Rin e Ran
E' la storia di Rin e di Ran, due ragazze apparentemente identiche: brune di capelli, scure di carnagione, sorriso bianco da cartellone pubblicitario.
Sì, all'apparenza sono molto simili. Amano i gatti, il cibo giapponese, i film di Kitano. Amano perfino lo stesso uomo.
Tanto che una sera si ritrovano sullo stesso lungomare ‐ è estate e fa un caldo torrido ‐, a pochi metri di distanza l'una dall'altra, inconsapevoli compagne d'attesa e di lenzuola. Rin indossa un paio di jeans e una maglietta scura, accollata, ché detesta i colori accesi ‐ anche se sua zia continua a ripeterle che le donano meravigliosamente. Ha paura di mostrarsi, Rin, o più che paura è un sentimento, quello che prova, che combacerebbe più con la definizione di fastidio. Sì, preferisce star coperta, perché tanto ‐ pensa ‐ sotto i vestiti siamo tutti uguali. Più o meno.
E dall'altro lato c'è Ran, solare, estiva, una tavolozza di gialli e di rosa. Si guarda le gambe, non troppo lunghe ma sode e ben tornite, e fa un sorriso al pensiero di lui, della faccia che farà lui, delle mani di lui che gliele divoreranno, quelle gambe, non appena la vedrà. Ed ha un brivido quando ricorda quello che è successo dopo, l'ultima volta. Un po' se lo augura che accada ancora, più che altro perché ha una voglia matta e poi perché domani vedrà Len: non può andare da lei a mani vuote, senza nulla da raccontare.
Ah!, quasi dimenticava. E' quasi un mese che non aggiorna il blog ... Dovrà rimediare pure a questo.
La sera d'estate porta con sé un vento senza ossigeno, aria che attanaglia i polmoni ed irrita gli occhi. Rin si stringe nelle spalle, sospesa fra un sospiro d'insolita libertà ed una profezia di dolore: vorrebbe piangere, scappare, pur di non sentire il vuoto spandersi come petrolio dentro di lei.
E' peggio del fuoco, del ferro bollente ‐ pensa, riportando la mente ad una vecchia bruciatura che si procurò armeggiando con le pentole, ‐ è come un'agonia. Forse T. prima di buttarsi dall'ottavo piano l'ha sentito, e non ce l'ha fatta, non ha retto.
E Ran invece è lì, che ammicca al primo che passa succhiando un po' di fumo dalla sua Marlboro Light ‐ le altre marche fanno schifo, o almeno così le hanno detto le sue amiche. Prima di uscire, mentre si truccava, ha rivisto per la ventiquattresima volta l'ultima sequenza di Moulin Rouge!, quando Nicole Kidman muore eroicamente fra le braccia di Ewan McGregor. Quant'è bello quel film, è proprio... bello, bellissimo. Troppo BELLO. S'è ripromessa di annotarsi un paio di citazioni sull'amore ‐ in quel film ce ne sono a iosa ‐, e di raccoglierle tutte in un quadernino da regalare al suo "cicci". Il suo Ewan: lui si che ne capisce di poesia, cinema, arte. E' proprio la persona giusta, ne è convinta da sempre, dal primo momento. E poi a letto la sculaccia, ed è una cosa che la fa morire.
Quasi quasi però me ne torno a casa, riflette Rin, perché in effetti è mezz'ora che aspetta, nervosa e vibrante nel cono di luce gialla del lampione, ed è stanca di aspettare, lei DETESTA aspettare ‐ e non vuole certo finire col dire "è tutta la vita che aspetto", oppure "la mia vita è stata un'attesa continua" quando avrà ottant'anni, no, si rifiuta di farlo. Ma poi le balza alla vista l'immagine di casa sua, suo padre che fa i cruciverba in salotto mentre mamma sistema la cucina, e suo fratello che parla a telefono e parla, parla, PARLA...
Così decide di restare, tanto cosa saranno altri dieci minuti se già ne sono trascorsi trenta?, guarda il cellulare ed il display è miseramente vuoto, c'è soltanto l'orologio digitale e i due puntini che lampeggiano la ipnotizzano per alcuni secondi. Perché m'è venuto in mente T.?
E nel frattempo, dall'altra parte del marciapiede, una vecchia Tempo accosta accanto alle aiuole, il finestrino semiaperto dal quale fuoriesce un lungo avambraccio smagrito. Ran risplende di gioia, raccoglie il suo portachiavi a forma di cuore da terra ‐ le era caduto mentre cercava le sigarette ‐ e lo infila di forza nella sua borsetta rosa col glitter; quindi si avvicina alla macchina, sosta per un momento davanti al vetro abbassato con un sorriso beota incollato sul viso, dopodiché fa il giro ed apre lo sportello di sinistra per salire.
La Tempo riparte ma Rin non la nota, non la vede nemmeno. I minuti da dieci diventano venti, da venti diventano trenta, e quando scocca un'ora esatta Rin sa che la profezia s'è avverata, non ne ha prova ma lo sa, ne ha la certezza, e sta così male che non riesce a piangere, perché ‐ dice a sé stessa ‐ ci sono cose tanto grandi da diventare inspiegabili.
Così decide di restare, un'altra volta, la seconda in una sera. Si siede su una panchina e aspetta, chissà che non passi qualcuno che conosce con cui poter fare quattro chiacchiere, ridere, smettere di pensare. Ci saranno spore di malinconia nella brezza marina, pensa, e ride di se stessa, di come non si stanca mai di cercare modi nuovi di cantare al mondo.
Sempre lì, sulla panchina, instancabilmente
canta.