Raffaello Sanzio (Santi)
(Urbino, 6 aprile 1483 ‐ Roma, 6 aprile 1520)
La canicola romana, per noi romani, è un incubo. Non solo il sole estivo picchia sodo, facendo la felicità delle cicale, ci si mette anche l'umidità a rendere tutto più insopportabile. L'asfalto si scioglie sotto i piedi, si lasciano le impronte lungo i marciapiedi e si gronda sudore peggio della fontana di Trevi. Nei giorni del solleone Roma è una città piena non di uomini, bensì di pesci simili a esseri umani che boccheggiano.
E allora, ligi al buoncostume, noi cittadini dell'Urbe arroventata ci dedichiamo alla "pennichella", giusto per fuggire le ore più cocenti. Io non faccio eccezione. Dopo il pranzo cedo al cosiddetto "abbiocco" romano e svengo letteralmente sul letto, dove le lenzuola sono più bollenti dell'asfalto.
E mentre me ne sto lì in catalessi a fissare il soffitto, attenta a non muovere un solo muscolo per cercare di sudare il meno possibile, annuso all'improvviso un odore che ha un che di familiare: i colori sulla tavolozza. Mi volto e lo vedo, in piedi, dritto accanto al mio letto, in mano un pennello e l'occhio critico che osserva il soffitto come me poco prima.
«È interessante tutto bianco,» commenta alzando la mano ingioiellata, «tuttavia io proverei a dargli un tocco di colore.»
Scatto seduta e lo fisso attonita, incapace di aprire bocca. Istintivamente mi sistemo i capelli, un vezzo tutto femminile dinanzi a un personaggio di cotanto spessore, che ha fatto girare la testa a tutte le donne che incontrava.
«Mio Dio! Raffaello!» sussurro e subito dopo arrossisco imbarazzata, ripensando ai miei miseri disegni attaccati alle spoglie pareti di casa, che cercano vanamente di trasmettere un minimo di calore.
Lui abbassa lo sguardo e mi sorride con estrema dolcezza.
«Io, per servirti.» e s'inchina elegante.
«Be', per servirmi…» ripeto trasecolata, indecisa ‐in un barlume di pudicizia‐ se scendere di volata dal letto e andare a staccare tutti i disegni.
«Desideri che affreschi il tuo soffitto?» si offre con estrema amabilità.
Accidenti! Affrescarmi il soffitto? Sbatto le palpebre come per svegliarmi da un sogno e per un secondo accarezzo l'idea, la splendida idea di avere un Raffaello in casa mia, inedito e tutto per me. Possedere un'opera simile mi darebbe letteralmente alla testa e diniego seppur controvoglia.
«Sarebbe un onore immenso che non merito.» ammetto.
«Sciocchezze. Lo farei ben volentieri, dopo questi secoli di oblio. A lungo andare la mano si atrofizza e per noi pittori è un evento terribile.»
«Ti ringrazio, ma non dormirei più, intenta a osservare il tuo affresco notte dopo notte. Piuttosto,» inizio cambiando discorso, «perché non mi parli di te?»
Lo vedo grattarsi la cute, l'aria assorta, e poco dopo posare il pennello sul mio comodino e sedersi accanto a me. Mi sorride accattivante ed io rimango incantata dinanzi alla sua celeberrima bellezza.
«Cosa vuoi che ti dica? Sono nato per dipingere. Non ho fatto altro per tutta la mia breve vita.»
[300px‐Sanzio_01] «A parte correre dietro alle gonnelle.» sottolineo pungente.
Ride di gusto e annuisce, un secondo prima di accarezzarmi il volto con delicatezza. Rimango esterrefatta e mi accorgo che lui mi osserva attento, prendendo nota dei miei lineamenti, con l'occhio critico del pittore.
Non è un segreto che lui, il "divino Raffaello", abbia amato oltremodo le donne di ogni costume, ricevendo in cambio il loro amore eterno, tanto che al suo funerale tutta la Roma femminile seguiva il corteo piangendo a dirotto.
Mi scuoto dall'oblio e torno lucida quanto basta per dire:
«Sei di Urbino, la città dei Montefeltro.»
«Sì, nato durante il principato di Guidobaldo, figlio del grande Federico.»
«La corte dei duchi di Urbino era facoltosa e ridondava dei massimi esponenti in tutte le arti e le scienze. I Montefeltro erano veri e propri mecenati illuminati.»
«Vero. Mio padre, Giovanni Santi, era un pittore e i primi anni li ho trascorsi con lui, alla corte dei Montefeltro. È stato lui a indirizzarmi verso questa sublime arte, fino a quando sono rimasto orfano, ancora bambino. Allora ho frequentato la bottega di Pietro Vannucci, detto il Perugino e ho imparato tanto presso questo pittore di grandissima fama. La mia prima commissione è stata una Pala per Città di Castello quando ero ancora adolescente.»
«La città dei Vitelli.»
«Esattamente.»
«Quindi, hai lasciato Urbino in giovane età.» noto.
«Morti i miei genitori, non avevo nulla che mi trattenesse lì, a parte la mia sorellina Elisabetta.»
«Tu hai vissuto il periodo di maggior rilievo artistico del nostro paese, l'invidiatissimo e ineguagliabile Rinascimento italiano.»
Rimane in silenzio per un lungo momento ed io inizio a credere che non mi abbia udita. Ma poi alza una mano e la muove dinanzi ai miei occhi, fin quando, sospesi nell'aria, mi appaiono i suoi capolavori, uno dietro l'altro, dalla Scuola di Atene alla Fornarina, dalle varie Madonna con il bambino alle Stanze Vaticane ed io per poco non ho un colpo apoplettico. L'emozione è così forte che rimango di granito, senza fiato, gli occhi sgranati dinanzi a quelle meraviglie uniche e irripetibili. Se solo il mondo intero potesse vederle!
«Ho lavorato e assorbito le tecniche dei maggiori pittori e scultori del mio tempo e di quello precedente: Perugino, Luca Signorelli, Pinturicchio, Leonardo, Michelangelo, Bramante, i Sangallo, Piero della Francesca, Verrocchio, Donatello, Masaccio, Giotto, Beato Angelico…»
Al solo udire quei nomi vengo colta da vertigine e impallidisco: cosa sono io in confronto a questo giovane che ha avuto la fortuna di vivere fianco a fianco con geni simili? E divenire lui stesso un "divino"? Mi gira la testa al solo pensiero e lui se ne accorge. Mi tocca un braccio ed io sussulto, tornando con i piedi per terra. Lo fisso attonita, notando la sua bellezza delicata, i suoi occhi grandi e limpidi, la sua bocca piena e piccola, i capelli che gli lambiscono le spalle e comprendo il motivo per cui tutti lo amavano.
«Non è un caso che ti hanno soprannominato "Il divino Raffaello".» commento in un sussurro.
«Io ho solo assorbito e riunito in me tutti questi pittori che stimo oltremodo e che ho sempre ritenuto i miei maestri, cercando di dare vita ai loro studi.»
«Tu sei un genio della pittura. I tuoi ritratti sono praticamente perfetti.»
«Un artista non considera mai terminata un'opera. Leonardo non considerò mai ultimata la sua Gioconda, sebbene io la considerassi perfetta già ai tempi di Roma.»
«Oh, Roma.»
Per un attimo rimaniamo in silenzio, ognuno perso in reconditi ricordi, mentre le sue opere continuano a scorrere dinanzi ai miei occhi, catturando il mio sguardo e il mio cuore.
«Dopo Firenze, sei venuto a Roma.» ricordo.
«Sì, presso papa Giulio II Della Rovere. Ero accompagnato da Bramante, che mi ha introdotto alla corte papale.»
Be', a quanto pare, anche allora andavano di moda le raccomandazioni.
«E qui hai affrescato le Stanze Vaticane.» sospiro rapita.
Mi guarda di sottecchi e sorride.
«Sì, nello stesso periodo in cui Michelangelo dipingeva la Cappella Sistina.»
«Mio Dio! Quale spettacolo di mirabile bellezza deve essere stato! Tu in una stanza e Michelangelo in quella accanto!»
«Non era la prima volta che accadeva un fatto simile: per l'affresco nel Palazzo Vecchio di Firenze, erano stati chiamati Leonardo e Michelangelo, i quali dovevano lavorare schiena contro schiena. E tu sai quanto quei due geni si odiassero.»
«Cosa avrei dato per poter vivere in quegli anni di risveglio artistico e culturale!» sospiro.
«Erano tempi duri, non dimenticare.» mi rimprovera dolcemente.
«Oh, ma tu parli di Michelangelo e pretendi che io non rimanga incantata da un simile personaggio che ha regalato al mondo un capolavoro come la Cappella Sistina.»
«In effetti ero anch'io un suo estimatore e, per omaggiarlo, l'ho raffigurato nei panni di Eraclito nella Scuola di Atene.»
«Così come hai raffigurato Leonardo e Bramante.»
«Vero. Personaggi simili, di tale levatura artistica e scientifica, non si incontrano spesso nella vita.»
«Sacrosante parole. Sei stato il pupillo di Leone X, papa Medici.»
«Sì, è vero. Io e lui la pensavamo uguale in fatto di gusto per l'estetica, amore per il lusso, la buona cucina e le buone cose che ci dona la vita, tranne le donne.»
«Già. Tu le amavi da morirne, mentre lui preferiva i giovani.»
«Non giudicarlo solo per questo. È stato un papa del suo tempo.»
«Non lo giudico affatto. Anzi: se ritieni che possa avere dei pregiudizi, allora non mi conosci.»
Mi fissa a lungo, quasi a sondarmi ed io rimango incatenata ai suoi occhi, un libro aperto per lui. Quando lo vedo piegare le labbra in un sorriso di accettazione, mormoro:
«Tu hai ridato splendore a Roma e la tua luce si riflette ancor oggi.»
Resta un attimo in silenzio ed io sbircio il suo profilo delicato, chiedendomi per quale recondito fine il Signore avesse deciso di riprendersi la vita di questo giovane che tanto avrebbe potuto dare all'umanità.
[250px‐Transfiguration_Raphael] «Ricordo che quando vidi la Gioconda, rimasi paralizzato: era di una bellezza così irreale, sensuale, sfuggente, che ho invidiato la felice mano del maestro. Non ho fatto nulla di così grandioso, ma solo quello per cui venivo pagato.»
«Non hai fatto nulla?!» ripeto scandalizzata. «Ma se il papa stesso ti nominò direttore della Fabbrica di S. Pietro, accanto ai Sangallo!»
Mi guarda dritto negli occhi e trattengo il gemito di soggezione di fronte a un simile pilastro dell'umanità che, oltre a essere eccelso, è gentile, dolce e modesto, sebbene ignorante nel senso originale della parola. Lo vedo piegare le labbra in un sorriso e alzare le spalle in segno di rassegnazione e con tono mesto spiegare:
«Io non avrei saputo maneggiare una spada come Guidobaldo di Montefeltro, come il Carmagnola, come il Gattamelata o come Giovanni dalle Bande Nere; però sapevo usare il pennello e mi è parsa la cosa più naturale del mondo metterlo al servizio dei potentati.»
«Il pennello al posto della spada. Tu sì che possiedi un animo nobile. È per questo che noi romani ti amiamo e ti abbiamo sepolto nel nostro Pantheon, degno di riposare al fianco dei nostri re.»
In quel momento davanti ai miei occhi appare la Trasfigurazione, l'ultima sua opera e un attimo dopo lo vedo alzarsi dal letto e allungare la mano, come per riprendersi le sue meraviglie. I suoi incantevoli dipinti iniziano a sfumare lentamente, lasciandomi smarrita, gli occhi mobilissimi in cerca di quei quadri che hanno segnato un'epoca e mi rendo conto, mio malgrado, che anche lui se ne sta andando, lasciandomi di nuovo sola.
Lo vedo inchinarsi e mi posa un bacio in fronte, prima di sussurrare:
«Un giorno, forse, farò il tuo ritratto.»
Deglutisco a una simile prospettiva e arrossisco come una scolaretta, mentre la canicola torna ad assalirmi con il suo pesante carico di umidità.
E mentre sbatto le palpebre, ancora stordita, qualcosa attrae la mia attenzione, qualcosa che mi lascia con il fiato sospeso e gli occhi spalancati: il pennello che il "divin pittore" ha lasciato a suo perenne ricordo sul mio comodino.