Ricordati Roberto, ricordati...
Ricordati Roberto, ricordati…
Il cielo si è chiuso. Gli alberi del viale non si agitano più e nessun rumore turba il silenzio. La sensazione è troppo forte e non so cosa pensare. Apro la finestra. Quello che vedo è un cielo d’uccelli che vanno verso il mare. Lontano una pausa di luce. Allora il mio pensiero tende un ponte di parole, ma una parola, una sola parola mortale, fa scoppiare le altre parole. E il ponte crolla.
Il fumo pietrificato cade nell’amplesso taciturno dell’acqua e scompare… Due occhi, sempre gli stessi occhi, fissano l’immagine.
Il cielo d’uccelli si allunga lento verso l’orizzonte lasciando un’ombra di tristezza e di solitudine nell’empireo del linguaggio. Verità ed errori strappano la mia anima arrugginita: sussulto ancora, ogni volta, al cigolare della porta che si apre. Lei, in silenzio, mi fissa con occhi fiammeggianti, poi con voce gelida: “Ricordati Roberto. Ricordati di ciò che mi hai fatto!”
Io cerco di celare l’accaduto in una menzogna. È strano il lampo gelido dei suoi occhi profondi. Sbatte la porta ripetendo ancora “Ricordati…”.
Che strane persone queste donne! Il loro modo d’amare e piangere è inimitabile. Il modo di amare della donna è dolce, brutale, mutevole, inafferrabile, quello dell’uomo è ingannevole, rozzo, forte o debole. Fra loro non vi sono equoprobabilità. Per il modo di piangere? Quello della donna è un musicale pianto che porta in sé un brivido di un abisso misterioso che si apre molto lentamente ad intervalli irregolari; quello dell’uomo, quando c’è, è la rovina fatale di tutto senza illusione, senza scampo, senza utopie. Forse non è così… la conoscenza è ancora lontana con l’insonnia tenace, o il sopraggiungere di colpe e d’orribili sogni che mi costano rimpianti e sofferenze.
Le rose che l’invio vogliono esprimere non l’armistizio ma la resa del guerriero; vogliono chiedere, anzi chiedono clemenza per le ore senza forza trascorse sotto una nuvola nera. In principio non pensavo fosse così. Giorno dopo giorno nel cuore fiorivano le pene del distacco, le angosce dell’amore, la tristezza, l’impotenza, lo sconforto e…la speranza.
Le rose mi ritornano con l’involucro intatto e il biglietto ancora chiuso. Il telefono tace, a casa si fa negare. La mia continua preghiera di perdono non trova ascolto.
Mi ha mollato definitivamente?
Il mio pensiero azzurro diventa prima verde e nero dopo. Proverò ancora con le rose e con SMS e poi… basta.
Silenzio, solo silenzio.
I miei stanchi occhi non vedranno mai più la luce del suo volto tagliare le tenebre. dell’incertezza.
Non vedrò mai più il suo bianco sorriso consolare il mio dolore.
Il mio amore in pena è come il vento che insonne va nella bufera gridando pazzamente e bussa invano alla finestra chiusa. Lei, dietro i vetri, sente la mia angoscia ma non apre; come il vento al quale l’alba rivela la sua tristezza senza pianto, il mio amore abbandona il suo angolo e ritorna al suo dramma.
L’ultima telefonata… l’ultimo sms…”Questa volta è veramente l’ultimo”. La ragione m’invita a desistere il cuore no.
Il cuore aveva ragione, un suo brevissimo sms: Ciao. E’questo un fiore nell’ombra che mi porge il suo profumo. Il mio verde s’apre in una primavera di gioie e sorrisi; la solitudine inaugura la luce nel vuoto del cuore. Il desiderio di vederla, di parlarle si batte con la paura di sbagliare. La pioggia dell’incertezza bagna i miei pensieri e il mio cuore.
Il tempo passa. Troppo o troppo poco? Le rispondo: Grazie.
La sera si presenta con le sue domande cui non so rispondere. La notte porterà consiglio, mi dico, ma la notte finge una calma vuota e le bianche ore, senza forza, con passo lentissimo vanno verso l’amore che torce il suo tedio offrendo loro boccioli di rose.
Domani è sabato, le manderò… rose!
Il buio posa petali di rose sui miei occhi. Morfeo mi porge rose bianche, rosse, gialle, blu, nere da donare a Rosa tra rose infinite e di colori cangianti.
Il mio corpo dorme su un letto di rose nell’attesa del domani.
L’alba mi sorprende a scrivere il primo dei tre messaggi da allegare alle rose che le invierò.
Mattina: Rosa, le rose nascondono l’amore che non vuole morire.
Mezzogiorno: Rosa
le parole sono gocce di pianto
sui tuoi petali.
Sera: Rosa
non so quale altro nome dare ai miei sogni.
Il giorno corre dietro all’usuale senza emozioni. Verso sera un senso di vuoto e d’attesa m’angoscia. Una stanchezza senza nome (?!) m’invade la mente. Silenzioso, confuso salgo al buio le scale di casa. Saluto a malapena i miei, e me ne vado nello studio dicendo loro di non voler cenare e di non disturbarmi. Qui tutto è solitudine e l’invisibile abbraccia il visibile. Le cose, tutte le cose hanno un prezzo. E’ il prezzo dell’amore forse non più corrisposto. Ma io pago un prezzo troppo alto per la leggerezza di certe azioni.
Al buio odo la pioggia che batte contro i vetri e contro i muri. Resuscita il mareggiare che batte
contro la roccia; resuscitano le acque del passato che lente ritornano e mi sommergono: l’amore devia e tutto si fa deforme. Ora vuole vendicare il tradimento per un capriccio lussurioso di una donna frivola che corruppe la mia carne, ma perché così lungamente?
Un avviso di ricezione SMS mi fa sussultare. Dove è il cellulare? Eccolo! Leggo: Grazie.
E’ lei. Ha accettato i miei fiori, e quel “Grazie” è la parola più dolce che abbia mai letto.
Il cuore batte all’impazzata, ma io non voglio volare sulle ali di una farfalla perché il mio amore è ancora grave di quel: ”Ricordati Riccardo. Ricordati!”.
Pensieri dolci e amari mi graffiano la mente e scavano solchi profondi d’incertezza. Sto col cuore in mano e non so dove posarlo. Provo a costruire parole sull’architettura del silenzio ma non ci riesco. La notte si avvicina e mi copre con il suo sudario. Vorrei dormire e non lottare contro l’idea fissa di telefonarle e sentirmi poi dire: “Ricordati Riccardo…”. Non ho più la forza e la voglia di pesare. La chiamerò domani. Aspetto Morfeo con ansia.
Ore sette. Mi sveglio. E’ domenica, perché così presto! Sono intontito e spossato da un sonno agitato e impataccato da violenti colori grigio‐nero, giallo e rosso. Mi trovo subito in un immenso spazio ittico dove la lenza del pensiero non sa che pesci prendere. Decido: le invierò ancora delle rose e andrò a messa con la speranza di vederla. O. K., farò così.
Accompagno un fascio di rose rosse con una sola rosa bianca, con questo messaggio:
“A te Rosa bianca, infinite rose rosse. Perdonami. Posso osare di telefonarti?”
Alla messa del solito orario non c’è. Il mio cuore è simile ad un pezzo di latta schiacciato in una morsa d’acciaio. Tutto intorno a me è un enorme punto di domanda circondato da tantissimi punti esclamativi.
Ritorno a casa quale cane bastonato. Attendo in solitario silenzio uno squillo che non arriva. Il tempo sembra essere caduto in un vuoto senza dimensioni, così la mente. Il nulla mi circonda con le sue braccia e cancella anche i ricordi che timidamente cerco di annodare con il filo del desiderio. Non ci riesco. So di dover reagire ma mi manca anche il più debole degli appigli nonostante quelli che parenti e amici mi offrono con premura e con ansia.
Mi lascio cadere sul letto e dichiaro vittoriosa l’abulia. Solo di tanto in tanto seguo, con indifferenza, il gioco di luce riflessa sul soffitto. Cedo poi alle insistenze e alle preoccupazione materne ad attendere malvolentieri alle primarie necessità quotidiane.
Il tempo avanza lento e impalpabile nel bagliore del vuoto. La speranza timidamente s’affaccia a vortici azzurri ma, immediatamente, si dissolve in uno spazio che svanisce e in pensieri che non penso. Il giorno volge alla fine. Aspetto sempre una parola che non arriva: un “Sì” che può portarmi all’ingresso del sogno o un “No” che mi precipita nel vuoto più nero e profondo.
”Forse ha bisogno di riflettere”. Bene! Ricomincio a pensare? Un grappolo di pensieri pende nel buio e, con fatica, comincio a staccarne qualcuno ma questi non vanno da nessuna parte. Devo staccare necessariamente la “spina”. Domani mi tufferò nel lavoro e…”carpe diem” per ogni distrazione che la vita mi offre, ma la notte è lunga e l’alba è lontana.
Mi sveglio alquanto riposato anche se il sonno è stato agitato. Controllo il cellulare: niente.
La giornata corre sui binari della normalità, unica variante è il ritmo lavorativo più intenso. Nella pausa pranzo mi coglie l’impulso di inviarle una scatola dei suoi cioccolatini preferiti. Devo reprimere l’impulso. Ci provo, ma non ci riesco.
Le scrivo: “La pausa ha il tuo volto, la tua forma ma non la tua dolcezza”.
Sto per rincasare quando il cellulare mi avverte dell’arrivo di un messaggio.
Leggo: “Grazie. Non voglio offendere la tua sensibilità ma ti prego di non inviarmi più profumati e dolci ricordi. Ho bisogno di tempo e silenzio per guardare a fondo nel mio cuore”.
“Aspetterò con pazienza riscaldando il cuore al fuoco dell’amore”.
Sui giorni piove polvere di secoli e il “quando” è nelle sue mani. Nel vortice dell’attesa
bevo luce, mangio buio e viceversa, a sazietà. Non ingrasso perché l’una compensa l’altra. In questa giungla di sentimenti, di sensazioni, di decisioni, d’indecisioni e di tempo inchiodato sul muro di una risposta, cerco la strada quale cieco.
Conto e riconto i giorni che sono trascorsi dal suo messaggio. La solita amletica domanda: “Sono tanti? Sono pochi?”. Un’eternità un mese. Rompo il silenzio e le invio una rosa con uno scritto: “La Rosa è stata sempre ed è sempre una sola, ma le pene sono tante. Ti è così difficile perdonare uno sbaglio di chi t’AMA.?”
Risposta: “Ricordati Riccardo. Ricordati…”
Mi ricordo, mi ricordo e… torno al mio peccato nell’attesa di una nuova primavera.
Con un petalo di rosa le invio l’ultimo scritto: “Le rose sono tutte sfiorite, i petali sono marciti sotto l’acqua dell’attesa e il profumo lo sta disperdendo il vento della rivalsa. Peccato!”