Soffocando Seconda Parte

Le prime volte aveva ascoltato quelle conversazioni divertito, come si trattasse di folklore locale poi, da quando aveva iniziato a frequentare Erika, lo aveva fatto perché, seppur indirettamente, lo riguardavano, anche se sperava che il tutto rimanesse indiretto.
A ripensarci la cosa che lo aveva colpito di più era chi raccontava quelle storie. Fosse stato lo stesso Tony a raccontarle, avrebbe potuto liquidarle come sbruffonate, cose dette per farsi grosso davanti a quella platea di poveracci; ma il fatto era che quelle cose non le raccontava lui, le raccontavano i suoi amici, e mai in sua presenza, con un tono non tanto di ammirazione, quanto di malcelato timore. Quello che emergeva era che quando Tony perdeva la testa, cosa alquanto semplice da far accadere, non rispondeva più delle proprie azioni.
Merda. Non voleva diventare protagonista di uno dei racconti del bar della piazzetta.
Se era vera anche solo la metà di quello che era successo ad uno che aveva tamponato in macchina Tony, cosa sarebbe successo a quello che se la faceva con sua moglie?
No, la cosa migliore era aspettare. Prima o poi Tony sarebbe uscito di casa, che diamine. A quel punto sarebbe sgattaiolato fuori, esattamente come avrebbe dovuto fare quella mattina.
Decise quindi di risalire, di riavvicinarsi a quei tre lati di quadrato di luce che indicavano la sua unica via di fuga.
Poggiò i palmi  sul condotto, il più vicino al corpo, e provò a spingere.
Non successe nulla, il suo corpo non si mosse.
Era incastrato.

Erika passò il resto del pomeriggio in camera, alternando pianti sommessi a disperazione quasi incontrollabile. Un paio di volte, sopraffatta dal terrore ed incapace di reggere l’angoscia, fu addirittura sul punto di andare di là e confessare tutto a Tony, sperando nella sua clemenza per la sua spontanea rivelazione. Solo all’ultimo istante, pensando alle conseguenze, si era fermata. Aveva anche provato a concepire una storia plausibile per giustificare la presenza di Ben nel condotto, ma nulla le era venuto in mente. Tony non era uno stupido, o almeno non così tanto, e del resto non c’era altra spiegazione accettabile che la realtà a quella situazione grottesca.
Nei loro cinque anni di matrimonio Erika aveva imparato a temere Tony, come aveva temuto suo padre. Ed il timore si era trasformato in sacro terrore, esattamente come per suo padre, prima che un cancro se lo portasse via.

Un’onda di panico gli serrò la gola, solo all’ultimo istante represse l’istinto di gridare. Le mani scivolavano lungo il condotto, incapaci di fare presa a sufficienza da farlo avanzare lungo il tubo di metallo. Il suo bacino era stretto dalla circonferenza del tubo come in una morsa da cui non era in grado di liberarsi. I suoi piedi invece fluttuavano nel condotto principale, troppo lontani da una superficie su cui puntarsi per spingere in avanti.
Tese le mani in avanti, verso quel perimetro di luce che rappresentava la sua unica via di salvezza. Tese le braccia il più possibile, stendendo tutti i muscoli, ma riuscì solo ad arrivare a pochi centimetri dal coperchio del condotto. Non abbastanza per spingerlo o per fare presa sul bordo dell’apertura. Provò di nuovo, si tese ancor di più; ogni fibra del suo corpo spingeva verso quello sportello, i muscoli erano tesi come cavi sul punto di spezzarsi: gli sembrava di sentire ogni singolo filamento vicino alla rottura, le spalle gli facevano male, ma non servì a nulla: i suoi polpastrelli sfiorarono il metallo del coperchio, gli sembrò quasi di sentire il freddo della superficie, ma non era abbastanza per uscire da lì.
Da solo non era in grado di uscire da lì.
Iniziò a respirare profondamente, tentando di controllare i battiti del cuore, tentando di controllare i suoi pensieri che gli evocavano orribili idee di claustrofobia e soffocamento.
Cercò di riflettere. Appurato che da solo non era in grado di risalire, era da vedere chi avrebbe potuto tirarlo fuori.
Se avesse gridato ora, Tony avrebbe sentito. Se non era in grado di affrontarlo in condizioni normali figuriamoci in quel momento. Non era nemmeno sicuro che Tony lo avrebbe tirato fuori. Se era vero la metà di quello che aveva sentito al bar, sarebbe stato capacissimo di lasciarlo lì mentre escogitava cosa fare di lui; e prima di farla pagare a lui, di sicuro l’avrebbe fatta pagare ad Erika. Fu soprattutto quel pensiero a fermarlo: se avesse gridato, se avesse chiesto aiuto, sarebbe stato costretto ad assistere impotente al massacro di Erika.
No, doveva aspettare. Prima o poi Tony sarebbe uscito di casa. O si sarebbe addormentato davanti alla tv. Allora Erika sarebbe venuta lì, avrebbe aperto lo sportello, lo avrebbe afferrato e lo avrebbe tirato fuori. Poi se ne sarebbe andato finalmente a casa.
Dio, ci sarebbe voluto l’acido muriatico per levarli di dosso quell’odore.
Era solo questione di tempo. Di aspettare e di avere pazienza. In fondo quel condotto non era tanto peggio di grotte in cui era stato, dove anzi c’era molta più umidità ed animali strani che si muovevano nel buio. Dalle fessure dello sportello e da sotto di lui passava senza dubbio abbastanza aria, non era in immediato pericolo di vita. Questo pensiero lo rasserenò e si dispose ad attendere nella sua tana di metallo.

Erika uscì dalla camera solo verso sera, appena prima dell’ora di cena, in modo che Tony non avesse di che lamentarsi. Da tempo aveva imparato a prevenire i suoi desideri che, in fondo, erano piuttosto semplici.
Per le otto e mezza la cena era pronta e Tony trovò il tempo di staccarsi dalla tv e sedersi alla tavola già apparecchiata, a pochi metri dallo sportello dello scivolo dell’immondizia.
Erika non riusciva quasi a guardarlo in faccia. Durante tutto il pomeriggio aveva fatto in modo di non vederlo – cosa quanto mai facile visto che non si era alzato dalla poltrona se non per andare in bagno – ma ora che ce lo aveva di fronte era terrorizzata, quasi che lui potesse leggerle in faccia quello che aveva fatto. Mentre Tony si abbuffava, lei riuscì solo a piluccare un po’ di pane, desiderosa solo che lui se ne tornasse davanti alla sua tv e poi andasse a dormire.

Non sapeva quanto tempo fosse passato. Si era accorto che del tempo era trascorso solo perché adesso filtrava molta meno luce dall’apertura. Era sera. Ed anche ora di cena, a giudicare dal vuoto allo stomaco che provava. Sentiva rumore di posate e piatti, evidentemente stavano mangiando. Il famigerato Tony era a pochi metri da lui.
Non sentì una parola durante tutta la cena, solo rumore di stoviglie.
E attese ancora, sperando che Tony si saziasse in fretta e se ne andasse a dormire, così che Erika potesse tirarlo fuori da lì.

Tony se ne tornò davanti al suo televisore appena finì di mangiare, lasciando alla moglie l’incombenza di sparecchiare.
Mentre si occupava della cucina, Erika continuava a lanciare occhiate allo sportello accanto al frigo. Doveva assolutamente tirarlo fuori da lì. Era già un miracolo che non avesse deciso di uscirsene per i fatti suoi, facendosi scoprire da  Tony; o che non si fosse messo ad urlare. Appena Tony si fosse addormentato lo avrebbe fatto uscire, e quell’incubo sarebbe finito. Non voleva più vederlo, non voleva più avere a che fare con Ben, che l’aveva messa in quella situazione. Mentre scuoteva la tovaglia lo maledisse silenziosamente, cercando di trattenere le lacrime: maledetto Ben, è tutta colpa tua. Non avrebbe mai dovuto cedere alle sue lusinghe, alle sue storie sul ti meriti di più, non può trattarti così; vi aveva creduto, ed ecco il risultato. Ora non voleva più vederlo. Era quasi tentata di lasciarlo lì, se non fosse che era pericoloso, così avrebbe imparato a coinvolgerla in certe cose.
Sì, lo avrebbe fatto uscire, lo avrebbe accompagnato alla porta e non l’avrebbe più rivisto. Era finita, non voleva più avere a che fare con lui. Se solo avesse deciso tutto questo il giorno prima.
Un altro attacco di pianto, soffocato appena in tempo. Le venne voglia di aprire lo sportello per dire  a Ben di starsene buono, che lo avrebbe tirato fuori, e che era tutta colpa sua e che non voleva più vederlo; se non fosse stato pericoloso glielo avrebbe gridato in faccia: è tutta colpa tua. Lanciò uno sguardo alla nuca di Tony, che spuntava dalla poltrona davanti alla tv. Era immobile, forse si era già addormentato. Fece un passo verso lo sportello. Guardò di nuovo la nuca di Tony.
Posò la mano sulla maniglia. Era fredda, gelida quasi. Tony era sempre immobile.
Senza staccare gli occhi dalla poltrona del marito iniziò a tirare lentamente lo sportello, piano piano, millimetro per millimetro.

Ben si ridestò dal suo torpore. In quel condotto iniziava a fare dannatamente caldo. In più non beveva da quella mattina – aveva saltato il pranzo per andare da Erika direttamente da scuola – e solo in quel momento realizzava che la sua gola e la sua bocca erano riarse.
Gli sembrò di vedere la lama di luce intorno allo sportello allargarsi, come se qualcuno lo stesse aprendo. Ma era una cosa così lenta che non ne era sicuro. Strinse gli occhi cercando di vedere meglio.

Erika riuscì a distogliere gli occhi da Tony ed a guardare per un istante lo sportello. Lo aveva aperto di appena un dito, eppure le sembrava di essere lì da ore. Senza osare aprirlo di più – le sembrava cigolasse – cercò di guardare dentro. Era troppo buio. Vide solo nero. Come Ben, strinse anche lei gli occhi cercando di vedere meglio.
Niente.
Improvvisamente sentì lo scricchiolio della poltrona del salotto che gemeva sotto il peso di Tony. Le sembrò il cuore esplodesse. D’istinto chiuse di scatto lo sportello con quello che le sembrò un fragore incredibile e, a testa bassa e senza osare guardare verso il salotto, si girò verso il lavandino, fingendo di sistemare qualcosa.
Sentì i passi di Tony avvicinarsi. In un attimo era accanto a lei. Erika lo guardò sottecchi, continuando a fingere di sciacquare un cucchiaio nel lavandino.
Tony la ignorò e puntò deciso verso lo sportello dello scivolo dell’immondizia. Erika si sentì mancare. Evidentemente l’aveva sentita o vista armeggiare con quel coso, ed adesso stava andando a controllare. Era finita. Poteva solo gettarsi in ginocchio e chiedergli di perdonarla. Si aggrappò al bordo del lavandino perché le gambe molli non la reggevano più.
Tony fece un altro passo verso lo sportello, poi aprì il frigorifero lì accanto.
Erika si sentì invadere da un tale sollievo che le gambe le diventarono ancora più molli. Cercò di ricomporsi; prese uno strofinaccio ed iniziò ad asciugare il cucchiaio, con una cura che mai aveva usato. Tony afferrò una birra, richiuse il frigo, la ignorò e se ne tornò in salotto.
Per quella sera era troppo. Non avrebbe fatto altri tentativi di comunicare con Ben finché non fosse stata più che sicura che Tony dormisse. Se non avesse avuto il timore che Ben uscisse di sua iniziativa o si mettesse ad urlare avrebbe anche atteso finché Tony non se ne fosse uscito di casa per andare al bar o da qualche altra parte.

Appena finito di sparecchiare e pulire la cucina se ne andò a letto. Lo comunicò a Tony, che rispose con un mezzo grugnito senza nemmeno voltarsi. Non era infrequente che si addormentasse davanti alla tv e che solo molto tardi si trascinasse fino al letto, o che addirittura passasse tutta la notte a dormire lì.
Erika non sapeva cosa sperare: se si fosse addormentato davanti alla tv per lei sarebbe stato più facile sgusciare fuori dalla camera da letto, ma poi lui sarebbe stato dannatamente vicino allo scivolo dell’immondizia. Tony aveva il sonno pesante, ma sarebbe stato un rischio enorme.
Se invece fosse venuto a dormire in camera…Erika non sapeva se avrebbe trovato il coraggio di fare un qualunque movimento con lui lì accanto.
Il tutto dando per scontato che Ben non facesse idiozie, che se ne stesse buono buono nel condotto, senza cercare di uscire o, ancor peggio gridare. Dio come lo odiava, come lo odiava. Gli sembrava un’eternità da che quella situazione si era creata. Ore infinite con quella spada di Damocle pendente sulla testa; ed il suo destino era nelle mani di quell’idiota.
Questi pensieri, ovviamente, la tennero sveglia.
Era nel letto immobile, con gli occhi spalancati da non sapeva quante ore, quando sentì passi in corridoio e la porta della camera aprirsi. Chiuse gli occhi e pregò che Tony si limitasse a buttarsi sul letto ed addormentarsi immediatamente. Così fu. Sentì il letto gemere sotto il suo peso ed il materasso inclinarsi verso di lui, dopo poco il suo respiro pesante e regolare rotolare nell’oscurità.
Ed Erika attese.
Attese per quanto non lo sapeva, ma attese, cercando di trovare il coraggio, cercando di convincersi che sarebbe stato facile: sarebbe scivolata fuori dal letto, avrebbe aperto lo sportello dello scivolo, avrebbe detto a Ben che poteva uscire, lo avrebbe accompagnato fuori e non lo avrebbe rivisto più. Tutto si sarebbe sistemato. Ma lo doveva fare subito.
Anzi, magari se era fortunata Ben se ne era già uscito fuori. Magari il condotto era già vuoto e lei avrebbe dovuto solo constatare ciò, per poi tornarsene serenamente a dormire.
Poi, silenziosamente, scivolò fuori dal letto. Si muoveva con lentezza studiata, trattenendo il fiato. Appena fu in piedi si girò verso il letto, dove il corpaccione di Tony formava una sagoma indistinta e minacciosa coperta dal lenzuolo che si alzava ed abbassava ritmicamente con il respiro.
Solo sei passi fino alla porta della camera. Sei lunghi passi silenziosi, a piedi nudi. Ogni volta fermandosi per accertarsi che Tony non si fosse mosso, che continuasse a giacere nel suo sonno di pietra.
Oltrepassò la soglia della camera da letto e fece un breve respiro, il primo da quando si era alzata dal letto. Altri cinque passi e fu sulla porta della cucina.
Le sembrò di percepire un rumore, si bloccò gelata e tese l’orecchio, timorosa anche solo di girare la testa verso la  porta. Dalla camera da letto proveniva uno scricchiolio. Sentì le gambe farsi molli e si morse il labbro cercando di trattenersi. Non voleva nemmeno appoggiarsi al muro, per paura di fare rumore.
Il cigolio cessò. Era solo Tony che si girava nel letto, in preda a chissà quale sogno.
Il pavimento gelido della cucina le mandò un brivido dalle piante dei piedi nude. Non osò accendere la luce, ovviamente.
Coraggio, quattro passi e ci sei si ritrovò a pensare stupidamente. Mai in vita sua avrebbe mai immaginato che sarebbe stato tanto difficile attraversare una stanza.
Ma questa è l’ultima che mi combina, quell’idiota; il moto di stizza che seguì a questa affermazione distolse per un secondo la su attenzione da quello che stava facendo e le permise di arrivare allo sportello dello scivolo.
Meglio sbrigarsi. La sua voce interiore era cresciuta molto nelle ultime ore. Non sapeva se rammaricarsi – poteva essere visto come il primo passo verso la follia – od esserne contenta – in fondo era pur sempre una voce amica.
Afferrò il pomello dello sportello. Gelido.
Iniziò a girarlo.
Non successe nulla.

Non sapeva quanto tempo fosse passato. Probabilmente si era assopito, ma non ne era sicuro. Per il torpore la parte del suo corpo dalla vita in giù era terra di nessuno. Non sapeva più nemmeno se aveva le gambe. Per un instante fu addirittura assalito dal timore che per un qualche strano motivo una paralisi potesse averlo colpito. Magari un trombo dovuto alla forzata immobilità gli aveva ostruito un’arteria e lentamente le sue gambe stavano morendo. Nella sua mente assonnata questo scenario gli apparve improvvisamente maledettamente plausibile e terrificante; di nuovo gli si serrò la gola e l’aria, sempre più rancida e rarefatta, gli sembrò all’improvviso venire risucchiata da quell’ultimo strozzato respiro che a stento riuscì a trarre dalla sua gola ridotta ad un pertugio dal panico. Il buio non lo aiutava di certo. Era come essere in un non lugo: poteva essere ovunque, ma anche da nessuna parte. Un nero così non lo aveva mai vissuto. Nemmeno nelle notti senza luna, nemmeno nelle grotte in cui era stato. Un buio così buio da sembrare inconcepibile: siamo così abituati ad avere almeno una fonte di lucecome punto di riferimento, uno spiraglio, per quanto esile, che il buio totale ci è totlamente estraneo. Così abituati a contare sulla vista, l’oscurità vera ci è sconosciuta: ce la lasciamo dietro quando chiudiamo la porta di una stanza, quando usciamo dalla cantina, dal garage, ma non siamo abituati ad esserci dentro. L’occhio vaga in quell’infinito nero alla ricerca di un punto di riferimento senza trovarlo, inutilmente. Non abbiamo idea di cosa ci sia intorno, per quanto ne sappiamo potrebbe esserci qualcun altro, e noi non ce ne accorgeremmo. Magari il suo viso è a pochi centimetri dal nostro e non lo sappiamo.
Per l’ennesima volta si impose di stare calmo, ed in qualche modo riuscì a rallentare i battiti del suo cuore, a respirare di nuovo ed a muovere un poco le caviglie che, intorpidite, ripresero a funzionare come due vecchi ingranaggi arruginiti resi artritici dalla lunga immobilità.
Gli sembrò di sentire un rumore, quasi un soffio. Ma non ci voleva contare. Troppe volte, quella notte, nel suo ossessionato dormiveglia, si era illuso che ci fosse un suono, un rumore, che Erika stesse venendo a tirarlo fuori. In quella fase di equilibrio tra il profondo sonno e la veglia, in cui spesso pensieri e realtà si fondono, più volte era stato sicuro che lo sportello si stesse aprendo; più volte si era convito che lei fosse finalmente venuta tirarlo fuori. Aveva addirittura fatto un mezzo sogno, di quelli che ti lasciano una impressione confusa quando ne esci; aveva sognato che lo liberavano. Ma a tirarlo fuori, assurdamente, non era Erika, ma Tony, che lo fissava con il suo faccione pericolosamente inespressivo ed inintelleggibile, pericolosamente ottuso, incorniciato dagli stipiti dello sportello.
Sì, era per forza un sogno.
La realtà, la sua realtà costituita da quei pochi centimetri di metallo che lo circondavano era solo buio e silenzio.
Per l’ennesima volta il tempo non assunse alcun significato, e dopo secondi, minuti od ore gli sembrò di sentire un rumore. Non sapeva quanto fosse passato da quando si era svegliato, se era rimasto sveglio o se si era assopito di nuovo.  Non lo sapeva. Non sapeva più nulla.

Erika si rese conto che non stava tirando la maniglia. La stava solo stringendo spasmodicamente, ma non la stava tirando. Si guardò un’altra volta intorno ed inziò a fare forza.
Lo fece così lentamente che non sapeva dire se lo sportello si stesse aprendo davvero o meno. I suoi occhi si erano abituati all’oscurità, ma non c’era abbastanza luce per vedere se davvero lo stesse aprendo.
Improvvisamente si arrestò, assalita dall’improvviso dubbio che Tony si fosse alzato dal letto. Senza osare staccare la mano dalla maniglia,come se un suo movimento potesse farla scoprire, rimase immobile, con il cuore che le batteva contro le costole, dopo che si era fermato per qualche istante al sentire il rumore.
No, niente, nessun rumore.
Maledetto, maledetto Ben. Era tutta colpa sua. Era colpa sua se era in quella situazione, se era lì terrorizzata, in balia di essere scoperta da Tony. Era tutta colpa sua. Ma l’avrebbe pagata. Oh, se l’avrebbe pagata. Non si mettono le persone in pericolo così. Lui era lì al sicuro nel tubo, ma con Tony era lei a doverci avere a che fare.
In preda alla rabbia tirò con più decisione lo sportello e lo aprì di un apio di dita.
Poi d’improvviso si accese la luce.

No, il rumore c’era davvero, non se lo stava sognando. Alla fine aveva senso: di sicuro era notte. Forse Erika aveva trovato il coraggio di venire a tirarlo fuori finalmente. Tony dormiva in camera sua, lei poteva tirarlo fuori e quell’incubo sarebbe finito. Se ne sarebbe tornato a casa, nel suo letto comodo, morbido e pulito.
E addio Erika. Anche se suona come un trito luogo comune che in certe situazioni in pochi minuti puoi conoscere di una persona molto più di quanto potresti conoscerla in anni di vita di routine, in quelle ultime ore quello che Ben aveva visto di Erika non gli era piaciuto per niente. La sua unica preoccupazione era che Tony la scoprisse, non che lui era intrappolato lì dentro.
All’improvviso una lama di luce penetrò dallo sportello: qualcuno aveva acceso la luce.
‐ Cosa ci fai in piedi? – la voce di Tony, per quanto impastata di sonno, gli gelò il sangue.
Ora era davvero fottuto