Romolo
(771 a.C.‐ 717 a.C.)
È proprio vero: noi romani amiamo così tanto la nostra città che quasi ci dimentichiamo che esiste. Noi, esseri uniformi, stereotipati del XXI secolo, non ci rendiamo conto di dove posiamo i piedi ogni qualvolta muoviamo un passo. Dire che sotto di noi esistono tremila e più anni di Storia sembra riduttivo, ma tant'è e non è un caso se a Roma le metropolitane sono solo due e sempre affollate come carri merci: prova tu a scavare sopra tremila anni di Storia e poi ne riparliamo.
A ogni centimetro scopri insediamenti, fossili, ossa, statue, ciotole e via dicendo che, venendo alla luce, ci guardano con un'aria come dire: ma tu che puoi saperne?
Eh, già. È proprio così che mi sento mentre, girovagando tra i maestosi Fori Imperiali, d'improvviso il sole sparisce e un forte vento di scirocco mi costringe a chiudere gli occhi e a ripararmi in qualche modo. Ed è allora che lo vedo, con una tunica legata in vita, le gambe muscolose che s'intravedono da sotto il gonnellino e rimango incantata a fissarlo.
Il suo sguardo fiero e deciso mi trafigge come un dardo e mi rendo conto di avere ancora gli occhi chiusi.
«No, non aprirli, tanto mi vedi lo stesso.» mi dice con tono di comando.
Gesù mio, non posso crederci: è lui, Romolo, il nostro fondatore, che se ne sta lì, davanti a me, fiero e altero proprio come un re o, se preferite, come un dio. Deglutisco sentendomi una nullità al suo cospetto e mormoro:
«Salute a te, o divino Quirino.»
Lo vedo fare un gesto stizzoso con la mano prima di ribattere:
«Falla finita. Sono Romolo, punto e basta.»
«Ma dopo il tuo trapasso, i romani ti hanno elevato agli onori degli altari con il nome di Quirino e ti hanno venerato per secoli con questo appellativo.»
«Sciocchezze. Sono morto e basta, come un qualsiasi altro uomo.»
«Ma tu sei Romolo.» insisto puerile.
Lo vedo alzare gli occhi al cielo e rivolgere una preghiera a qualche dio pagano ed io mi metto a ridere, notando la sua espressione buffa.
«È vero,» chiedo curiosa, «che tu e tuo fratello avete ucciso vostro zio Amulio e riportato sul trono vostro nonno Numitore?»
[Romolo] «Tu cosa avresti fatto? Non solo quell'essere spregevole aveva ucciso mia madre e tentato di eliminare me e mio fratello, aveva altresì distrutto la mia intera famiglia pur di salire al trono. Quando io e Remo siamo venuti a saperlo, abbiamo fatto sì che le cose si riaggiustassero. Tutto qui.» conclude come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Per un attimo rimango sovrappensiero, cercando con la mano di trattenere i capelli che il vento mi ributta costantemente in faccia, quindi mormoro:
«Allora, eri comunque destinato a divenire re, re di Alba, appena tuo nonno avesse reso l'anima a Dio.»
«Dio? Quale dio?»
Sospiro e allargo le braccia, borbottando:
«Fa' un po' tu.»
Lo vedo grattarsi il mento meditabondo e il suo sguardo incupirsi.
«Sì, certo, re di Albalonga. Ma c'era anche Remo.»
«Chiaramente un neo da estirpare.» commento mordace.
Lui digrigna i denti e reprime uno scatto d'ira, dichiarando lapidario:
«Se l'è cercata.»
«La morte?» domando scettica.
«Sapeva benissimo quali erano i patti, ne avevamo discusso a lungo. E li ha infranti.»
Sbuffo spazientita e chiedo sarcastica:
«E com'erano questi patti impossibili da infrangere?»
Mi si avventa quasi contro, con sguardo furioso e sibila come una scudisciata:
«Non usare condiscendenza nei miei riguardi, ragazzina.»
Rimango sbigottita, il cuore che mi arriva in gola per lo spavento e mi accorgo di essere diventata di granito. Be', la grinta non gli fa difetto. Lo vedo raddrizzare le spalle e inspirare a fondo, prima di ricominciare:
«È presto detto: poiché in due non era possibile comandare, abbiamo deciso di fondare una città sul colle Palatino. Lui insisteva per fondarla sul colle Aventino, portando a pretesto che il Palatino fosse sacro agli dèi, io proprio per quello. Per questo, per decidere chi dei due avesse ragione, ci siamo accordati per una paziente attesa.»
Chino di lato la testa, con una muta domanda nella mia espressione e lui continua:
«Abbiamo atteso per un intero giorno che passassero gli avvoltoi in cielo. Chi più ne avesse avvistati prima del calare del sole, avrebbe scelto il luogo della fondazione e sarebbe diventato re. Era il 21 aprile del 753, non lo dimenticherò mai. Ero giovane, all'epoca.» ricorda, lasciandosi andare per una frazione di secondo alla nostalgia. «Orbene,» riprende con tracotanza, «lui ne ha avvistati sei, io dodici, proprio sul limitare del tramonto. Pertanto, lascio a te indovinare chi abbia vinto.» conclude con sarcasmo.
Incrocio le braccia sul petto e porto il peso del corpo su un solo piede, in segno di sfida. In quell'attimo, alle spalle di Romolo, appare un altro giovane che non stento a riconoscere come l'altro gemello, il quale interviene precisando:
«Dodici, sì, ma dopo il tramonto.»
«Prima del tramonto.» ribatte Romolo con decisione.
«Dopo.»
«Prima!»
«Un momento!» intervengo alzando di un tono la voce, cercando di fare da paciere. «Non è questo che conta. Conta il fatto che l'episodio vi ha reso nemici e vi ha condotti al fratricidio.»
Remo sogghigna e indicando il fratello lo accusa:
«Ti sei sporcato le mani con il tuo stesso sangue solo perché ho oltrepassato il solco della tua città quadrata.»
Inviperito, Romolo fronteggia il fratello e ribatte:
«Hai osato attraversare un solco dichiarato sacro e inviolabile dall’oracolo. Ti sei fatto beffe degli dèi e sapevi benissimo a cosa saresti andato incontro. Potevi rimanertene tranquillo sull'Aventino a fondare la tua città, invece sei stato invidioso e mi hai portato a ucciderti!»
«Ma sentitelo!» esclama Remo con sarcasmo. «Ora l'assassino accusa l'assassinato di essersi lasciato assassinare!»
«Sparisci dalla mia vista, profano!»
«Basta!» intervengo ponendomi tra i due e li guardo uno a uno negli occhi, quindi Remo abbozza un sorriso e svanisce così come era apparso, facendomi un cenno di saluto con la mano.
Resto a fissare Romolo, sempre tenendo gli occhi chiusi, e domando:
«Eravate sempre così bellicosi?»
«Ti potrà apparire strano, ma io ho voluto bene a Remo, fino a quando ha compiuto quel miserabile gesto, in spregio agli dèi. Come re, non ho potuto chiudere un occhio solo perché si trattava di mio fratello. Se l'avessi fatto, avrei creato un precedente e chiunque si sarebbe ritenuto in diritto di scavalcare il solco inviolabile e penetrare nell'Urbe.»
Esito un attimo, cercando di capire il suo punto di vista e borbotto:
«La ragione di stato.»
«Ecco, brava. I sentimenti non c'entrano nulla.»
Scuoto la testa, ben contenta di non fare parte di quella schiera di regnanti e potentati che, per ragioni politiche, hanno dovuto sacrificare i propri sentimenti. Il cinismo non è mai stato il mio forte, eppure pare che tutti i grandi ne abbiano avuto a iosa. Buon per loro e poveri loro.
«Tu e i tuoi uomini, però, eravate privi di donne, o, comunque, ne avevate pochissime e, per fondare e far crescere una città, occorrono le donne per procreare.»
«Sì, è vero. Per questo motivo ho escogitato un piano, in barba alla sacralità dell'ospitalità.»
«La ragione di stato.» commento rassegnata.
«Proprio così. Le sabine erano un bocconcino appetitoso e con la scusa di giochi equestri ho invitato il loro re, Tito Tazio, a festeggiare la nascita di Roma. Lui è venuto, beato e contento e si è portato dietro gran parte della popolazione patrizia.»
«Non hanno sospettato nulla?»
«Assolutamente. Avevo dato ordine ai miei uomini di rapire le più giovani, quelle che sicuramente non erano sposate. Ciò nonostante c'è stato un errore, uno solo: Ersilia, la donna a me destinata.»
«Era già maritata?»
«Purtroppo sì. Ma l'ho voluta comunque. Era troppo bella per rimandarla indietro solo per quella sciocchezza. Alla fine il ratto si è risolto bene: i giovani romani si sono accasati e hanno generato molti figli.»
«Si è risolto bene?» ripeto incredula, inarcando le sopracciglia. «Ma se Tito Tazio ha scatenato una guerra per riavere le ragazze!»
Lo vedo fare un gesto vago con la mano, come se la cosa fosse senza importanza e commenta:
«Ha fatto un errore: le ha prese di santa ragione, così come tutti coloro che hanno avuto l'ardire di sfidare Roma nei secoli successivi.» commenta, orgoglioso oltre ogni limite.
«Si è arreso,» lo correggo risoluta, «solo perché le sabine rapite si sono messe in mezzo con i loro pargoli, per non dover vedere i propri mariti e i propri padri e fratelli scannarsi per loro.»
«Quisquilie. Avremmo vinto comunque noi.» taglia corto.
«Può essere.» concedo.
«È sicuro.» sottolinea con fermezza. «A dispetto di traditori alla stregua di Tarpea, abbiamo vinto comunque.»
«Già, Tarpea. Lei ha tradito perché amava il denaro e i sabini l'hanno ricompensata lapidandola con i loro gioielli e seppellendola sotto i loro scudi. Bello sfregio.»
Fa una smorfia di disgusto e scuote la testa, commentando secco:
«I traditori non meritano di meglio. Per questo motivo, da allora, chiunque tradisse Roma veniva gettato da una rupe nominata Tarpea, a perenne ricordo.»
«Brutta fine.»
«Fin troppo clementi verso chi tradisce. Oggi,» aggiunge alzando la mano per mostrare i Fori Imperiali, «nessuno più sente il proprio dovere verso la patria.»
«I valori morali hanno registrato un netto calo, ne convengo.»
«Ah!» esclama rassegnato. «Se solo ci fossi ancora io alla guida di questo popolo che non sente più l'orgoglio di essere romano, che gode di un'indisciplina vergognosa, che…»
Sorrido e provo a immaginare i romani di oggi sotto le grinfie di Romolo e giungo alla conclusione che, per noi, è meglio che lui sia vissuto secoli fa.
In quel momento il garbino si affievolisce, il sole torna a spuntare da dietro la nube ed io riapro gli occhi, fissando Romolo che svanisce lentamente, lo sguardo sconsolato su ciò che è rimasto della sua città. Poco più in là, in una nicchia, alcuni mazzi di fiori portati da mani gentili fanno ombra a una tomba, la sua tomba e lui, prima di sparire, sussurra con dolcezza:
«Fa piacere sapere che a qualcuno sono rimasto nel cuore.»
Gli sorrido e gli mando un bacio, ringraziandolo per tutto ciò che ha fatto per Roma.