Sogno di una notte di pieno inverno
«Chi vuol legare a sé una Gioia distrugge le ali della vita ma chi bacia una Gioia e la lascia volare vivrà nell’Alba dell’Eternità.» William Blake («Eternity»)
Avevo la vita, la calda vita nel cuore, anzi pareva quasi che tenere gemme di rosa, nate da dentro, dal cuore, sbocciassero in ogni suo angolo, a renderlo più tumido, quasi gonfio di gioia.
Fuori faceva freddo, e il vento dalla tempestosa mano picchiava contro gli scuri implorando attraverso le fessure della mia finestra: «Fammi entrare, ragazzo! Fammi entrare!». Io però me ne stavo arrotolato al calduccio sotto le coperte e lo ignoravo beatamente, godendomi la sensazione di gioia che con tanta generosità sprizzava dal mio petto.
Ma poi, sporgendo adagio il capo da un orlo della coperta come una tartaruga che esce dal guscio, scorsi accanto a me la candela che smoccolava ormai consunta e vidi la sua ultima fiamma vacillare. Il vento, penetrando a forza nella mia stanza, me la spense, e proprio in quell’istante precipitai nel sonno.
Forse dormii per un’ora, o forse due, ma so per certo che durante quel breve viaggio nel tempo raggiunsi il cuore della notte, il nucleo oscuro e silenzioso in cui palpitano i misteri che stanno per essere rivelati.
Fu allora che udii quel gemito.
Pareva il rantolo di una voce millenaria, sorta dalle profondità della terra a risvegliare la mia coscienza assopita... oppure era soltanto l’affanno del mio respiro, fattosi più greve a causa del sonno... o chissà, il reiterato sospirare del vento, quell’amico importuno che non voleva saperne di darmi pace. In ogni caso, impossibile continuare a dormire. Aprii un occhio, poi l’altro, e dopo essere rimasto per qualche istante in ascolto col fiato sospeso, compresi con orrore che non erano né il mio respiro né il sospirare del vento a produrre quel suono – perché anzi il mio molesto amico aveva smesso da un pezzo le sue perorazioni. Quel gemito proveniva, ahimè, da sotto il mio stesso letto!
Non sono un codardo: al contrario, ben poche cose al mondo mi fanno paura. Persino i serpenti, col loro silenzioso strisciare, m’ispirano simpatia e sono i graditi ospiti dei miei sogni; e i topini che rosicchiano i ceppi nella legnaia, rincorrendosi tra i rami e le fascine, mi fanno spesso lieta compagnia durante i miei solitari pomeriggi di lettura su in soffitta. Ecco, forse i ragni... i ragni, sì, mi hanno sempre messo addosso qualche inquietudine; eppure ho imparato a osservarli di nascosto, quando, inconsapevoli d’essere spiati, sollevano le teste tra le zampette smilze e ricurve e le muovono a destra e a sinistra come l’occhio vigile di un telescopio.
Ma quella voce!... Nell’udirla, il sangue mi si agghiacciò nelle vene. Tuttavia non sarebbe stato degno di me, della mia audacia, se me ne fossi rimasto ancora sotto le coperte, immobile e appiattito come un rettile. Raccolsi tutto il coraggio possibile e pian pianino calai la testa oltre il bordo del letto...
Ebbene, era proprio lì... quella cosa!
La osservai con attenzione. Verde, rugosa, putrefatta. Nonostante i suoi occhi fossero chiusi, quasi serrati, ebbi la netta sensazione che potesse vedermi.
«Fammi uscire, ti prego!» supplicò in un gorgoglio strozzato. «Un solo istante! Uno solo!»
Che fare? Ogni creatura sofferente, anche la più difforme, mi ha sempre ispirato profonda pietà. E nel sentirla implorare così, con quella vecchia voce arrochita e fievole, il cuore mi s’inzuppò di pena. Cosicché, armatomi di santa pazienza, la trassi da sotto il letto.
Non c’è che dire, era davvero brutta! Una mummia verdastra, livida e imputridita, dal puzzo nauseabondo. Chissà da quanti millenni se ne stava immobile, avvolta nelle sue bende di morte. Fortuna che avesse incontrato proprio me, così generosamente disponibile a farle prendere un po’ d’aria...
Mi ringraziò con voce commossa, e i suoi occhi si riempirono di lacrime che piano le sgorgarono tra le palpebre serrate, scorrendo giù per le gote ragnose. Non volle dirmi il suo nome, ma mi narrò la sua storia ‐ una narrazione lunga secoli, ‐ rivelandomi come l’umanità, nello stadio della sua prima fanciullezza, avesse appreso a sottrarre i corpi dei defunti ai naturali processi putrefattivi per mezzo di complesse tecniche d’imbalsamazione.
«Certe procedure non dovevano essere poi così rudimentali se si è conservata tanto bene fino a oggi...» argomentai tra me. E risolsi che da allora in poi mi sarei preso cura di quell’anima in pena.
Starsene immobili nei secoli non dev’essere una cosa piacevole: così ogni giorno le portavo da mangiare imboccandola pazientemente, e lei mi manifestava la sua gratitudine narrandomi in cambio storie di piramidi e civiltà sommerse, che ascoltavo pieno di sacro, affascinato stupore. Conobbi così il segreto del mondo: dai tempi di Lemuria, culla della razza umana, e della scomparsa di Atlantide sprofondata negli abissi, fino e oltre quelli in cui sorse la Sfinge, segreta custode dell’Arca dell’Alleanza, e furono innalzate le Piramidi di Giza in allineamento con gli astri della cintura di Orione.
Naturalmente, in quei giorni ebbi cura di non farmi vedere né udire da nessuno. E poiché in casa c’era sempre qualcuno – i miei parenti, mia madre, mio padre, i miei fratelli, per non parlare dei loro ospiti, quei rumorosi bevitori di vino che nelle notti lucane di carnevale bussano alle porte mascherati di nero, a turbare coi loro campanacci i sogni tranquilli dei ragazzini innocenti, – dopo aver nutrito in segreto la mia mummia, tornavo a nasconderla sotto il letto, nella speranza che il puzzo di cadavere non destasse sospetti.
Certo mi presi buona cura di lei, poiché la vedevo ringiovanire ogni giorno di più. Finché un mattino, traendola come sempre da sotto il letto, trovai distesa al suo posto una splendida fanciulla bionda che mi ringraziava coi grandi occhi sorridenti. Io, che avevo amato la mummia, brutta e ripugnante com’era, leggendole dentro con lo sguardo dell’anima, con quanto più ardore mi accesi di amore nel vederla trasformata in quella deliziosa creatura profumata che stringevo tra le braccia!
Eros mi trafisse il cuore con la sua freccia rovente ed io la presi con tutto l’impeto della mia gioventù. Della qual cosa essa non mancò di ringraziarmi, ricambiando il dono del mio essere con tutta se stessa.
Il mattino dopo, ansioso di riabbracciare la mia mummia (ormai non più tale per fortuna), mi affrettai a trarla dal suo nascondiglio. Ma quale fu la mia sorpresa quando, chinatomi accanto al letto e sollevati i bordi delle coperte, scoprii che essa non c’era più!
Mi guardai intorno smarrito: la finestra era aperta!
Corsi al davanzale. Fuori, un sole luminoso aveva spazzato via l’inverno, e nell’aria tersa e azzurrata di quell’insolito mattino un uccello dal piumaggio color del sole volteggiò davanti ai miei occhi.
Era lei! Quell’anima meravigliosa aveva operato una delle sue metamorfosi e si era trasformata ancora una volta.
Si fermò accanto a me e mi ringraziò con voce melodiosa: «Caro amico, grazie per avermi liberata da quelle grevi spoglie di morte e per aver riversato su di me Compassione, Pietà, Pace e Amore. Tu hai finalmente sciolto il debito che da millenni mi teneva legata alla terra. Ma ora non posso più trattenermi qui, il Cielo mi chiama. Addio!»
Me lo disse con tristezza e insieme con gioia. Con gioia, sì, perché in un festoso sbattere d’ali spiccò il volo e se ne andò lontano, lasciandomi solo a piangere: «Addio! Addio!»
Alla fine, in preda a un’emozione oscillante tra lo sconforto e l’incerta speranza di rivederla un giorno, ricaddi sul letto e mi addormentai di un sonno greve e profondo come la morte.
Giunse la notte, il vento venne ancora alla mia finestra e questa volta entrò senza pregare, finché, nonostante l’oppressione del mio sonno di piombo, non udii di nuovo quel gemito: il rantolo greve e gorgogliante dei secoli. Ma i miei occhi erano troppo stanchi e pieni di pianto per aprirsi, le mie braccia troppo gravate dal dolore per muoversi. Mi sembrò poi che sul mio corpo incombesse il peso dei millenni e di tutte le piramidi del mondo, comprese quelle di Giza allineate alla cintura di Orione, e l’enorme mole della Sfinge, e l’ombra di Lemuria, e che mi travolgessero i flutti degli oceani, sospingendomi verso i loro più remoti fondali, dove giacqui sepolto sotto le cinta di Atlantide inabissata per l’eternità.
L’alba mi trovò così: disteso sul letto, immobile, verde e imbalsamato. Una mummia putrefatta dal dolore, avvolta nelle sue bende di morte.
Ora anch’io ho smesso di essere una mummia: e per fortuna! Perché altrimenti non sarei qui a scrivere questa storia; ma mi sono trasformato in una bella fanciulla e poi in uccello, e ho cantato a lungo ‐ ah, quanto splendidamente! ‐ sicché tutti mi pregavano: «Canta, canta ancora!»
Ma la vita di un uccello è assai fragile e breve, per di più esposta alle lusinghe del mondo e al rischio che qualcuno tenti di metterla in gabbia: cosa che non avrei voluto mai e poi mai! Mi è già bastato essere per un po’ una mummia imbalsamata, che non è una delle migliori esperienze, vi assicuro. Alla fine strappai una penna, una grande, bellissima penna dal mio piumaggio di sole, la intinsi in un calamaio e mi trasformai in me stesso. Ed ecco perché ora me ne sto qui seduto, a raccontare di mummie, di fanciulle che ispirano amore, di uccelli che cantano e di una piuma che scrive.