Scena n. 20. Il riscatto.
Il faro impietoso illumina il palco dall’alto, rendendo visibile un leggero velo di polvere che sembra aleggiare, come sospeso, nell’aria calda e densa di tutto il proscenio. In platea c’è silenzio, tutti attendono l’ingresso del primo attore, lui, dietro le quinte, ha ripassato fino ad adesso tutte le parti del pezzo che dovrà recitare, è sicuro di riuscire a ricordarsi ogni battuta, ogni espressione da assumere, tutte le sfumature di voce di quella commedia così complicata e sentita.
Entra, senza neanche attendere il gesto concordato che in genere gli rivolge il regista, sente la luce sul corpo, sul viso, osserva per un attimo il buio della sala, poi si schiarisce la voce, come se dovesse affrontare un discorso politico, a braccio, quasi che la sua parte fosse la definizione del suo pensiero, come una scelta di vita. Il primo brano gira su un cruccio che lui sente vivo, ma ancor prima di aprire la bocca cerca di assumere l’espressione più seria che conosce, quasi uno sguardo sofferente, persino doloroso.
Ecco, dice guardandosi una mano in quella luce potente; sono io che sono riuscito a compiere questo misfatto, io che ho lasciato che tutto avvenisse quasi senza occuparmene, come se fosse deciso una volta per tutte che dovesse andare così, senza nessuna differente possibilità. Avevo distolto lo sguardo, forse, avevo lasciato che le cose si proiettassero in avanti per proprio conto, ed adesso non riesco più neppure ad intendere come arrestare quanto è dipeso da questa mia sciagurata indifferenza iniziale.
Silenzio; nessuno, in platea, sui palchi, e in tutto il teatro, si permette il minimo movimento. La pausa dopo queste parole si fa carica di aspettativa, l’attore si muove leggermente sopra al palcoscenico come in preda ad un forte malessere, stritolato dal dolore di una condanna calata su tutti. Lascia una pausa, attende che le parole tornino a fluire alla sua bocca come un pensiero dettato dalla coscienza, dal bisogno di rendere chiaro il più possibile tutto il rovello che lo ha portato là sopra. E’ tardi, dice; qualsiasi ripensamento è impossibile, il danno che ho procurato a tutti è superiore a qualsiasi progetto negativo si fosse intrapreso.
Poi volge lo sguardo in un punto definito dietro le quinte, osserva l’ingresso di una donna, una persona che entra apparentemente contrita in un dolore addirittura più forte di lei, raggiunge lentamente la zona di palco più illuminata, si ferma, ha soltanto il coraggio di alzare per un attimo lo sguardo da quelle assi di legno, e subito si richiude nel suo dolore. Tu sei la più colpita e denigrata, dice l’attore senza togliere lo sguardo da sopra il suo volto. Ci vorrà tanto tempo per riuscire a ridarti la dignità che adesso pare definitivamente perduta. Non so neppure da che parte iniziare ad aiutarti, non so come io possa evidenziare a tutti ciò che realmente è avvenuto.
La donna allora lo guarda, sente come un moto di orgoglio dentro di sé, volge lo sguardo sulla platea, sa che tutti stanno aspettando la prima parola che lei porgerà, la prima espressione con la quale può chiarire il suo punto di vista. Ti sbagli, dice lei alla fine; sta a me, come donna, riuscire a riprendere la dignità che mi è stata tolta. Mi impegnerò, d’ora in avanti, cercherò di farlo con tutte le forze che ho, renderò assurdo e disumano questo comportamento di alcune persone che forse mi ha denigrato agli occhi di tutti. Tocca a me, e a nessun altro, rendere chiaro che sono persona, prima ancora che donna.
Bruno Magnolfi