Rewind di un morto postumo
Morii nell’ottobre del 1980, questo lo so per certo in quanto in data: agosto, anno corrente 2012
Scartabellando un angolo di cimitero, ho trovato la lapide con inciso l’epitaffio “CINERA PETRESINE 1953‐1980. Vi starete chiedendo come abbia potuto mettere per iscritto i miei irrazionali trascorsi di vita pur essendo defunto e cadavere. Non è cosa che vi riguardi, ma se proprio lo volete sapere venite a trovarmi, non vi assicuro però che vi dirò tutto. Vi lascerò un dubbio, così, tanto per farvi dispetto.
Vi dico invece che fu una bella giornata di sole, ma una leggera brezza si insinuava sotto il maglioncino che sovrastava la camicia tenuta fuori dai pantaloni infastidendo i reni scoperti.
Fu a Roma, quel giorno di un lontano 1970 che mi portai in casa il ciclostile, e visto che c’ero, espropriai anche innumerevoli risme di carta grezza di basso prezzo. Non ne avevo mai visti di quella fattezza! Appariva come un grosso cassetto, con una fessura davanti e una manovella sul lato destro. Trasmetteva un senso di forza e un ambiguo fascino. Che razza di strano progenitore dei moderni, allora, ciclostile potesse essere,‐ a causa delle future vicende che dovevano succedermi‐ non potei mai saperlo. Aveva assolto bene il suo compito, e ora dimenticato nella scansia ammuffita di una sezione di partito chiusa per restauro, giaceva tristo e solo. Incontrai il mio amico Ignazio quella mattina e fra una chiacchiera e l’altra mi disse che stavano facendo lo sgombero di un locale. Sai, rimasugli, roba per “stracciaroli” mi disse, senza trascurare il fatto che: pensando di farmi cosa gradita mi invitò a scartabellare fra i rottami di un passato sapendo di farmi contento. Vedi se trovi qualcosa che ti può servire, “tanto e tutta robba che va pe’ monnezza” Me lo caricai sul “pandino” così com’era senza nemmeno spolverarlo e una volta a casa la prima cosa che feci fu di poggiarlo sul tavolinetto dell’ingresso dandogli un po’ di giri di manovella.
Volli verificare se funzionasse ancora, e da nostalgico signore di mezza età tornai a percorrere i vecchi lidi.
Dopo avere messo insieme una paccottiglia di idee, mi sedetti al suo fianco e cominciai a punzonare la matrice. Impetuosi venti di rivoluzioni mancate e dirette dagli scalini di piazza S. Maria in Trastevere mi riempivano il cranio cosicché nell’enfasi del ricordo, distrattamente introdussi le dita nella fessura dove si poggia il pacco della carta. Con mio grande stupore sentii solleticarmele, fu come se una spazzola con i peli morbidi mi passasse sui polpastrelli. Visto, che avvertivo un sottile piacere in quel solleticare di tanto in tanto muovevo le dita per essere spazzolato fino alle falangi. Una carezza mancata! Un desiderio represso di coccole! Procediamo per ordine. Che non mi si venga a dire “questo crapulone scrive male anche da morto”
Con la mano destra continuavo a bucherellare la matrice quando improvvisamente ebbi la sensazione di un vortice che cercava di tirarmi dentro. Fui incuriosito e insieme incredulo, infine fui preso da terrore quando alla sensazione si accompagnò il dolore delle mie dita schiacciate. Dopo le dita risucchiò la mano, poi si prese anche il braccio, e il seguito. Ululante di dolore e spianato come una sfoglia venivo trascinato nella pancia dell’apparente tranquilla ferraglia, che senza emettere rumore mi stava risucchiando nel suo antro.
Certamente dovetti perdere i sensi, o quantomeno precipitai nella fase REM di un incubo poiché mi ritrovai vivo e vegeto all’interno di un cassettone enorme dove sopra la mia testa giravano rotelle dentate e pulegge, e a me di fronte troneggiava un gigantesco rullo rivestito di gomma nera.
Rimessomi dallo strapazzo al quale ero stato sottoposto e riordinando le idee fui preso da un’angoscia tremenda e un senso di prostrazione e annichilimento mi sovrastò. Come era possibile che mi trovassi in quell’assurda e tanto irrazionale dimensione, e quei meccanismi in alto sopra di me che non sarei mai potuto arrivare a toccare. Mi venne in mente la solennità e l’altezza delle guglie delle cattedrali dove i fedeli si sentono schiacciati da una luce divina filtrante dalla sommità e travolgente chi la contempla in tutta la sua immanità
Chi mi avrebbe tirato fuori da li dentro! Se non fosse arrivata Giustina partita a trovare i suoi familiari in Perù… campa cavallo! Disse che stava via un mese; fino a quanto avrei resistito senza bere e mangiare.
Passò del tempo. Ma quale tempo! Io non lo avevo più un tempo e nemmeno un ragguaglio. Quanto ero alto adesso! E come potevo rapportarmi alla grandezza di quelle cremagliere che mi era solo concesso di guardare, a naso per aria e bocca aperta. Chi aveva messo la risma di carta dopo l’avvenuto mio sequestro! Visto che ora vedevo sfrecciare enormi lenzuola bianche poco distante da me. Sentivo il “grr,grr svifft svifft” della carta che entrava da una fessura, bianca, e ne usciva dall’altra, suppongo stampata. Questa posta addirittura al di sopra delle rotelle dentate, inarrivabile. Allo stremo per fame, e dalla sete succhiavo con avido schifo qualche goccia d’inchiostro che deviando dal rullo in forma di schizzo si appollaiava fra i miei piedi. La primiera necessità del bere era risolta, ci volle molta più pazienza per il mangiare in quanto dovetti aspettare che qualche foglio di carta ballerino rimanesse inceppato nell’orrido meccanismo. Ne raccoglievo un pezzetto lacerato e lo addentavo attorno alla sua forma. Che volume potesse avere, se fosse alto un metro o basso cento centimetri, tutto era in relazione con la mia statura,ora.
Orinavo e defecavo in una pericolosissima pozza ‐doveva essere il raccoglitore dell’inchiostro‐ facendo bene attenzione a rimanere sul piano orizzontale, oltre si estendeva un minaccioso piano inclinato dove scivolava il liquido.
Mi ero rassegnato ormai, e mi andavo abituando alla miserevole luce che mi consentiva di orientarmi in quel poco ameno stanzone.
Decisi di concedermi tutto il tempo – che ormai non aveva più un senso definire tale‐ per riflettere e trovare la via per uscire da quello scatolone. Chissà per quanto ancora dovevo essere costretto ad accettare la irrealtà di quel particolare.
Mi ostinavo ancora a chiamare tempo quello che: per me si era fermato, andava avanti, indietro, non lo sapevo. Avevo imparato a dormire come fanno gli animali, aggomitolato o rannicchiato in posa fetale, sul fondo dell’oscuro parallelepipedo.
Non soffrivo fisicamente, e devo dire che quel “molto poco” accogliente luogo: che per altri avrebbe decretato una lenta morte in preda alla follia, stava diventando il ventre caldo e accogliente di una madre, fatto sta che il condizionamento da “super io” aveva già percorso la sua strada compromettendo la mia naturale individualità.
Un fracasso improvviso, un ding dong tump timp mi oppresse, cercai di limitarlo tappandomi forte le orecchie, il ciclostile aveva dato voce a una serie di bestemmie. Come faceva a parlare, e chi gliele aveva insegnate! Quando mi risucchiò era solo un nuovo accessorio della casa. La calma che mi ero conquistata, e la rassegnazione nel mio particolare, crollarono all’istante. Iniziai a vaticinare e sbattendo la testa sulle pareti di ferro avvertii qualcosa dentro di me, come uno sciabordare di acqua che scorrendo dal rubinetto si va a perdere gorgogliando nello scarico. Come quando si dona il sangue e si avverte una parte di se che si allontana. Un qualcosa mi stava risucchiando i pensieri. Capii che il rassicurante ventre non era altro che una prigione dove uno scherzo dell’inconscio mi teneva segregato e con tutte le mie forze decisi di sfidare il Cerbero a guardia di quell’inferno. Mi tuffai nel mezzo del rullo che mi sputò assieme a schizzi d’inchiostro, sbattendomi sulla parete di metallo e facendomi ricadere sul pavimento grafitato da dove avevo azzardato il sovrumano balzo. Non mi detti per vinto, e l’ultima flebile idea rimasta, dimenticata dal “succhiatore” di pensieri saltò fuori determinata e decisa.
Aspettai che il solito foglio ballerino tornasse ad incepparsi. La carta si accartocciò il rullo si fermò, rifeci un grande disperato balzo andando a finire fra una grinza e un dosso, vi aderii con tutto il corpo puntellandomi con piedi, mani e testa, e come un Ulisse sotto la pancia della pecora uscii fuori dall’antro del mostro.
Sebbene acciaccato, nero e untuoso ritrovai le mie dimensioni, il ciclostile aveva smesso di sputare fogli stampati. Il primo rumore che avvertii fu il tic‐titoc della sveglia che da qualche parte ticchettava affogata dai fogli di carta. Era il mio tempo.
La mia casa era zeppa di fogli stampati, molti svolazzavano al di fuori attraverso la finestra invadendo le strade del quartiere.
Mi precipitai nello sgabuzzino, afferrai un grosso martello e con furia determinata sovrastai il ciclostile riducendolo un ferraccio inanimato.
Stavo soffocando dal caldo a causa della foga con la quale avevo menato mazzate, afferrai uno di quei fogli, lo lessi prima distrattamente, poi con attenzione. Che cosa stava succedendo! Su quella carta non era impresso il testo che avevo sommariamente punzonato sulla matrice prima che la macchina mi risucchiasse, ma i miei più segreti pensieri, i più inconfessabili, anche quelli che suscitavano vergogna perfino a me stesso. Avevano invaso le strade, le piazze, scivolavano da qualche sparuto alberello e si disponevano al suolo con la faccia stampata per essere letti e commentati ingordamente.
Per quanto tempo, quella macchina aveva sfornato: bestemmie, discorsi razzisti, fantasie sessuali perverse piccole truffe e cattiverie varie. Erano diventate ora dominio pubblico e tutti le leggevano. Raggiunsi la finestra spalancata e nella strada, dove continuavano a svolazzare fogliacci, vidi un cinese che ridacchiava.
Come in preda a una sconclusionata ragione di difesa lo apostrofai di male parole.
“dico a te, faccia da cinese, ridammi quel foglio!”
“non capile signole”
“fate sempre finta di non capire quando dite: plego plego e tle tle tle! Ma avete ben imparato il sistema di mettercelo dietro onorevolmente”
Fu evidente che il germe della pazzia stava ben lavorando nella mia testa, l’ultimo sprazzo di lucidità mi fece capire che non sarei più potuto uscire da casa. Mi avrebbero additato, deriso, preso a calci e forse anche arrestato e messo in galera. Salii sul parapetto con gli occhi chiusi e le braccia aperte. Sinceramente faceva anche abbastanza freddo e tirandomi su il collo del maglione, indirizzando al cielo la punta delle dita con le palme delle mani rivolte all'antenna, mi lasciai fluttuare; raccomandandomi al selciato sottostante.