solo la morte poteva sostituirsi al sonno del quale da giorni ne era privo, sentiva ancora l’odore visibile del gas che permeava la stanza contrapposto al suono secco e ovattato sul vetro della finestra della cucina. Si alzò frastornato e a piedi scalzi compressi sul pavimento passo dopo passo raggiunse il locale del fornello dove l’acqua era evaporata fino a del tutto prosciugarsi lasciando però un abbondante porzione di verdure per dose singola, aprì la finestra e liberò in un attimo l’odore nauseabondo e la sua amica fedele a quattro zampe, e come una calamita si inoltrò entro la soglia del terrazzo, quando un pensiero lo portò indietro, nella casa e nel passato; pasteggiò con quel ricordo in immaginazione, la tavola lunga e imbandita con all’estremità un altro piatto, un'altra sedia, entrambi vuoti, mentre dall’altra parte il piatto di rimasugli di minestra era ancora pieno, è questa forse la bilancia che regola un esistenza di colpo interrotta, ritornata alla sua forma unicellulare: l’aveva aspettata per cena e si era ritrovato a non sapere cos’altro aspettarsi, quella casa era costruita per due e lui si sentiva sperduto nel caos come un bambino nella fase del pianto, ma egli non riusciva comunque a sfogarsi, ne a compiere una reazione, neanche quando l’umida lingua del suo Labrador gli leccava la mano quasi a farlo rinvenire pur se sveglio e cosciente; riflesso nel cucchiaio, a stento allungava la mano verso il centro del tavolo dove si trovava una bottiglia d’acqua, gli sembrava che quell’enorme distacco fosse colmato da sentire il suo palmo congiunto ad un altro, al suo, a quello della meravigliosa fuggevole Tania, ed ora lei non c’era più, c’era lei e una pagina bianca a seguire, perché era successo proprio a lui, perché proprio quel giorno? Di fuori aveva cominciato a nevicare, dentro era assai più freddo, la gioia che si respirava il calore festivo invernale era per lui impermeabile come l’autunno, i mille squilli di telefono non risposti per lui sarebbe stato meglio che fossero rimasti per sempre anonimi, riusciva a nascondere a se stesso le lacrime e aveva paura di buttarle fuori e davanti a persone che avrebbero poi riso di lui perché patetico, non passionale. Tutto quel via vai di persone strette per mano, allegre, si vedeva in strada con loro in mezzo alle coppiette a metri davanti di distanza come se nel mezzo tra lui e loro ci fosse una bara e lui a capo del convoglio. Pensò che la cosa che si poteva fare era sgombrare la mente e che il modo più rapido fosse ricordare, e non dimenticare, nutrirsi di ricordi come un vampiro: fare un analisi di tutto, non solo dell’album di foto, dei filmini fatti con le vecchie cineprese che rappresentavano la parte più superficiale del loro rapporto, ma accettare anche gli ultimi momenti nei quali la vedeva sfiorire giorno dopo giorno, come i fiori che le portava, destinati alla medesima sorte, ad essere curati per poi essere falciati da qualche giardiniere e lasciati al loro destino per commemorarne un altro. Le teneva la mano negli ultimi momenti ma gli era sembrato col senno di poi che non fosse stato abbastanza, che non gli era stato abbastanza vicino, mentre la malattia divorava la sua carne passando dal rosso al roseo al giallo al bianco, come se lei stessa divenisse un fiore, una rosa. Era così geloso di possederla che non le dava un attimo di respiro, cosicché il suo corpo si riempì lentamente di anidride carbonica e le fece perdere tutta la gioia, anche la sfacciataggine che la contraddistingueva. Il processo aveva fatto il suo corso, e lui non capiva che genere di male avesse potuto portagliela via, forse la sindrome di Tourette, quel morbo che spinge le persone a divenire aggressive e piuttosto sboccate, a non controllarsi più; tutti quegli insulti che lui aveva incassato avevano forse il loro motivo d’essere. Mentre rimuginava, cominciò a mettere tutti i ricordi che li riguardavano dentro una piccola scatola, la scatola stessa ne era un esempio, c’era ancora scritto "Se io ti Amo, lei già ti Ama" e di fianco un simbolo con un cuore ed un orma fusi insieme sotto al quale c’era scritto Marlene, la stessa Marlene che gocciolava saliva e dolcezza dinanzi a lui. Un rullo da cinepresa, il proiettore era proprio lì vicino, quando lo mise la sua anima si animò con le immagini, un prato rigoglioso dove lei così libera correva così veloce da sfuggire all’occhio della camera e poi ci correva incontro e contorceva la bocca all’obbiettivo per il suo amato, che da occhi estranei poteva essere chiunque ma lui sapeva benissimo, sapeva che combaciava con la sua, quasi ancora la sentiva mentre veniva proiettata sulle sue labbra, quasi ne sentiva ancora il sapore; ne sentiva sempre il sapore anche quando dinanzi al televisore osservava donne spogliarsi senza inibizioni, danzanti come in un numero da circo in mezzo a numeri: ogni volta che verso mezzanotte cambiava canale il buio tra un canale e l’altro rifletteva la sua persona triste a rispecchiarsi in uno spettacolo del genere, la sensazione di tradirla con una visione, tradirla con qualcosa di altrettanto incorporeo come lei era adesso, lo portava a lei e il solo pensare a lei e sentirla in ogni dove, nella radio, tra la gente, il suo nome in ogni affanno del vento, poteva sopperire al suo pianto nel vedersi piangere. E in un attimo si ritrovava con lei su quel prato, un prato senza lapidi, pieno di vita. Fu la volta dello specchio dove avevano inciso i loro nomi, qualcosa di più indelebile di un tatuaggio; era la prima volta che si guardava in faccia dopo tanto tempo, e a distanza così ravvicinata, si scrutò un attimo tanto per capire con chi aveva a che fare e si accorse di una macchia dietro al collo, rosea, in contrasto con il pallore che la contornava, un rimasuglio della passione che costò la vita al suo amore? Si era chiesto chi fosse veramente morto, lui ne aveva tutti i sintomi, di una lenta decadenza, di un segreto non detto e scoperto sulla propria pelle, si stava dunque anche lui avviando verso la fine? Ebbe chiaro che le persone non lo cercavano, ma volevano solo allontanarlo per non essere contagiati da quell’infezione che l’affezione per quella ragazza gli aveva inferto. Il tradimento era una forma di punizione e nella sua forma visceralmente più devastante, da voler pensare che non ci fosse un aldilà ne per lui ne tanto meno per lei: avrebbe visto persone dal basso puntare il dito verso l’alto, avrebbe continuato a soffrire. Prese un cerone rosso e profumato alla rosa canina, l’unico che non si era consumato durante la loro ultima notte di manifestata passione, il loro letto d’amore era integro, divenuto un letto di morte, per entrambi; spesso sotto le lenzuola l’inseguiva solo per proteggerla, toccava ad occhi chiusi la sua pelle nuda e la seta per negarne la differenza come se avesse attorno un intero suolo, mondo fatto di lei: due colline, due vallate e una piccola foresta oscura dove la paura che provava ad addentrarvisi era l’effetto dei suoi ormoni, quando le chiudeva la via del respiro erano tutt’uno, il respiro cessava all’apice del piacere e li lasciava per un attimo immobili come trapassati, come Romeo e Giulietta nel loro epilogo, inseparabili come siamesi, ma uniti molto più nel profondo. La seta l’aveva forse avvolta troppo, e lui se la vedeva fissare il vuoto come fissare lui, nuda poiché la morte toglie ogni inibizione, immersa nel suo sudario, al quale avere accesso per lui significava adesso un peccato, come violare una sposa morta vergine. Dei negativi ancora da stampare, lo attendevano, ormai aveva quasi raschiato il fondo, scelse con cura il fotogramma, andò in bagno sede della loro intimità più che della camera da letto, e accese le luci rosse: l’immagine latente affiorava dallo sviluppo e la cosa che gli balzò agli occhi era l’espressione di lei accanto a lui, all’epoca dello scatto sembrava che sorridesse, ed ora dava una parvenza perfino di tristezza, sembrava che quell’immagine affogasse piuttosto che svelarsi, come se l’affogamento reciproco nella schiuma, quando facevano il bagno insieme venisse fatto per crudeltà più che per gioco. Corse a vedere tutte le altre foto in casa, e tutte sembravano non mentirgli quando era stata la sua lucidità a trarlo in inganno; lei stava male da mesi, anni forse, e lui non aveva fatto niente, era diventato di lattice lui stesso, per non percepire un tale malessere. La foto dal vetro rotto che era caduta in seguito alla chiamata più avvilente della sua vita, era più eloquente di altre: lo spacco sembrava un terzo personaggio a se stante in quella cornice, il suo senso maggiore di colpa divenne il fatto di non essersi mai posto il problema delle sue colpe, aveva paura di cercare altri oggetti da riporre in quella scatola, ma doveva pur finire il lavoro. La scatola di cioccolatini dell’ultimo San Valentino. Erano ancora tutti i li come in uno spettacolo tutto esaurito, e con foga ne prese due a due, senza badare a quale scegliere, il cioccolato così dolce sembrava amaro tra le sue papille, dalle sue pupille gli venne finalmente da piangere, perché assaporava finalmente un qualcosa che aveva la proprietà di farlo sfogare, di far esaurire in lacrime lo stress accumulato, le medicine non avevano fatto mai effetto, poiché lui stesso si considerava l’effetto, mentre quella semplice leccornia infantile lo portava al settimo cielo, nell’aldilà nel quale avrebbe voluto esistere, con lei. Si pulì gli occhi ma non la bocca, e pescò dal mazzo un paio di guanti, erano multicolore quindi appartenevano a lei, sebbene fossero di misura più piccola non esitò ad infilarci le mani, e a stringere i pugni…la sentiva, il suo calore era rimasto: un guanto isola da qualsiasi contatto a patto che non si indossi quello del contatto perduto. Chiuse la piccola scatola, e si sentì soffocare. Sentendosi già vestito uscì di casa incurante degli sguardi altrui, gli parve di far parte finalmente di quel mondo, passo in rassegna molti luoghi che per loro erano divenuti di culto e gli sembrò quasi d’intravedere il viso del suo amore in mezzo alla folla di un colore che finalmente la distingueva da tutti, in un espressione felice, che stringeva la mano di chi da occhi estranei poteva essere di chiunque, ma lui sapeva la verità. Si fece attrarre dal vento sul ponte, inarcò le braccia e si fece cullare nella discesa, gli scivolò addosso tutta la sua vita fatta di ricordi ed emozioni, solo la vita che gli era valsa la pena vivere, quella vissuta con lei. La terra che lo aveva generato se lo inghiottì e ne risputò il corpo che nonostante fosse esanime, tra mille ferite gli aveva aperto un sorriso."
Dopo aver letto la lettera‐poema, prese i guanti e glieli infilò come in tempi antichi si seppellivano grandi guerrieri con i loro oggetti più cari, e lui forse non era stato guerriero, ma aveva lottato per amore e ne era caduto sotto quei colpi, seppellendo con se lascia di guerra aveva trovato la pace; Achille morto con una freccia nel cuore. Come Ulisse l’amore eterno vi era stato, ma a sua insaputa, Argo l’aveva aspettato e si sarebbe anch’esso lasciato morire. Le venne per un attimo il pensiero di quello che lei gli aveva detto subito dopo la loro "improvvisa" dipartita rispondendo al suo sguardo avvilito: "Non è mica morto qualcuno", ed in effetti qualcuno o qualcosa era appena morto. Gli congiunse le mani tra di loro come un tempo erano congiunte quelle di Lei e di Lui; fece fare il resto allo spalatore, ma nella sua mente sapeva che lui avrebbe continuato a battere per dirle che era ancora vivo. Tania si portò una mano al petto, e l’altra al suo compagno, mentre la primavera gli faceva a loro strada, ad Eros l’inverno se lo era portato via.