Randle

Si avviava il tramonto sulla vecchia penisola del Michigan. Il rosso candido serpeggiava tra le nuvole biancastre, giungendo fin dove il sole salutava a testa alta gli americani. Il vento soffiava ad ovest, aveva il sapore canadese tipico di Detroit e senza esagerare trasportava buste, plastica, microbi. Paesaggio sensazionale. Le persone si indirizzavano verso casa, la giornata era conclusa, non restava che godersi sulla spiaggia di Orleans Atwater l’immensa palla gialla rintanarsi dietro l’eterno orizzonte. Randle McMurphy faceva parte di quel 10% di irlandesi del Michigan, ma grazie alla madre, Rita, anche del 25% degli italiani e grazie al nonno, Irwin, dell’8% dei polacchi. La sua stanza puerile dal grattacielo di St. Vincent affacciava sulla Jefferson Avenue, la cui via adiacente era proprio Randolph Street ove, da un grattacielo situato venti chilometri prima, potevi scorgere l’inizio e la fine del sole. Le tende di nonna Gloria abbracciavano la finestra aperta che emetteva una fioca luce accompagnata da un piacevole venticello odoroso e canadese, quello che in California chiamano la ‘Mexican Symphony’. In casa non c’era niente e nessuno, neanche il cibo per un rifornimento prima della preziosa cena. Poteva avere tutta l’aria di essere un’atmosfera deprimente, ma non era così. Lì c’era tutto. Il vuoto era colmato dal silenzio, la solitudine aveva raggiunto il picco massimo tanto da diventare un’ebbrezza, un privilegio, che pochi possono avere. Randle si concesse un ulteriore capriccio dopo aver assaporato per cinque lunghi e torbidi minuti la delizia di Detroit al tramonto. Così prese una vecchia foto di Kim Basinger che aveva custodito tra ‘On the road’ di Jack Kerouac e la Bibbia. Con la foto rivolta verso l’alto ed i pantaloni calati, si dimenò nella masturbazione da lui sempre disprezzata, soprattutto da quando Priscilla cedette alle sue avances e si fidanzarono dopo quattro mesi di corteggiamento da pavone.

Sul letto ricordò la sua prima ragazza, Olimpia. Era fantastica. La sua simpatia costrinse Randle a mutare la sua riservatezza in generosità, e fu talvolta persuaso nell’eseguire operazioni folli che prima proprio non digeriva. Aveva un viso che pareva quello di un pulcino, delle lentiggini che Randle adorava come gli americani adorano il burro d’arachidi, dei capelli lunghi e castani. Aveva il volto tipico anglosassone, quello che le radici di Randle premevano con tutta forza pur di conquistare. Il suo seno era enorme, ma ben proporzionato col fisico minuto e asciutto. La parlantina estrema e coinvolgente cambiò radicalmente Randle, fin tanto da farlo diventare ironico, brioso, come lui non si sarebbe mai aspettato. Ma soltanto fino a che Olimpia non lo lasciò. Amava un altro ragazzo, un certo Francis nativo del New Jersey. Si alzò dal letto e mise un cd del buon vecchio Muddy Waters, così tanto per, il momento lo richiedeva, il sole faceva a cazzotti con la luna, ed il blues, il vecchio blues del sud, non avrebbe tradito. Ricordò così nonno Joe, il quale gli raccontava la gloriosa Irlanda, i proverbi e le operazioni di guerra che condusse durante la Seconda Guerra Mondiale a capo dell’esercito inglese. Ascoltare nonno Joe non risultava mai noioso, ma bensì stimolante per un tipo curioso come Randle. Dal vecchio imparò tante cose, si fece le ossa, anche per via della morte improvvisa e prematura di papà Vernon. Fino all’età di tre anni, papà Vernon portava il figlioletto in giro per i parchi più belli ed interessanti di Detroit. La pesca, anche quella, aveva talvolta un ruolo predominante nelle uscite mattutine tra i due McMurhpy. E poi i pic‐nic nel Campus Martius Park, o le gite in montagna nel lontano Québec. Il padre di Randle fu tanto importante quanto inutile per la sua vita, ma senza rendersi conto, il suo spirito combattivo, la sua espressione da ‘cacciatore dei boschi’, la sua astuzia da figlio di puttana, venne poppata proprio dalle avventure col padre prima che questo passasse a miglior vita. Randle si fece un giro per la stanza, pareva annoiato. Si affacciò dunque alla finestra per riosservare più da vicino il sole andarsene. Gli vennero in mente gli Scout. Mille esperienze con coloro che diventarono poi i suoi migliori amici, quelli con cui mangiava al Big Kahuna Burger, con cui giocava a baseball, con cui cercava di rimorchiare le francesine provenienti dal Canada. Randle sembrava davvero felice. Più che felice era soddisfatto del suo operato, della sua vita, ma soprattutto era consapevole che davanti a lui c’erano altri anni di gioia e conoscenza. Ricordò pure quando al liceo fu acclamato dall’intero corpo studentesco per aver compiuto un miracolo. Durante l’ora di educazione fisica di un tedioso mercoledì mattina, Randle saltellava in palestra insieme ai suoi compagni sotto gli ordini di Mr. Rudolph. Non vedeva l’ora di giocare a baseball nel cortile, tra i ragazzi si prefigurava una stuzzicante ed interminabile sfida. Quando Mr. Rudolph concesse loro l’onore, iniziò subito la partita, col solito dominio della squadra composta da Randle, Frank, Martin, Robert, Al e il resto della truppa contro i “pipponi” capitanati da Red. Quando la scossa di terremoto, che ogni mercoledì colpiva Detroit in quel periodo, giunse senza pietà, sorse il tragico imprevisto: un maestoso albero di dieci metri cadde sul tetto della scuola, che si frantumò generando grandi pezzi di cemento i quali schiacciarono il povero Red in fuga. Senza pensarci due volte, Randle si catapultò nell’impresa, scaraventando tutti i mattoni per l’aria. Red fu salvato e riportato nell’edificio, finché non venne l’ambulanza che lo trasportò in ospedale. L’avversario per antonomasia non smise mai di ringraziare l’amico Randle, avvertendolo ogni volta che ‘gli doveva la vita’. Così Randle fu acclamato da tutti gli studenti, professori, dal preside, fino a ricevere una medaglia dal sindaco di Detroit due giorni dopo. Quella medaglia l’aveva ancora, conservata tra le scartoffie dei suoi scritti e le foto delle donnine nude di playboy. Non l’avrebbe mai dimenticata.

Il Michigan salutava anche quel giorno il sole, di cui si notava ormai solo un piccolo spicchio ma che illuminava con maggior potenza il tetto di Detroit. Così Randle McMurphy prese le sue vecchie scarpe che nonno Irwin gli regalò per il suo compleanno. Mentre allacciava queste, gli venne in mente proprio quel giorno. Fu tutto fantastico: ricordò quando gli eterni amici gli diedero in regalo una statua di marmo che raffigurava proprio Randle con la mazza da baseball in mano; o il viaggio a Londra che aveva sempre sognato, da parte di zia Uma e zio Jack, il quale fu successivamente condiviso con i suoi più cari amici. Per non parlare della Cadillac di nonno Joe. E poi le vecchie scarpe di nonno Irwin. Per lui avevano un valore affettivo inestimabile, forse più della statua, del viaggio e della Cadillac. Non le avrebbe scambiate con nessun altra cosa al mondo. D’altronde fu proprio nonno Irwin a salvargli la vita quando questi rischiò di non nascere. Due decenni prima, il ventre di mamma Rita sembrava scoppiare e Randle rimase incastrato tra la vita e la morte. La situazione degenerava ogni minuto, anche per la decisione di mamma Rita di abortire all’ultimo minuto, di cancellare definitivamente quello strazio per lei e per il bambino, che avrebbe potuto affrontare gravi problemi psico‐fisici per tutta la vita. Per Rita sarebbe stata una decisione critica, di quelle che non hanno bisogno di mesi per giungere a conclusioni valide ma solo dell’istinto che in ogni arteria e in ogni vena del corpo le imponeva l’aborto. Per paura o forse per vergogna. Ma l’ostetrico del momento, nonno Irwin, la pensava diversamente e catapultò le sue dotte mani nell’utero di sua figlia per espellere un bambino avvolto completamente nel mistero. A distanza di due anni l’intera famiglia McMurphy si accorse che Randle brillava come una lucciola e non solo era normale, ma aveva doti di scrittura e d’animo che misero in imbarazzo la pudica scelta di mamma Rita. Randle non seppe mai la verità. Ma solo che il suo salvatore fu nonno Irwin, direttamente dalla Polonia.

Cappello dei Lakers già pronto (i Los Angeles, la scelta di tifo che gli procurò non poche problematiche tra la compagnia di Detroit), camicia stirata, jeans Levi’s e giubbotto di pelle regalatogli anch’esso da nonno Irwin. Prima di uscire si affacciò nuovamente alla finestra, solo per accorgersi che tra i pensieri nella sua testa non figurava più l’addio dello splendido tramonto, sostituito dalla notte lunga e beata. Proprio quando si accinse ad aprire la porta della sua stanza, si accorse di aver dimenticato il portafogli nel cassetto. Aprendolo ritrovò documenti che non leggeva da tempo, come la sceneggiatura di qualche film (e di una sua opera incompiuta), il suo antico diario delle scuole medie (tra le tante dediche compariva quella di Mia Wallace, ragazzina divenuta donna‐cannone cinque anni dopo e che per la quale Randle perse la testa prima e poi), l’oneroso scatolo di sigari cubani regalatogli da zio Patrick, una rara e preziosa foto con David Gilmour leader dei Pink Floyd di cui Randle andava pazzo, una penna stilografica, un album di Elvis Presley ed una raccolta di foto d’infanzia (ove compariva spesso una Rita estremamente perplessa ed un papà Vernon assai orgoglioso). Scontato che quindi in quel portafogli ci sia oro, da affiancare a così tanti bei ricordi. C’erano foto di suo padre e sua madre, di nonno Irwin e nonna Gloria, di nonno Joe e nonna Gladys più qualche dollaro da spendere al Big Kahuna Burger. La sua era una famiglia davvero unita. Randle, figlio unico, ‘si fece da solo’, tra i cantieri di Bates St. e le avventure a Washington Boulevard. La sua passione per il baseball e per il basket formò il suo carattere ed il suo possente fisico. Sarebbe potuto diventare un valido giocatore di baseball, se quel problema al braccio destro non lo avesse condannato alla sola scrittura. Le paure di Rita si concretizzarono solo in quel minuscolo difetto, di cui spesso andava addirittura fiera nelle conversazioni private con i suoi genitori per fornire una misera giustificazione alle sue scelte azzardate e timorose di due decenni prima. In quel tempo circolava addirittura invidia sulla vita di Randle. Molti dei suoi amici desideravano la sua stima e la sua reputazione, rara per un ragazzo di quell’età, ma soprattutto le amicizie e le sue avventure. Da vecchio irlandese figlio di puttana.

Suonò una piccola sveglia deposta sulla scrivania di fianco al computer. Randle si accorse di aver fatto tardi all’impegno; il suono della sveglia avrebbe dovuto ricordargli che era già in ritardo di dieci minuti. Ma preso da tanta dolce sinfonia dell’inizio della notte e della fine dei suoi ricordi, scordò di aver selezionato la sveglia solo per un possibile ‐ ed avvenuto ‐ ritardo. Chiuse la porta della sua stanza e poi quella d’ingresso e corse subito verso l’ascensore. La sua pigrizia non gli consentiva di scendere cinque piani a piedi. Al piano terra una sorta di fluido candeggino attraversò il suo corpo, come liberazione dall’oppressione estenuante dell’ascensore. Visto da fuori il grattacielo di St. Vincent appariva come una delle meraviglie del mondo. Ma se poteva accontentare i cittadini di Detroit, venne proclamata ben presto come una delle meraviglie d’America. Così Randle raggruppò tutti i suoi pensieri, i suoi ricordi, le sue speranze, le sue ambizioni, la sua grinta, il suo vigore, la sua personalità, il suo nome e davanti alla Bmw Serie 1 del suo amico Al, che aspettava da quindici minuti il suo avvento, estrasse una 44 Magnum dalle mutande e si sparò un colpo in testa.