Senza la mia solitudine...
In una delle poesie più brevi di Emily Dickinson, la grande poetessa americana, nata ad Amherst, Massachussets, il 10 dicembre 1830, e morta, sempre ad Amherst, il 15 maggio 1886 si legge "Forse sarei ancora più sola, senza la mia solitudine". Nel leggere questi pochi versi la prima cosa che ci avvolge è la sensazione di un prato mosso dal vento, saranno le tante S, allitterazioni morbide e rotonde che evocano il leggero fruscio del vento, saranno le parole sola – solitudine che fanno pensare al sole, ad una giornata luminosa, tersa, azzurra… e quindi un prato, con l’erba mossa dal vento, accarezzata come una persona cara. E già qui è sentirsi parte di un tutt’uno, di un’immensità. Non c’è tristezza in quei versi, né malinconia, semmai la gioia di amarsi, di vivere con sé come se fosse uno specchio in cui l’altro si può tuffare.
Sarà che io fin da bambina ho provato, senza saperlo, quella stessa solitudine, quando abbandonavo i giochi rumorosi dei cugini in piazza o in cortile e me ne andavo nei boschi a camminare lungo i sentieri, solo io e la mia ombra, l’altra me, la mia gemella dentro di me. Avevo otto o nove anni, ma chissà cosa meditavo, cosa pensavo quando mi staccavo dagli altri, dal gruppo, per starmene un po’ da sola, quando mi intrufolavo nel sottobosco parlando da sola, sussurrandomi storie e canzoncine inventate, quando parlavo ad immaginari personaggi e creavo storie e avventure. Stavo via delle ore, fino al crepuscolo, salendo la montagna lungo la ripa del torrente, seguendo i sentieri dei cacciatori e dei boscaioli, in alto, in alto, fino alle cascate. Cantavo e gridavo, ripetevo l’eco, saltellavo e piroettavo, poi mi sdraiavo sul prato di una radura.
Ero sola, ma non in solitudine. Ero una bambina, ero felice. La brezza sussurrava il mio nome, tanti nomi, quelli che conoscevo e quelli che sognavo, le foglie e i rami disegnavano volti che mi sorridevano, che vegliavano su di me, volti che conoscevo e volti che sognavo. I fiori assomigliavano a piccoli cuori di vita, un battito dopo l’altro, disposti così sparsi, lontani eppur vicini, come una famiglia, come tanti piccoli cuori umani, insieme, anche se ognuno solo con i suoi petali e i suoi colori. In quella solitudine io mi sentivo accolta, afferrata, completata e rinata.
Oggi invece il mondo è solo, soffre la solitudine. Ne è piegato, schiacciato, spezzato. Ne ha paura. Io ho avuto quel grande, unico e stupendo privilegio: crescere cullata dalla solitudine, coccolata dal silenzio, amata da quelle lunghe ore tutte mie, da riempire con me stessa, con il mio io, con la mia compagnia.
Ringrazio mio padre e mia madre, che non mi hanno mai impedito di vivere quella mia solitudine. Semplicemente mi attendevano, sapevano che ne avevo bisogno, che era essere me stessa quel mio strano fuggire via.
Non sono mai venuti a cercarmi, nemmeno quando pioveva, o quando mi attardavo tra le rocce. Nemmeno quando le ombre della sera scendevano dalla montagna, nemmeno quando c’era la neve, o faceva freddo. Si fidavano e basta.
Oggi c’è la paura che attanaglia i pensieri di un genitore, l’ansia di riempire il silenzio ad ogni costo, l’angoscia di allontanare la solitudine dai propri figli, vista come qualcosa di maligno, scuro, cattivo. E allora tutti a chattare, a digitare sullo smartphone, a partecipare a piazze virtuali. Tutti a fare rumore, ognuno chino sulla sua finestra, ognuno isolato da chi è vicino. Ognuno con gli occhi bassi, per non incrociare quelli del vicino, sconosciuto.
Eppure solo stando con noi stessi, nel nostro cantuccio caldo e calmo, nel nostro prato accarezzato da una leggera brezza riusciamo ad assaporare e a gustare la vita. Con il silenzio come compagnia, dobbiamo ritrovare nell’intimo dell’anima l’arte di rallegrare l’anima. Solo così riscopriremo il valore di una parola amica, di un sorriso, di una mano che ci sostiene, che ci toglie dalle spalle i pesi della giornata quotidiana, che ci accompagna, che ci scalda. E impareremo di nuovo a volare, come una libellula che tende le ali azzurre verso il cielo. In alto a sfiorare i petali di un fiore, facendolo dondolare lievemente, come un accordo di musica che solo noi, nel nostro intimo, riusciamo ad ascoltare. E sarà “una continua festa”.