Soffocando Terza parte

Il terrore puro è qualcosa di indescrivibile. E  fu quello che provò Erika in quel momento: un misto di reazioni fisiche e mentali; il cuore che si ferma, le gambe che divengono molli, la mente che si annebbia e non riesce ad afferrare un pensiero completo.
Tony era dietro di lei. Erika non osava girarsi, ma lo poteva ben immaginare: massiccio escarmigliato sulla porta della cucina.
Si  è accorto di qualcosa? Forse è meglio confessare e dirgli tutto. Qualsiasi cosa è meglio di questa tortura, di questa incertezza. Magari mi perdonerà.
Ma perché si è alzato? L’ho svegliato? Allora sarà ancor più arrabbiato.
Maledetto Ben, maledetto Ben.
‐ Cosa stai facendo? – chiese di nuovo Tony, questa volta un po’ meno impastato dal sonno.
Erika riuscì a reagire; con una naturalezza che la sorprese fece scivolare la mano dalla maniglia dello sportello del tunnel dell’immondizia a quella del frigorifero: ‐ Prendevo un bicchiere d’acqua – disse senza osare voltarsi, sperando che lo stare di spalle dissimulasse il terrore nella sua voce.
‐ E lo prendi al buio? –
‐ Non volevo svegliarti – fu lesta a rispondere mentre afferrava la bottiglia con due mani perché con una sola aveva paura di farla cadere per il tremito che le pervadeva il corpo.
‐ Versane uno anche a me –
Ovviamente obbediente Erika eseguì. Afferrò due bicchieri dalla credenza, li poggiò con troppo rumore sul tavolo – Tony le lanciò un’occhiataccia – e li riempì.
Tony ingollò il suo in un fiato, lei bevve il suo, o meglio, si rese conto di averlo in mano , solo quando il marito la fissò con aria  interrogativa. Si forzò a bere, facendo passare l’acqua che le sembrò gelata e le diede ulteriori brividi lungo la gola serrata.
Tony abbandonò il bicchiere sul tavolo e si avviò verso la camera da letto, senza dire altro. Erika per un riflesso condizionato lo prese e lo spostò nel lavello. Se lo avesse trovato lì il giorno dopo suo marito probabilmente si sarebbe lamentato, ma del resto era a lei che toccava tenere in ordine la casa, ed era un compito che assolveva di buon grado.
Mentre si girava lanciò un ultimo sguardo allo sportello; per un istante pensò di aprirlo di nuovo, ma sapeva di stare solo considerando l’idea, che non lo avrebbe mai fatto. Il suo cuore non aveva ancora rallentato i battiti, le sue nocche erano ancora bianche da quanto aveva stretto il bicchiere per il terrore mentre Tony era lì.
Questa volta era stata fortunata. Ci era mancato poco, molto poco, che Tony la scoprisse. E se fosse successo...non voleva nemmeno pensarci. Era uno scenario troppo orribile, ed al contempo  ancor più terrificante perché così vicino al realizzarsi ogni istante.
Maledetto Ben, maledetto Ben, è solo colpa tua. Spero solo non ti salti in mente di metterti ad urlare. In un modo o nell’altro domani ti libererò, anzi, mi libererò di te, e tuto questo finirà. È solo colpa tua.
Per un istante la rabbia le salì tanto che fu quasi tentata di aprire lo sportello e gridarglielo in faccia; gridare in faccia a quel maledetto che era solo colpa sua, che non si meritava tutto questo.
‐ Cosa fai ancora in cucina? – la voce potente di Tony, non molto smorzata dal sonno, la raggiunse in cucina facendola sobbalzare.
Maledizione, perché non sono andata subito in camera. Maledetto Ben, che tu sia maledetto. Oramai lo ripeteva come un mantra: maledetto, che tu sia maledetto.
La rabbia nei confronti di Ben era l’unico sentimento che si alternava al terrore di essere scoperta.
‐ Arrivo – corse fuori dalla cucina, obbediente.Spense la luce e a tentoni, più in fretta che potè, rischiando di inciampare in corridoio, tornò in camera da letto.
Senza dire nulla si infilò sotto le coperte e si rannicchiò su un fianco, in posizione fetale.
Dopo qualche secondo – minuto, ora? – il russare regolare di Tony le annunciò che dormiva profondamente.
Erika iniziò a tremare. Un tremito potente ed incontrollato. Il suo corpo, raggomitolato sotto il lenzuolo, era percorso da scosse violente; quasi in preda ad una crisi epilettica, non riusciva a fermarsi; ma nemmeno era sicura di volere.
Silenziose lacrime le colarono dalle guance; appena un tremito le fece spostare la testa sentì il tessuto bagnato del cuscino sotto la pelle.
Maledetto Ben, che tu sia maledetto. È solo colpa tua, solo colpa tua. Ma me la pagherai, o, se me la pagherai. Guarda in che situazione sono, in che situazione mi hai messo. Non potevi lasciarmi in pace? Vivevo così bene prima di incontrarti; andava tutto così bene. Ma quando uscirai da lì, se non sarà Tony a farti qualcosa, ci penserò io. Stai sicuro che non la passerai liscia, non pensare di potertene uscire dal tuo nascondiglio e tornartene a casa tranquillo, oh, scordatelo. Nel dormiveglia, ancora scossa dai tremiti che andavano perdendo di intensità, pensò che forse valeva la pena dire tutto a Tony. Certo, ne avrebbe pagate le conseguenze, e lei sola sapeva quanto queste conseguenze potevano essere gravi e dolorose – probabilmente questa volta la scusa di essere caduta dalle scale o scivolata sul pavimento del bagno non avrebbe convinto i medici del pronto soccorso – ma almeno avrebbe potuto farla pagare come si deve a Ben. Di sicuro Tony gli avrebbe dato il fatto suo, molto più di quanto avrebbe potuto fare lei.
Ancora piangendo, si addormentò.

Dal suo nascondiglio Ben aveva più o meno capito quello che era successo; ed aveva trattenuto il fiato. L’entrata in scena di Tony era qualcosa che gli aveva gelato il sangue. Improvvisamente gli erano tornati in mente tutti i racconti che aveva sentito al bar, la violenza ottusa e senza remore di Tony. Aveva smesso di respirare, tendendo l’orecchio a quello che succedeva nella cucina timoroso che le pulsazioni, che gli rimbombavano nelle orecchie, potessero essere sentite da fuori.
Da un momento all’altro si aspettava di sentire un urlo belluino di Tony – seguito probabilmente dallo schiocco di uno schiaffo ad Erika – per poi assistere allo spalancamento dello sportello e dalla comparizione dell’enorme braccio peloso di Tony che si sarebbe infilato nel tubo come un tentacolo, nel tentativo di afferrarlo. E lui avrebbe potuto fare ben poco.
Poi però non era successo nulla di tutto ciò. Si erano detti qualche parola, poi se ne erano andati, spegnendo la luce e lasciandolo lì.
Ben provò una strana sensazione, come di delusione. Oramai era pronto e rassegnato ad affrontare Tony; se lo aspettava. Almeno sarebbe uscito da lì. Forse non sarebbe stato un vero miglioramento della sua situazione, ma almeno sarebbe stato un cambiamento.
E invece era di nuovo lì, nel buio, e niente era cambiato.
Aveva sete e fame. Un dolore costante allo stomaco ed un perenne bruciore in gola gli ricordavano che non mangiava e non beveva da parecchio,  da troppo. Si sentiva terribilmente debole. La forzata immobilità, unita al digiuno, gli facevano sentire i muscoli – quelli che ancora sentiva – deboli e rattrappiti, forse incapaci di reagire prontamente se fosse stato necessario.
E adesso era di nuovo lì, ad aspettare. Era il suo destino in quella situazione: attendere l’iniziativa altrui. Essere passivo. Era forse questa la cosa più frustrante di tutte: non poter fare nulla da soli, poter solo aspettare le decisioni altrui.
Da tempo aveva rinunciato a provare a raggiungere lo sportello; aveva steso le braccia più che poteva, fino a stirarsi tutti i muscoli ma non ci arrivava; aveva provato a risalire, ma non aveva trovato alcun appiglio. Infine aveva rinunciato la sua libertà non dipendeva da lui.
Nel buio, mentre cercava per l’ennesima volta di controllare la disperazione, prese una decisione: il giorno dopo, se Erika non avesse fatto qualcosa, avrebbe agito lui.
Era oramai chiaro che la ragazza, se non fosse stata più che sicura di poterlo aiutare senza essere scoperta da Tony, non avrebbe fatto nulla, anche a costo di lasciarlo lì a tempo indeterminato. Ma lui non poteva più aspettare. Se il giorno dopo Erika non lo avesse tirato fuori, avrebbe chiamato aiuto. Avrebbe gridato per farsi sentire. Pazienza se Tony lo avrebbe sentito.
Per aiutarlo o per massacrarlo, di sicuro lo avrebbe tirato fuori da lì – almeno sperava. Poi, con un po’ di fortuna, sarebbe riuscito ad imbastire qualche scusa di scarsa plausibilità – che era un operaio rimasto incastrato durante un lavoro o qualcosa di simile – che di sicuro non avrebbe convinto Tony ma che magari, con un po’ di fortuna – ce ne vorrà molto di fortuna – ok, con molta fortuna, gli avrebbe fatto guadagnare quei trenta secondi necessari a raggiungere la porta e darsela a gambe, muscoli atrofizzati permettendo.
In fondo il trovare un uomo incastrato nel tunnel dell’immondizia dovrebbe essere qualcosa di piuttosto inusuale: Tony avrebbe impiegato un po’ di tempo a capire che non era possibile che lui fosse un operaio, e in quel tempo Ben poteva approfittarne per andarsene. In fondo Tony non gli sembrava una cima.
L’unico punto debole – uno dei tanti punti deboli, Ben – era capire se Tony lo conosceva. Ben non ricordava se si erano mai incontrati. Il palazzo era grande e non sapeva con certezza se si fossero mai incrociati sulle scale o da qualche altra parte. In ogni caso era improbabile che lo riconoscesse guardando nel tunnel: lì dentro era parecchio buio. Magari lo avrebbe riconosciuto dopo averlo tirato fuori, ma in quel caso poteva iniziare a parlare inventandosi qualcosa lo stesso, ed intanto allontanarsi verso l’uscita.
Che lo riconoscesse i meno come il vicino, la sorpresa sarebbe comunque stata grossa, e Ben avrebbe potuto approfittarne.
In quel momento, dopo ore di interminabile immobilità, persino l’essere inseguiti da Tony brandente una chiave inglese gli sembrava una situazione migliore di quella in cui si trovava. Non ne poteva più di quel cunicolo, di quella puzza, di quella sete, di quella fame.
Il giorno dopo avrebbe fatto qualcosa.
Un po’ confortato da questo pensiero si addormentò. O perse i sensi. Il confine tra sonno ed incoscienza, tra addormentarsi e svenire, era oramai sottile.

Erika si svegliò ansimando, come emergendo d’improvviso dall’acqua dopo aver trattenuto il fiato per lungo tempo. Era confusa, impiegò qualche secondo a ritrovare lucidità. Si sentiva la pelle del viso secca e tirata. Capiì che era colpa delle lacrime. Evidentemente aveva pianto anche nel sonno, ininterrottamente.
Si girò di scatto; Tony non c’era.
Maledizione, sono morta, probabilmente lo ha già scoperto.
Il suo sguardo corse frenetico alla sveglia, che segnava le nove passate. Tony non era un tipo mattiniero, ma dopo anni di lavoro come autotrasportatore oramai il bioritmo impostogli dalla sua attività – poche ore di sonno consecutive, inframmezzate da ore di lavoro, per poi riaddormentarsi appena era di nuovo possibile – lo condizionava anche quando non doveva lavorare.
Ora Tony era di là, e la colazione non era pronta. E magari quel maledetto di Ben avrebbe fatto qualche idiozia che li avrebbe fregati entrambi. Maledizione, maledizione; continuando a ripeterlo – erano anni che Erika non imprecava più – saltò giù dal letto. Inciampò nel lenzuolo che ancora le avviluppava i piedi e cadde per terra, sbattendo entrambe le ginocchia. Due lampi di dolore le salirono lungo le gambe, paralleli, percorrendo tutta la lunghezza degli arti.
Maledizione, ripetè per l’ennesima volta, senza osare niente di più. A Tony non piaceva che le ragazze fossero sboccate, non avevano lo stesso diritto al torpiloquio degli uomini; e negli anni aveva così ben abituato Erika a rispettare questo precetto di buona educazione, che la ragazza oramai non si permetteva di farlo nemmeno quando era da sola; e negli ultimi tempi, non si permetteva nemmeno più di pensarlo. Il massimo che si concedeva era un maledizione a denti stretti
Scalciando si liberò dal lenzuolo e imboccò il corridoio. Accolse il rumore dello scarico del cesso con un sospiro di sollievo: Tony non era ancora andato in cucina.
Passò davanti alla porta del bagno proprio mentre la maniglia si abbassava. Scivolò in cucina e con una mossa rapida posò la tovaglia della colazione sul tavolo, poi aprì il pensile ed afferrò due tazze proprio mentre Tony varcava la soglia.
Ovviamente non la salutò. Lei finì di disporre le cose per la colazione sul tavolo; solo in quel momento si rese conto che non aveva messo su il caffè. Afferrò la moka ed iniziò a caricarla, metre Tony si sedeva pesantemente sulla sua sedia, continuando ad ignorarla.
‐ Cos’è qusta puzza? –
Le prima parole della giornata di Tony la fecero sobbalzare al punto che la moka le cadde di mano, aprendosi e spargendo il caffè sul pavimento.
Tony la guardò con disprezzo, ma la cosa non sembrava interessarlo più di tanto al momento: ‐ Ti ho chiesto: cos’è questa puzza schifosa? Non la senti? –
Erika cercò di controllarsi e si concentrò su quello che Tony le stava dicendo. In preda alla frenesia di preparare la colazione non aveva notato nulla. Annusò l’aria.
Effettivamente la cucina era pervasa da un odore rancido, pesante, umido.
Merda.
Per la prima volta dopo anni, anche se solo pensandolo, Erika imprecò.
C’era un’unica ed incontestabile spiegazione per quell’odore: era odore di cadavere in decomposizione. Nient’altro poteva puzzare in quel modo in quella cucina.
Quello era l’odore di Ben in decomposizione.
Doveva essere morto ed aveva già inziato a puzzare. Puoi sempre dire che non ne sai nulla, che non capisci come un cadavere sia finito lì, in fondo, come può dire il contrario?  Ma sei scema? Non ci crederà mai, e poi è un cadavere, non un gioco. Verrà la polizia, ci saranno indagini...
‐ ...la spazzatura – il flusso di coscienza di Erika si interruppe sulle ultime parole di Tony.
‐ La spazzatura – ripetè meccanicamente, non sapendo cosa dire, ancora con metà della moka in mano.
‐ Ma sei cretina? – Tony iniziò ad alzare la voce – ti ho detto di buttare la spazzatura. Te ne sei dimenticata. Hai lasciato come al solito il sacchetto ad irrancidire. Vedi di muoverti, va’ –
Erika si fiondò ad aprire lo sportello sotto il lavello, dove tenevano il bidone dell’immondizia. Appena aprì l’anta una zaffata di rancido la investì. Mai in vita sua averebbe mai pensato di accogliere con tanta gioia un simile odore.
Di buon grado tirò fuori il bidone da sotto il lavello, pur essendo ancora in preda alle immagini di corpi putrefatti e decomposti nel tunnel dell’immondizia e di poliziotti che la interrogavano in merito, mentre Tony aspettava solo che se ne andassero per darle quello che si meritava.
Fece il nodo al sacco nero ricolmo di spazzatura e lo estrasse dal bidone. Tony la fissava,come per assicurarsi che facesse tutto correttamente. Per quanto si disinteressasse totalmente a lei, non gli era sfuggito che quella mattina c’era qualcosa che non andava.
Erika sentiva il suo sguardo addosso, benché fosse chinata sul sacco, intenta ad estrarlo dal bidone senza romperlo. Già una volta era successo che un angolo della busta si incastrasse e il sacco si squarciasse mentre tentava di estrarlo. Anche in quell’occasione Tony le aveva fatto capire che non aveva gradito e che non era il caso accadesse di nuovo. Una delle innumerevoli “lezioni di vita”, come le chiamava lui, che le aveva dato.
Mentre aveva quasi finito, un pensierò la gelò: dove avrebbe messo il sacco? Nello scivolo dell’immondizia c’era Ben, non poteva buttarlo lì come al solito. Maledizione, maledizione, maledetto Ben, è tutta colpa tua. Cercò di prendere tempo fingendo di fare di nuovo il nodo al sacco, cercando di pensare ad una soluzione. Il problema era che non c’erano soluzioni. Il sacco era lì ed andava buttato. Quanto ti odio, Ben, è solo colpa tua, quanto ti odio. Tony continuava a fissarla; poteva sentire il suo sguardo sulla sua testa china.
Oramai stava temporeggiando troppo, Tony di sicuro voleva la sua colazione, non avrebbe pazientato ancora a lungo. Con un gesto deciso estrasse il sacco dal bidone dell’immondizia.
C’era solo una soluzione. Fece un mezzo respiro, sollevò il sacco e con aria noncurante si avviò verso la porta della cucina.

Ben era ancora privo di sensi, o forse stava ancora dormendo, nel suo angusto rifugio. Iniziò lentamente a riprendere conoscenza. La prima sensazione che provò, riemergendo dalla nebbia che gli ottundeva le percezioni, fu la bocca secca. Ancora ad occhi chiusi – o forse erano aperti? Non sapeva dirlo, era buio – si passò un paio di volte la lingua sulle labbra. Fu come leccare un pezzo di creta secca: riarso e screpolato. Provò a schiarirsi la gola, ma senza risultato se non un forte dolore. I suoi arti erano sempre più intorpiditi, sarebbe stato impossibile muoversi se non dopo lunghi e lenti tentativi. Dalla vita in giù non sentiva più nulla. Girò leggermente la testa e si riaddormentò.

‐ Cosa – stai –facendo? – Tony sillabò lentamentele parole, fissandola con occhi truci mentre lei gli passava accanto con il sacco.
Erika si bloccò. Era finita, ma non poteva fare altro che continuare a recitare la sua parte. Maledetto Ben, mi hai messo in questa situazione, ed ora te ne stai al sicuro lì dentro, lasciandomi qui. Dannato Ben. Me la pagherai, fosse l’ultima cosa che faccio.
Non potendo fare altro, si girò con aria innocente verso il marito: ‐ Vado a buttare la spazzatura. Torno subito e ti faccio immediatamenteil caffè –
Tony sospirò rumorosamente, come spesso faceva quandole doveva spiegare qualcosa, come se avesse a che fare con una povera ritardata che lui aveva la bontà di sopportare.
‐ Non ti ricordi che hanno costruito lo scivolo apposta per evitare di dover scendere a buttare l’immondizia? Vedi di usarlo con quello che ci è costato. E cerca di non fare altri danni, che vorrei fare colazione, finalmente – poi, a voce più bassa, ma non troppo: ‐ cretina.
Erika annuì e si girò verso la parete in cui si apriva l’apertura dello scivolo. Maledetto Ben. Fece due lenti passi e si trovò davanti allo sportello. Posò la mano sulla maniglia. Ed improvvisamente seppe cosa era giusto fare.
Non avresti mai dovuto mettermi in questa situazione, Ben. Io non volevo,sei tu che mi hai convinta; prima a vederci, poi a frequentarci, poi ad andare avanti. Io‐non‐volevo, ma tu hai insistito. E adesso mi hai messo in questasituazione. Hai idea di come ho passato questa notte? Di come sono stata? E di come sono stata ieri? Io‐non‐intendo‐più‐soffrire‐così. È‐solo‐colpa‐tua, e per colpa tua io non intendo stare così, rischiare tutto per te, che –non‐fai‐altro‐che‐nasconderti in quel buco.
Girò la maniglia ed aprì lo sportello, risoluta come mai in vita sua.

Il rumore dello sportello che si apriva e la luce che invadeva il suo buco lo svegliarono di botto. Per qualche istante rimase abbagliato, come investito da una luce divina. Fuori, nel mondo reale, era una bella mattina luminosa. Gli sembravano secoli che non vedeva la luce del sole. Finalmente lo tiravano fuori. Non gli interessava chi. Erika, Tony, chiunque fosse e qualunque cosa gli avrebbe fatto dopo non gli importava. Voleva solo uscire.
Un’ombra comparve nel quadrato di luce delimitato dai bordi dello sportello. Impiegò qualche istante a mettere a fuoco. Era Erika.
Il volto tirato, teso, pallido, incorniciato dai capelli scarmigliati e dalla luce del mattino che creava come un’aoreola intorno alla sua testa. Era evidente che non avesse dormito. La sua bocca era stretta, le labbra ridotte ad un sottile filo esangue.
Nei pochi secondi in cui la vide, Ben percepì anche un’altra cosa: i suoi occhi, divenuti piccoli e freddi, erano animati da una decisione inamovibile. Lo fissava senza vederlo, con quel suo sguardo vacuo e gelido come quello di uno squalo.
Questa fugace visione fu oscurata da un’enorme massa scura, che occupò l’intero vano dello scivolo e gli precipitò addosso. Prima che potesse fare nulla qualcosa di caldo ed umido lo colpì sul viso. Non fece in tempo a muovere le sue braccia intorpidite, che rimasero prigioniere sotto quella massa scura, non fece in tempo a gridare dalla bocca riarsa. L’enorme palla lo investì ed iniziò a premere sulla sua fronte, sui suoi occhi, sul suo naso, sulla sua bocca.
In un secondo non riuscì più a respirare. La sua faccia era completamente premuta contro la plastica, e la pressione aumentava.
Reso debole dalla lunga immobilità, dalla sete e dalla fame, prigioniero nel tunnel, le braccia intorpidite incastrate sotto la massa nera, non poteva sottrarsi a quel peso micidiale.
Svenne di nuovo ed in breve tempo tutto fu definitivamente ed invariabilmente nero.

Erika premette a fondo il sacco dentro il tunnel. Le sembrò di percepire qualche movimento dall’altra parte, ma forse era solo una sua impressione.
Hai avuto quel che ti meritavi, Ben. O me o te, e tu non avevi il diritto di mettermi in questa situazione. La prossima volta ci penserai due volte prima di trascinare le brave persone nelle tue folli idee, per poi nasconderti come un topo.
Quando aveva aperto lo sportello aveva temuto di vedere il volto di Ben, ma per fortuna era buio lì dentro e lei ovviamente non aveva dato tempo agli occhi di abituarsi all’oscurità. Non voleva vedere, voleva fosse tutto rapido ed indolore. Aveva immediatamente ficcato il sacco nel tunnel,  schiacciandolo il più dentro possibile, volendo bloccare una qualunque reazione da là sotto. Aveva tenuto le mani lì dentro un po’ più del necessario, premendo il più possibile, ben attenta che da fuori Tony non potesse notare niente. In realtà aveva spinto con tutte le sue forze, appoggiandosi con tutto il proprio peso.
Aveva continuato a premere, come in trance, continuando a ripetere come un mantra maledetto Ben, te lo meriti Ben, finché suo marito, con tono scocciato, le aveva detto: ‐ Non dirmi che si è otturato di nuovo – e poi, a mezza voce come suo solito – idea del cazzo questo scivolo, condominio del cazzo e abitanti del cazzo –
‐ No, non si è otturato – Erika era scattata su, chiudendo lo sportello di botto. Un incubo era finito: quando Tony fosse uscito di casa avrebbe pensato come risolvere il problema. Una soluzione l’avrebbe trovata. Per ora l’importante era esser riusciti a ovviare al problema più immediato, impedendo a Ben di combinare danni. Ora non avrebbe più creato problemi a nessuno, quel maledetto.
Quanto allo svuotare lo scivolo ci avrebbe pensato in un secondo momento; prima era stata una sciocca: ora che ci pensava lo sapeva che i cadaveri impiegano un bel po’ prima di iniziare a puzzare. Aveva tutto il tempo per liberarsi anche di quel problema.
Si girò di scatto, sorridendo enormemente sollevata: ‐ Ti preparo la colazione ‐