Salvifica amnesia
Si narra d’un uomo dall’animo oscuro, le cui gesta gettarono le fondamenta d’una grande sciagura. Non si ha memoria di come si chiamasse costui, per giusto senno i posteri reputarono saggio non aver memoria di quella persona. È proprio questa la chiave di questa storia.
Fuggiva in esilio tra le valli e i fitti boschi aghiformi con una bisaccia piena di selvaggina legata alla spalla ed una condanna sulla testa. Si diceva avesse ucciso un alto cardinale dell’ordine e che il sommo inquisitore ne avesse richiesto la testa come giusta punizione. A lungo cavalieri e pellegrini cercarono ed indagarono le tracce ormai dissolte dell’empio fuggitivo, ma dovettero passare mesi prima che qualcuno potesse gloriarsi del suo ritrovamento.
Se da un canto la sua stanca cattura diede fama e ricompense a chi per primo l’aveva scovato, lo stesso senso di soddisfazione non potè assaporare l’alto inquisitore una volta che glie lo portarono di fronte. Com’è prevedibile che fosse, lo avevano ritrovato trasandato, puzzolente e scarno come un cane randagio, se ne stava ansimante dentro ad un fosso profondo una decina di piedi, di quelli che i cacciatori scavano per le prede, con la testa e tutto il corpo grondante di sangue.
Come dicevo, i piani dell’inquisitore dovettero subire una brusca rettifica quando il saggio scoprì che l’omicida non serbava ricordo delle sue malefatte. Lo confermarono, in seguito, diversi luminari di corte, indicando la ferita alla testa come probabile causa dell’accaduto.
L’ordine unanime richiese che si procedesse all’esecuzione, ma l’alto inquisitore, uomo di principio e grande morale, sostenne che il colpevole sarebbe stato condannato solo dopo aver riacquistato il peso delle sue colpe sulla sua coscienza. Così decisero e disposero che il prigioniero visitasse i luoghi della sua vita e leggesse molto affinché potesse ritrovare il filo conduttore della sua memoria. Intervenne, tuttavia, una forza opposta che spesso s’adoperò per allontanare il galeotto dalla luce del ricordo. Si chiamava Berto e da sempre era stato compagno fedele, allievo ed amico dell’assassino. Questi pensò di sabotare ogni luogo, ogni immagine, ogni colore che avrebbe riacceso quella fiamma. Così decise di ridipingere le mura della casa dove il criminale aveva vissuto e pose piante estranee dappertutto, sostituì i quadri e su tutti i diari annotò storie d’altre persone. L’assassino, nel frattempo, veniva scortato attraverso tutti questi scenari ma, con grande disappunto dei suoi carcerieri, non riusciva a riaversi dall’amnesia. Tentarono e ritentarono, e sempre l’amico interveniva e distruggeva il passato. Passarono dodici mesi.
Stanco dell’esito fallimentare di quella sua scelta, l’alto inquisitore convocò quello che ormai era un uomo nuovo in udienza, e radunò medici e scienziati perché si facesse luce sulla faccenda. A turno tutti quanti lo osservarono e ipotizzarono fino a che non s’arrivò ad una conclusione: troppo tempo era passato, come l’argilla s’asciuga e diventa dura come la pietra, così nuove memorie s’erano sedimentate sui vecchi ricordi del carnefice, sostituendoli irrimediabilmente. L’inquisitore e tutto il consiglio decisero amaramente di rinunciare all’esecuzione poiché non v’era traccia, in quel piccolo uomo senza passato, del pazzo che s’era macchiato di tante colpe.
La rinuncia lasciò tutti con un profondo senso di incompletezza, la giustizia divina non era stata amministrata e ciò non poteva essere tollerato. Per far sì che si potesse porre fine alla questione, l’inquisitore sparse la voce tra investigatori e mercenari, che si trovasse un complice o chiunque altri avesse le mani macchiate dello stesso reato. Il denaro, come sempre, fu la soluzione migliore e dalla sua promessa scaturì il tradimento. Riconobbero Berto come unico ereditiere di quella tragedia, lui aveva impedito al criminale di riabbracciare il suo male, lui aveva lottato contro la giustizia divina, ma ciò che aveva fatto non poteva essere considerato abbastanza grave da porlo sul cappio. Il male può passare da persona a persona, come la vile peste abbandona il cadavere del malcapitato per abitare un nuovo individuo. Così la colpa dell’omicida e i suoi peccati, la corruzione estrema, erano divenuti eredità del nuovo criminale. Egli, venne deciso, incarnava il male che aveva condotto il compagno alla pazzia e solo la grazia dei cieli e il pentimento l’avevano salvato, ma il demonio subdolo, non sazio d’aver mietuto una vita, continuava a corrompere. Quel ciclo vizioso doveva essere fermato.
Il patibolo venne allestito in tutta fretta nella grande piazza cittadina e sul cappio decisore posto il collo di chi ospitava il maligno. Berto stava ritto dinnanzi alla folla, con i piedi su di una cassa che lo separava dal salto fatale. Dalla folla bramante morte qualcuno scagliò un sasso grande come un pugno che, colpendo Berto sulla testa, gli fece perdere i sensi. Orribilmente l’idea d’una nuova amnesia balenò nella mente del giudice inquisitore che lesto s’affrettò a fare cenno che si proseguisse. Il boia non esitò oltre e con un calcio spazzò via la cassa da sotto i piedi del condannato, affidandolo al freddo abbraccio della fune. Il trionfo della giustizia esplose in un’ovazione generale, ma tra la folla un uomo restava di ghiaccio, all’oscuro dei motivi di tanti mali. Inconsapevole degli scherzi del fato, dei sacrifici della gente, del bene, del male, della comprensione ed il perdono, fissava le orbite ormai vacue di quell’antico amico. Senza rendersene conto raccoglieva la sua vita come il dono disinteressato di un padre al figlio.