Sognando Catullo
Se ne stava seduto sulla base tronca dell’antico colonnato, lo sguardo perso tra le scaglie argentee del lago. La terrazza‐belvedere, vuota in quel principio di pomeriggio settembrino, gli appariva come un luogo ideale per chi, come lui, era da tanto tempo, ormai, alla ricerca disperata di uno stato di imperturbabilità, di quella quiete interiore che i filosofi chiamavano atarassia.
L’idea del viaggio a Sirmione, per visitare la dimora di Catullo, gli era venuta in un momento in cui, in verità, tutto sembrava andare per il verso giusto: aveva trovato finalmente una compagna con cui dare inizio ad una convivenza stabile, i vecchi amici erano come sempre disponibili ad assecondare i suoi capricci, il lavoro si era ormai stabilizzato su una posizione di sicurezza e di relativa gratificazione.
Tutto per il verso giusto, dunque. Almeno così gli era sembrato, fino alla notte del sogno.
Lesbia staccava pigramente gli acini d’uva, uno dopo l’altro, dal grande grappolo che lui le porgeva, disteso sul triclinio, e li portava alla bocca con gesti lenti e sensuali, sfiorandoli con le labbra prima che sparissero tra i denti bianchissimi.
Valerio Catullo la guardava affascinato e gli pareva di sentire sulla lingua il sapore dolce della polpa succosa mescolata al gusto asprigno della buccia rosso fragola.
L’aveva conosciuta proprio là, in casa sua, dove era venuta da Roma col marito Quinto per una visita a suo padre, non ricordava più quando.
Cosa gli era piaciuto di quella donna, di dieci anni più grande di lui, bella e intelligente,sprezzante delle regole e accuratissima nel vestire e nel muoversi, suadente e distratta ad un tempo ,quali segrete promesse nascondevano quegli occhi che annullavano in chi le stava di fronte il senso dello spazio e del tempo?
La loro storia d’amore era stata travolgente come quei turbini che si innalzano d’improvviso nei deserti e tempestosa come i terremoti prodotti da venti e sommovimenti di falde profonde in terreni apparentemente sicuri e stabili. Quanta passione, quanta rabbia e disperazione, i sensi sempre tumultuosamente sommossi e stremati. Quante promesse, quante bugie e abbracci e baci e liti furibonde!
Perché era ancora là con lei dopo tutti i suoi tradimenti, la sua condotta immorale e volgare, gli intrighi politici in cui si era invischiata col fratello Clodio, perché l’adorava ancora dopo le sue avventure notturne, consumate persino nelle bettole più malfamate di Roma, di cui sapeva bene per bocca di Alfeno, di Giovenzio, di Aurelio, che si dicevano suoi amici e che forse per primi si erano infilati nel suo letto?
Mentre guardava il biancore marmoreo di quel collo amato, mollemente arrovesciato sulle sue ginocchia, le caviglie sottili, le spalle seminude, gli occhi socchiusi e quelle labbra morbide inumidite dal succo dolce dell’uva, sentiva la passione impadronirsi di lui al punto da annullare ogni capacità di ragionamento.
Era schiavo di quella donna, un vile, sciocco, impotente schiavo dei sensi.
Allora invidiò la pace di suo fratello, sepolto nella Troade, ormai lontano dalla burrascosa esistenza terrena che l’aveva tormentato fino alla decisione disperata del suicidio e desiderò anche per sé quella pace.
Ma non l’avrebbe cercata attraverso la morte, bensì attraverso la vita.
Già vedeva tutta la scena: avrebbe posato con calma il grappolo d’uva nel grande piatto d’argento sulla tabula lusoria lì accanto, poi avrebbe chiamato Servilio, il più giovane dei suoi schiavi, fedele e affidabile, econ voce gelida l’avrebbe pregato di accompagnare Lesbia, con la lettiga più bella e con una scorta di due ancelle, nel più vicino postribolo di Sirmione, la sua vera dimora, da dove, poi, sarebbe potuta ripartire a suo piacimento per Roma.
Ma in quel momento Lesbia si volse verso di lui, aprì chi occhi, che teneva socchiusi, e lo guardò con quell’intensità che lui conosceva tanto bene. Poi gli offrì le labbra, come solo lei sapeva fare.
In quel sogno si era riconosciuto. In quel giovane aveva rivisto se stesso, così debole, insicuro, incapace di credere davvero che uno sforzo di volontà possa cambiare i convincimenti di una vita. Che poi la vita sia stata ridotta ad un solo, meraviglioso e doloroso periodo, poco importa, se quel breve lasso di tempo ha saputo accamparsi nel cuore e nella mente assumendo i connotati dell’eternità.
Prima di fermarsi sul belvedere aveva visitato gli interni della villa (o almeno quel che ne restava).
Di fronte alla trifora del Paradiso aveva sostato a lungo, cercando di immaginare cosa il giovane Catullo, stanco e ormai malato, di ritorno dal viaggio in Bitinia aveva pensato di fare. Era rimasto a Sirmione per un po’, forse si era illuso di poter dimenticare Lesbia chiuso nella silenziosa pace della sua casa paterna. Chissà quante ore aveva trascorso guardando il grande lago, progettando la sua guarigione, quella dell’anima, la sua liberazione dal cancro dell’amore che lo stava consumando.
Mentre sedeva sulla base del colonnato, e di fronte la distesa argentea dell’acqua andava arrossandosi nei colori del tramonto, sentì farsi chiara in lui quella consapevolezza che anche Catullo, probabilmente, aveva sentito dentro di sé prima di ripartire un’ultima volta per Roma.
Tornare indietro non era più possibile. Doveva andare avanti e l’avrebbe fatto, consolidando agli occhi di tutti la propria scelta di vita, dimostrando che era quella giusta, quella che davvero egli aveva voluto, quella a cui erano stati rivolti gli sforzi degli ultimi anni, quella che si aspettava di avere finalmente come risarcimento di un destino per molti aspetti infelice. Col tempo, forse, avrebbe convinto anche se stesso.
Pensava a tutto questo, immerso nell’assoluta solitudine di quel luogo antico, quando gli sembrò che una mano si posasse sulla sua spalla, con una stretta affettuosa, mentre una voce d’altri tempi gli sussurrava all’orecchio: “ Difficile est longum subito deponere amorem; difficile est: verum hoc qua libet efficias. Una salus haec est…”.