Rigor mortis
Cara Veronica,
è un po’ che non ci sentiamo, ma sono sicura che mi perdonerai dopo che ti avrò spiegato la ragione per cui non ti ho più scritto: sono morta tre mesi fa. Mi dispiace, non ho potuto dirtelo prima, ma, capirai, sono stata impegnata in mille faccende da quel giorno in poi.
Anzi no, sono certa che non puoi capire, i vivi sono così insensibili… Tu, in particolar modo, poi, sei sempre stata la più insensibile fra tutte le nostre compagne di scuola.
Scusami, non volevo offenderti, cara, tu hai tanti pregi: sei sempre stata intelligente, elegante, affascinante, ti è sempre piaciuto divertirti (quante ne hai fatte, con quel tuo faccino da scoiattola…), con te è impossibile annoiarsi, si ride sempre e poi ti sono sempre stata affezionata, anche se sei così diversa da me… Ma la sensibilità, lo ammetterai anche tu, non è mai stata il tuo forte…
Non voglio proseguire su questa china; volevo solo raccontarti che cosa mi è successo da quel giorno.
Sono morta la notte del 3 settembre, così, all’improvviso. Nessun presentimento, nessun segno premonitore. Ero andata in piscina a fare aquagym la sera prima. Avevo ancora negli occhi gli lo sguardo caldo di Enrico, l’istruttore, e il suo corpo bruno, marmoreo, che scorrazzava con autorevolezza sul bordo della vasca impartendo ordini ritmati a un acquario di foche adoranti. Sai, avevo lasciato Marco da un paio di mesi e cominciava a mancarmi la presenza di un uomo e, diciamo anche… beh, credo tu abbia capito (per queste cose sei sempre stata sensibile eh?). Forse quest’ultimo aspetto mi mancava anche prima, visto che Marco, beh, insomma, non è che fosse mai stato di un’abilità e di una fantasia sconvolgenti (e forse anche per quello mi ero stufata di lui, del suo amare stanco e ripetitivo, anche se, mentre lo mollavo, gli avevo raccontato le solite storie per non umiliarlo). Insomma, appena rientrata a casa, mi sono fatta un panino e una mela, divorandoli con appetito mentre ancora fremevo per quell’Apollo delle acque clorate. Poi, senza guardare neanche un minuto di TV, me ne sono andata a nanna, sognando che avrei rivisto il mio bell’istruttore tre giorni dopo.
Invece, guarda tu, al mattino dopo succede che non mi sveglio. Ma non ho sofferto, anzi; mi sono trovata cullata in una beatitudine mai provata prima, senza ansie, nervosismi, sensi di colpa verso nessuno (ti ricordi quando mi chiamavi Anna Karenina per le mie inquietudini?). Neanche dopo la maturità, ti ricordi, quando avevamo girato per un mese la Francia in autostop, mi ero sentita così libera e leggera.
Sono arrivati gli uomini delle onoranze funebri, quel mattino. Tutti attorno al mio letto a occuparsi di me, come in una spa quattro stelle. Chi mi toglieva il pigiama, chi mi lavava, chi mi pettinava, chi mi truccava, chi mi rivestiva. Mani su mani di sconosciuti che si prendevano cura di me stesa supina. Tutti così dolci, così premurosi, così discreti.
Finché, completata quella liturgia organizzata di carezze, uno, il più audace, ha deciso di non fermarsi lì.
Mi ha sfilato lentamente il vestito che avevo scelto, un giorno per gioco, per il mio funerale (quel tailleur nero casto con gonna al ginocchio che mi aveva regalato Marco per la laurea, te lo ricordi? Era tutto talmente nero e serio che mi chiamavi la Pinguina Innamorata…) e ha iniziato a sfiorare le mie gambe gelate, su e giù, dapprima soavemente, poi con un impeto crescente…Gli altri, all’inizio sbigottiti, poi sempre più galvanizzati, hanno iniziato a seguirlo. Ti giuro, cara, che, se non fossi morta, avrei iniziato a gridare per l’umiliazione.
Mio Dio, Veronica, che porci: mani, labbra, lingue, a frugare in ogni parte del mio corpo irrigidito. Dita e bocche che si insinuavano dappertutto, in ogni mio pertugio deceduto. Erano talmente eccitati che due di loro, pensando di leccare il mio ombelico, si sono messi a limonare fra di loro sulla mia pancia nuda. Che ridere!
Ehm, volevo dire, che orrore, che schifo! Ma si fa così? Con una morta? Ma ti rendi conto?
Dopodiché mi hanno rivestito, deposto nella cassa e mi hanno portata via non so dove.
Il giorno dopo sono ritornati da me. Erano molti di più.
Mi hanno di nuovo spogliata, rapidamente.
Una tenda di banconote appoggiate sul mio petto, passate da una mano all’altra, come se le mie defunte tettine fossero diventate la cassa 3 dell’Esselunga. Se non fossi stata in quello stato, avrei urlato loro tutto il mio sdegno: ‐ Per chi mi avete preso, eh? Mica sono la vostra zoccola…
Ma quella volta hanno veramente esagerato.
Senza carezze, senza romanticismi, il primo di loro è entrato in me. Ha iniziato a dimenarsi nel mio ventre secco di cadavere. Poverino, che fatica deve avere fatto.
Scusa, mi è venuta così, non volevo dire questo. Volevo dire, era una bestia, un animale selvaggio. Un andirivieni brutale di colpi elettrici di bacino. Poi ha finito.
Lui.
Subito è partito il secondo, un’altra belva. Poi il terzo, il decimo, il ventesimo, e così via. Uno dopo l’altro. Scariche furiose fra le mie gambe inerti senza soluzione di continuità. Tra l’uno e l’altro si battevano il cinque, si passavano il testimone. Ero diventata la loro staffetta olimpica (ti ricordi, Vero, come mi piaceva correre quando facevamo le Medie?). Tutti urlavano sguaiatamente come gorilla. Tutti ridevano.
E’ stata una giornata lunghissima, estenuante. Poi sono stata di nuovo lavata, rivestita, e infilata nella cassa foderata. Come un violino o una mitraglietta dopo un’esecuzione! E’ stato terribile, credimi, veramente un’esperienza terribile.
Il giorno dopo, quell’esecrabile cerimonia si è ripetuta. E quello dopo, ancora. Ogni volta erano più vigorosi e pieni di potenza. E pensa che fantasia, i maiali! Il quarto giorno sono arrivati con un panetto di bottarga di muggine e me l’hanno grattugiata tutta addosso. Ma dimmi tu se non è gente malata, quella! Poi, mentre mi davano una bella ripassata (scusami se parlo così, ma sono ancora un po’ scossa), si sono aspirati tutta quella polvere rossastra, che peraltro a me ha sempre fatto un po’ schifo.
Ah ma se fossi stata viva, gliela avrei fatta vedere io (e non fare battute!) a quei criminali!
Sono andati avanti in quel modo per qualche giorno. C’erano sempre più maschi, e sempre più brutali. Tutti a far la fila, tutti a visitare il fenomeno da baraccone. Tutti a spendere soldi per la povera puttana morta. Valli a capire gli uomini! Ero diventata il loro freak show, come nella canzone di Vinicio, quella che parla del Gigante e del Mago.
Uno di loro, in un moto pietoso di tenerezza, ha intrecciato una margherita fra i miei capelli. Dopo avermi fottuta in ogni modo. Che stronzo!
Poi, un bel mattino, sono arrivati solo in due. C’era molto silenzio attorno a me, insolito. Forse avevano ancora intenzione di rispogliarmi. Ma non se la sono più sentita. Dovevo cominciare a puzzare troppo anche per loro; quasi mi vergognavo, io che sono sempre stata una ragazza pulita e profumata; e forse il mio aspetto cominciava anche ad assumere fattezze orribili. Doveva essere troppo persino per quei mostri.
Così, bruscamente, nella stessa maniera in cui, le volte precedenti, mi avevano svestita per dar corso alle loro bizzarrie, mi hanno risistemata in quelle pareti di noce. Poi hanno sigillato la cassa. Questa volta con la lamina di zinco.
Poi siamo arrivati in chiesa. Quando è partito il primo rintocco di campana, non mi sono mai sentita così sola.
In confidenza ti dico (anche se forse non dovrei…) che ora un po’ mi mancano quelle attenzioni maniacali, quelle cure costanti tutte e sole rivolte a me.
Non so se ti scriverò più, ma spero che capirai la situazione (anche se sei insensibile, ih ih)…
Ti voglio bene.
Sempre tua (anzi eternamente tua…).
ANNA
Ps. Forse non sta bene dirlo, ma che arnesi, Veronica! Dovevi vederli com’erano sempre dritti, petrosi, arborei. Sempre pronti, tutti per me! Io li ho ancora in mente. Pensavo che solo i morti come me potessero avere quella consistenza… E come pompavano bene, con furia precisa e appassionata. Se non fossi morta, ti direi che non avevo mai provato quelle scosse per tutto il corpo.
Se penso a quella biscia d’acqua striminzita che aveva Marco fra le gambe!