Salvatore
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Non avevo cercato il terzo salvataggio di quel fine millennio, così come non avevo cercato gli altri due, ma, si sa, i salvataggi, come le ciliegie, tirano i salvataggi, cosicché
quando a mezzanotte spaccata di quella caldissima estate, il pressante scampanellio interruppe ciò che stava ancora a livello di ipotesi fra me e mia moglie, pensavo a tutto fuorché al mio nome ed alla mia fresca fama di“Salvatore”.
Lei, mia moglie, invece, si precipitò ad aprire e non seppi mai se aveva ceduto all’angosciante richiesta che dal campanello zampillava o, piuttosto, non prendendo a volo l’occasione per scappare dal letto e dalle mire del sottoscritto.
È molto raro che intelligenza e bellezza vadano d’accordo in una donna, ma Rita non era donna, nemmanco era uomo ed in questa ambiguità la misura della bellezza è evanescente, i parametri confusi e, dunque, Rita era intelligente, bella/o e ci piaceva. Comunque, quella notte, non era là per compiacerci: sua cugina, la proprietaria dell’appartamento a piano terra di cui ero affittuario ‐è morta‐! gridava ‐bisogna che tu la salvi immediatamente‐!
‐Rita‐ avrei dovuto ribattergli ‐ti rendi conto di pretendere un miracolo? Se è morta non c’è niente e nessuno che la possa riportare in vita‐.
‐No! Devi salire! Tu solo la puoi salvare, è ancora un poco viva. Quando l’ho lasciata per correre da te, stava ancora rantolando, calcola il tempo di scendere i tre piani, calcola il tempo di convincere una testa come la tua, poi bisogna risalire, l’ascensore è pronto (infatti l’ascensore aspettava e le sue porte spalancate mi mettevano fretta quasi più di Rita) e sperare che rantoli ancora‐.
Così, più o meno con le stesse parole, ripercorremmo l’accadimento il pomeriggio successivo. Comodamente stravaccati sul mio terrazzino, (lo so, è alquanto pretenzioso descrivere così il mio balcone a piano terra) all’ombra delle persiane che, più che proteggerci da un sole improbabile in quell’anfratto circondato da palazzoni, ci riparavano dagli sguardi malevoli dei miei affezionati vicini, mentre mia moglie sorvegliava benevolmente i miei amplessi artistici – filosofici – politici. Mia moglie non capiva molto dei nostri discorsi, avrei potuto, lì, sotto i suoi occhi, concupire Rita e qualsiasi altra ragazza usando parole ed argomenti al di fuori della sua comprensione e lei non se ne sarebbe accorta se non fosse stato per i miei occhi che non sanno mentire né, tantomeno, usare metafore volte all’uopo.
La cosa che più mi aveva divertito, fu che mai e poi mai la mia padrona di casa avrebbe scelto il suo riottoso inquilino per farsi fare la lunga e laboriosa respirazione bocca a bocca che la strappò alla morte. No, certo, a parità di risultati avrebbe sicuramente indicato il vicino con cui divideva il pianerottolo del quarto piano ‐il celebre dottor Gargiulo, non lo conosce? Il professore in cardiochirurgia dell’università‐ si era degnata di rispondere quella volta nel mentre tirava dalle
mie mani il mensile della mia bicocca. Mi aveva guardato sprezzante del mio ignorare la fortuna nel dividere il fabbricato e la stessa aria con tale luminare.
All’epoca la mia reputazione, dopo aver vacillato fra l’insulso perbenismo di quella gente e la vitalità che trovavo nel sottobosco malavitoso della mia città, era già bella e che
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sepolta ed i rapporti, all’inizio idilliaci, intercorsi con la mia bella proprietaria, si erano rapidamente deteriorati.
Il maglio più grosso, quello che aveva dato inizio al lavoro di demolizione, era stata l’irregolarità nel pagamento dell’affitto. Puntuali in principio ed accompagnati dai miei proverbiali sorrisi, avevo cominciato via via a posporre i pagamenti fino a cadere pienamente nella mia fama di debitore. Ed era stata una fama costruita a tutti i livelli, dai piccoli debiti dal fruttivendolo e alla salumeria a quelli medi del circoletto che vendeva sigarette di contrabbando (fumavo tanto), passando a quelli grossi dovuti allo sfortunato che mi aveva venduto l’auto sulla parola, per finire ai debiti impossibili e progressivi contratti allo sportello del mio strozzino personale dalla cui ira mi salvava solo il fatto che si era innamorato di me e delle mie poesie. Uno strozzino con animo poeta insomma, un’anacronismo che camminava e accumulava poiché lui faceva pagare a caro prezzo alle altre sue vittime la propria debolezza verso me.
No, lei, la proprietaria, non mi avrebbe scelto, figurarsi, non rispondeva più neanche ai miei buon giorno, né ai miei buona sera e quella luce di compiacimento che gli si accendeva negli occhi quando incrociava i miei, si era irrimediabilmente spenta. Quello era un mio piccolo ma sincero rammarico, lei mi piaceva ma era una persona veramente per bene, suo figlio era per bene, il suo defunto marito era stato per bene e della madre poi, non né parliamo ed io facevo di tutto, almeno con loro, per apparire il per meglio possibile. Ma, aimè, quando immancabilmente arrivava la scadenza del primo del mese, cominciavo a perdere punti. Già al due del mese, passando, loro, i per bene, sotto la mia / loro finestra, facendo in modo che io, o peggio, mia moglie li ascoltassimo, dissertavano ad alta voce sulla poca serietà di chi non è puntuale nel saldare i conti.
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‐ E’ stato uno shock anafilattico‐.
‐Ana…che‐? Interrogò sospettosa mia moglie.
‐Anafilattico‐ rispose Rita ‐se non fosse stato per lui ‐ continuò indicandomi ‐sarebbe morta‐.
Io, come un assetato nel deserto, sorbivo come un long e fresh drink le sue parole, il
mio amor proprio ne era rinfrancato e, una volta tanto, considerai con benevolenza i
vicini che, sicuramente, ascoltavano dalle loro postazioni.
‐Salvatore‐ insistè Rita ‐tu non ti rendi conto di quello che hai fatto a mia cugina…
e con la matta poi…..‐. –Già‐ rispondemmo all’unisono io e mia moglie
Era successo la settimana precedente, donna Letizia, alias la matta dell’ultimo piano, aspettava con dei congiunti l’ascensore quando l’infarto la colpì. Cadde coi piedi diretti all’ascensore e quindi, di traverso alla mia porta mentre si portava le mani alla gola ed il
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viso cominciava a tingersi del colore della morte. Io stavo dando l’ultimo colpo di spazzola ai miei capelli ed, in effetti, sentii il solito trambusto che precede codesti funesti eventi, ma non fu quello che mi spinse ad aprire, bensì il pressante appuntamento che avevo col tavolo da gioco. Quando aprii, ci potevo pure inciampare, cosicché, se volevo uscire o la salvavo o la scavalcavo.
Fosse stata sola, non so cosa avrei scelto, se baciare quelle labbra cianotiche in modo da soffiargli dentro quella vita che in me eccedeva, oppure fare finta di niente e correre a giocare, ma c’era un vasta platea ad assistere: la portinaia che non era più tale, anzi da tale era passata al grado di proprietaria e quindi sommava all’autorità dell’una le pretese dell’altra; la signora Tutino, con l’appartamento attaccato al mio con la quale, senza dirci neanche buon giorno, condividevo tutti i segreti più intimi; poi c’erano le nipotine della signora morente ai miei piedi: giovani, carine, romane; il padre delle suddette, impietrito dalla paura alla vista della sorella in fin di vita; la cognata, bella, romana, giunonica signora e poi arrivò Marianna con uno short mozzafiato ed il fidanzato di costei, radiologo di sinistra ed infine gli infermieri dell’autoambulanza, accorsi comodamente e con ritardo su tutta l’operazione. Io, come Zorro, alla vista della croce rossa, lasciai lì tutta quell’umanità ancora in stato di shock ed, elegantemente, corsi a farmi spennare al tavolo verde.
La mia cattiva fama era ascesa dal basso verso l’alto e lì, dall’alto dei terrazzi, dei balconi, delle finestre, rimpallata ai coetanei delle costruzioni circostanti, appesantitasi, planata a livello stradale e propagatasi a macchia d’olio. Quel neo fece più o meno lo stesso tragitto: salì attraverso la tromba delle scale come il classico palloncino scappato al bambino, sfiorò i vari condomini affacciati alle baluastre (la sirena dell’autoambulanza agisce come una calamita sugli spilli, nessuno resiste alla tentazione di vedere di sapere) fu infine acchiappato dalla madre della matta e poi, come palloncino sgonfio, da questa lasciato cadere. Quando tornai dal turno mattutino di gioco (più che un gioco è un vedersi e valutarsi le tasche) notai che non erano le solite occhiate di affezionato disprezzo quelle che la gente mi inviava: nella salumeria se ne parlava e se ne aveva accennato anche dal fruttivendolo poiché questi, dopo tanto tempo, mi rivolse il suo buon giorno più pregiato.
La voce era girata in tutto il quartiere, la mia auto, accolta sempre con disgusto, suscitò una diversa reazione, una pioggia di occhi benevolenti mi avvolse e mi sentii un puledro selvaggio in una pioggerellina primaverile, per poco non mi scappò un nitrito. Persino mia moglie mi riservò un’accoglienza da giorno festivo (cosa rara poiché, si sa, chi non lavora non dispone di festività) mi sorrise già dalla finestra, mi fece trovare la porta già aperta e la prima domanda non fu: ‐quanto hai perso‐? E così mi tolse la soddisfazione di risponderle: ‐ho vinto‐!
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L’ ammirazione delle mogli (e dei vicini ) dura poco: dopo solo tre giorni, non avendo io dato alcun segno di ravvedimento, quell’ atto memorabile era stato archiviato. D’ altronde se la salvata stessa, la matta, non si era resa conto di essere
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stata salvata e salvata da me (nei suoi discorsi sconclusionati non c’era nemmeno l’ ombra di ciò che gli era successo), non potevo pretendere dagli altri una gratitudine di lungo corso, ma da mia moglie avevo sperato più considerazione. Non che volessi buttare sulla bilancia quel secondo salvamento, ma era l’unica al corrente del primo salvataggio a cui era stata interessata testimone.
Quando avevo raccolto quel fagotto di gatto in fin di vita e l’ avevo avvicinato al tubo catodico del televisore da cui un santone indio‐americano inviava del fluido a chi dei telespettatori avesse voluto cogliere, l’ aveva pur visto che Kikko mi era schizzato dalle braccia ed aveva cominciato il suo balletto attorno al frigorifero da cui, lui sapeva, sarebbe uscito quel cibo non toccato da una settimana.
Mi aveva guardato mia moglie, mi aveva abbracciato e baciato mentre io non sapevo se essere fiero del mio operato o non, forse, geloso di quell’ amore rivolto al felino.
Il primo giorno mi perdonò la perdita a “Zecchinetta” di più della metà della mia magra rendita, il secondo giorno passò sopra alla telefonata dal commissariato che chiedeva a lei informazioni su di me, ma, quando mi sorprese nel sottoscala a fare lo scemo con la bionda del secondo piano, dimenticò all’ istante che io avevo concorso a ridare la vita al suo gatto.
Poteva passare su tutto e passava su tutto, ma quello della bionda era un tasto
esplosivo, a nulla valsero le mie balbettanti giustificazioni a
proposito di respirazioni bocca a bocca, d’ altronde la signora in questione godeva
e faceva godere di fiorente e vistosa salute, a nulla valse il mio tentativo di
arruffianamento parlandogli di Kikko, le sue strilla si levarono alte già nell’ androne
( era proprio arrabbiata, abitualmente quando le controversie iniziavano fuori, aveva
almeno il buon gusto di entrare in casa chiudere una inutile porta e dare sfogo
al suo variopinto repertorio di ingiurie).
Quando le sue tonsille perforarono il soffitto, quando il suo piantoattraversò la membrana in comune con la signora Tutino, quando dalla finestra esplose in strada il suo urlo di gelosia, si ristabilì immediatamente la mia aureola di pecora nera.
Quell’ Oscar all’ incontrario mi spettava di diritto, si, c’ era nel quartiere qualche
anima generosa che aspirava a farmi compagnia, qualche scavezzacollo in pectore che si affannava a scalare le vette della perdizione, ma l’unico che si potesse avvicinare ai miei picchi, il figlio ventenne della signora Cece, non era sposato e questa aggravante è indispensabile se si vuole indossare l’ ambita maglia nera. Ero, forse, un po’ geloso della “ Detenuta”, rapinatrice di banche
ed omonime istituzioni, costretta agli arresti domiciliari e sottoposta alle frequenti visite‐verifiche della forza pubblica, ma mi consolavo pensando che
per lei, in fondo, il suo era solo un onesto lavoro, essendo una donna sola, per sfamare i quattro figli avuti da quattro uomini diversi e, secondo me, era da considerarsi una ottima madre di “famiglia”.
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La vita in casa mia, nel mio condominio, nel mio quartiere tornò al solito tran‐
tran: i continui litigi con mia moglie (in verità erano litigi a senso unico, io non
avevo nulla da eccepire sul suo conto, sul suo amore) che imputava al sottoscritto
la colpa di non essersi, lei, accorta in tempo utile di che pasta ero fatto; le sollecitazioni al pagamento che la proprietaria mi inviava tramite la portiera che non era più tale;
lo show del signor Di Donna che tutte le sante mattine si piazzava sul marciapiede opposto alla mia finestra, puntava la mano armata di telecomando diritto nella mia camera da letto e metteva in moto la sua auto indugiando con il gas di scarico sulle mie imposte; il fruttivendolo, già sveglio ed al lavoro da prima dell’ alba che cullava
i miei sogni con i suoi litigi con la moglie a proposito del
prezzo da imporre alla sua merce; mister Casatiello, piccolo boss della burocrazia,
topo di capitaneria di porto, spacciatore di patenti marine e terrestri, mio
nemico giurato al pari del suo lurido ma simpatico cane che aveva assunto
a sua toilette personale il tratto immediatamente sotto la mia finestra.
Mettere uno come me a vivere in quel posto è quasi come pretendere che il rabbino
di Gerusalemme si metta a servizio da Adolf Hitler e pretendere, per di più, che il
furher gli scriva buone referenze. Non si può andare alle tre di notte al mercato
del pesce in pieno fermento e dissertare sull’ andamento del prezzo dei fiori. Tanto
per cominciare, io disponevo della rendita di una misera pensione avuta più per
meriti patologici che per maturati diritti di lavoro, mentre tutti i capo famiglia della zona disponevano di lavoro con la elle maiuscola. Piccoli professionisti, piccoli impiegati, piccoli artigiani free‐lance e qualche eroico operaio il cui passo pesante sentivo all’ alba passare e genuflettersi alla mia finestra.
I più accaniti nel lavoro erano quelli che avrebbero potuto benissimo vivere di rendita,
i più ostinati nel guadagnarsi la pensione, i più puntuali al mattino i più regolari la sera.
Le loro vite scandite dagli impegni scorrevano placidamente, le volte che il corso del
loro fiume trovava sbocco nel mio, la dove avrebbe dovuto, perlomeno, contaminare
di perbenismo le mie acque, suscitavano invece un curioso fenomeno di rigetto, come
i gaiger ne erano rispruzzati fuori e ciò alimentava la cattiva fama che stavo lentamente accumulando.
Certo, ci fu quell’ impennata quando fui arrestato per la prima volta, anche se, devo onestamente affermare, mai vi fu nella storia del crimine un arresto così elegante.
La scena: sotto la mia finestra; interpreti: tre gentilissimi poliziotti, più la star che sarei
io, l’ora le tre di un pomeriggio di fine luglio; movente: boh! Spettatori: nessuno.
Ero seduto in auto con la mano pronta girare la chiave della messa in moto ( quando
in moto andava) vidi l’auto della polizia avvicinarsi, la guardai dallo specchietto retrovisore finche non uscì da quell’ottica, mi oltrepassò lentamente mentre i tre mi squadravano, fino a lentamente fermarsi per traverso davanti alla mia auto ad impedirmi una fuga che non avrei tentato e che la mia auto non mi avrebbe permesso. Scesero tutti
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e tre con le pistole nelle mani abbandonate svogliatamente lungo i fianchi, lentamente
si avvicinarono e gentilmente mi chiesero se preferivo essere perquisito sul posto
o, piuttosto favorire con loro in commissariato. Non ero stato mai arrestato prima ed,
un po’ la curiosità, un po’ per non sputtanarmi proprio lì sotto la finestra con il terrore
di vedermi affacciare una moglie urlatrice, optai per il commissariato.
Quell arresto breve, brevissimo, non era passato inosservato ( gli spettatori c’erano,
c’erano: mimetizzati fra le imposte, fra le piante, fra le persiane e sottratti alla vista
da un sole implacabile come su di un palcoscenico con i riflettori che ti annebbiano e
non puoi difenderti dalla platea).
‐Sasà, ho saputo che ti hanno fermato gli sbirri‐.
Ecco, solo Zi Peppe poteva ridurre così quell’ evento che aveva messo a subbuglio
le malelingue del mio quartiere, solo lui poteva portare nelle sue reali dimensioni
quel contrattempo, ma Zi Peppe era mio amico avversario al tavolo da gioco. Lui si
che se ne intendeva di galere e poliziotti, a lui si che si riempiva la platea quando lo
andavano a prelevare a casa sua. Strilla, botte, agitazione, con le guardie costrette
alle volte a sparare per aria se volevano portarsi via quel campione. Sembravano feste
rionali,con i bambini che corrono, la musica, i fuochi e l’odore
delle ZEPPOLE&PANZAROTTI nell’aria e vere e proprie feste diventavano quando
Zi Peppe faceva ritorno. Feste in cui venivano ingaggiati i più noti cantanti e dove
il liberato dava libero sfogo alla sua voglia di cantare e vivere (possibilmente fuori di galera).
‐AAAAH! Che vuoi farci, è stato quel novellino, quel poliziotto li……come si chiama ‐?
‐La Volpe, si chiama la Volpe, è un fessacchiotto – rispose Zi Peppe che conosceva vita morte e miracoli (pochi ) di tutte le guardie.
‐Già, io potevo essere arrestato solo da un fesso‐.
‐Non te la prendere e ora dammi le centomila che ti ho vinto‐!
Ecco, li, al tavolo da gioco, in quel locale malfamato, con le mie poche lire a combattere contro quelle di contrabbandieri, ladri, papponi, spacciatori et similia, ero quasi felice. Allegramente mi giocavo la pensione dei mesi a venire, allegramente mi indebitavo, allegramente perdevo e rimanevo di buon umore finche ero seduto su quella sedia, a quel tavolo, con le carte in mano.
Ma c’ erano i ritorni a casa e quello dal commissariato fu uno dei più brutti ritorni della storia. Mia moglie era stata presa da svenimento, mia suocera, accorsa prontamente, aspettava alla finestra e cominciò a strillare non appena mi vide, mia cognata che mai e
poi mai avrebbe fatto mancare la sua ugola, mi apri la porta ed io fui costretto a passare sotto il giogo di due ali di parenti urlanti e maledicenti.
Nel condominio girò una petizione, niente di drastico, vi si affermavano alcuni principi generici atti a mantenere la zona su di un certo tono. Passo di casa in casa, da balcone a balcone, da ascensore ad ascensore, poi sconfinò e passò da negozio a negozio ed ognuno leggeva e deponeva la firma con gioia, sicchè quando la non portiera la sottopose alla mia attenzione, era diventata così com’ era affogata dalle firme, praticamente illeggibile,
quindi convenni, firmai e la sistemai in bacheca.
Quella sera, al bar, per consacrare l’ evento, offrii da bere a Stefano ( una vita fatta di
arresti e condanne, ritorni a casa e brusche partenze) e a Raimondo, appena uscito di
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galera dopo quattro anni di immeritata (secondo lui) reclusione. Mi sentii autorizzato
a piazzare, in quei discorsi comprensivi di secondini‐carogne, giudici‐disonesti, avvocati‐
ladri e cose analoghe, il resoconto della mezzora passata al commissariato.
Non ebbi il coraggio di confessare a quella associazione a delinquere di essere
stato trattato molto gentilmente, quasi come se fossi andato a chiedere il rinnovo
di un passaporto che non avevo, nessuno degli sbirri presenti mi aveva toccato, di
manette neanche l’ombra, mi avevano offerto perfino il caffè e, dunque, affogai il
resoconto in tre o quattro bicchierini spacciando il tutto degno di ben figurare al confronto con le loro esperienze.
Si vedeva che non erano abituati alla libertà: allontanandosi, così come vecchi marinai non più avvezzi alla terraferma caracollano per bilanciare il rollio della strada, Stefano
e Raimondo si immisero in una metaforica fila di galeotti reduci dall’ ora d’ aria.
Mi colse un senso di tenerezza e rivolsi una preghiera al dio dei secondini affinche
assegnasse loro una casa confortevole come le loro celle.
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In seguito sono successi vari accadimenti nel mio quartiere: mi rubarono l’auto, a
me, proprio a me, la ritrovai ( in verità se l’ era presa il mio strozzino che me la fece ritrovare solo dopo che gli ebbi consegnato il libretto della mia pensione); KIkkO il
gatto, mi fu debitore per pochi mesi poiché morì investito da una delle innumerevoli macchine di Mister Casatiello proprio il giorno prima che lui fosse arrestato per
spaccio di patenti e messo agli arresti domiciliari, dopo di che vendette
l’ appartamento per comprarsene uno con vista sul mare e sulla capitaneria. La mia
bella proprietaria con ancora il sapore delle mie labbra sulle sue, mi aumento il pigione e conobbe un bravo proprietario di negozi e diedero inizio ad una dinastia immobiliare;
la matta, per fortuna, non mi mostrò gratitudine, i matti sono matti si sa, loro sono
esenti da gratitudine e riconoscenza ergo non cambio minimamente né la sua né la
mia vita anche se l’ ho sorpresa più di una volta con gli occhi fissi su di me
( speriamo bene ). In quanto a mia moglie, beh, lei è un po’ gatta e un po’ matta ed
è tuttora impegnata nella missione di redimermi, laddove non dovesse riuscirci, non
si scoraggi, tenti ancora, tenti….
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