Solitudine
Guardò per l’ennesima volta l’orologio a muro sulla parete di fronte al letto, nella speranza che la lancetta delle ore avesse già percorso l’ultimo tratto di quadrante che mancava alle sei del mattino. Alle sei ci si poteva ben alzare, nessuno gli avrebbe rimproverato di essere troppo mattiniero! Gli altri ospiti non se ne sarebbero neppure accorti, se lui avesse evitato di far cigolare la rete, se si fosse infilato le pantofole di panno e, soprattutto, se non si fosse messo a passeggiare nervosamente per la stanza, picchiettando sul pavimento col quel maledetto bastone.
Avrebbe avuto un po’ di tempo tutto per sé, prima di scendere a colazione nella sala comune. Che tortura! Tutti quei “Buongiorno!” da scambiare senza averne alcuna voglia; tutti quei “Dormito bene?” ipocriti, perché né a lui né agli altri interessava se l’ospite della camera accanto avesse dormito bene o male.
Le notti erano interminabili, un vero calvario, con tutti quei dolori alle ossa che nessuna posizione poteva alleviare: e lì a girarsi e rigirarsi senza posa, inutilmente. Quando credeva di averne trovata una adatta, quando il fianco sembrava aver smesso di dolere, ecco di nuovo quelle fitte lancinanti, quel formicolio snervante e quel montare irrefrenabile di una rabbia sorda e impotente contro il mondo intero, contro la vecchiaia, contro il destino, contro Dio, se pure esisteva un Dio.
Si svegliava alle sei per affacciarsi alla piccola finestra che dava sul fiume. A quell’ora, generalmente, un pescatore andava ad appostarsi con la sua canna di bambù sull’ansa sotto il pioppo e rimaneva lì per ore, nell’attesa che qualche trota abboccasse all’amo. C’era un silenzio assoluto a quell’ora, rotto solo dal frusciare delle foglie e dal cinguettio dei passeri. Nessuna voce umana a spezzare la pace.
A lui la pesca non era mai piaciuta: troppa pazienza, troppo tempo inutilmente sprecato per un risultato spesse volte deludente.
A lui era sempre piaciuto tutto ciò che comportava rischio, mente sveglia e prontezza di riflessi, creatività e immediatezza nel trovare una soluzione a qualunque problema.
Aveva praticato l’aeromodellismo per molti anni, costruendosi da solo modellini di aerei anche abbastanza complessi e si sentiva veramente un dio quando li faceva decollare dai campi appena rasati, con quell’erbetta verde che profumava di fresco. E poi li faceva volteggiare in cielo come piccole schegge argentee, tra looping e voli rovesci, picchiate e risalite che sembrava volessero perdersi tra le nuvole; e infine l’atterraggio, sempre perfetto, sempre straordinariamente preciso nel punto in cui aveva deciso che dovesse avvenire….
Poi quel maledetto ictus, l’emiplegia che gli aveva ridotto l’uso della mano destra, quella mano da “chirurgo e da orologiaio”, come la definiva lui…Ed era stata la fine, l’inizio della depressione, la solitudine, la perdita di ogni entusiasmo.
Si era aggrappato a quell’hobby per dare un senso alla sua vita dopo la morte di sua moglie, compagna fedele e premurosa, per rassicurare i figli che vivevano lontano, per sopportare l’invadente presenza della sua badante polacca (una bravissima donna, per carità, ma un’estranea per lui), per sentirsi ancora vivo e capace all’età di settantotto anni.
‐ Posso stare anche da solo, aveva detto ripetutamente ai figli in ansia per lui, posso cavarmela bene, sono autonomo, c’è Magda con me, riesco a sopportarla,purché non sia troppo invadente, non vi preoccupate, pensate alla vostra vita, ai miei nipoti, io so cavarmela.‐
Ed era stato davvero così per oltre sei anni, ma infine aveva dovuto cedere all’evidenza: non poteva più cavarsela da solo dopo quell’ictus, e nemmeno l’aiuto di Magda era ormai sufficiente.
I figli avevano protestato, pianto, implorato: non avrebbero mai permesso che il loro padre, che aveva fatto tanti sacrifici, che li aveva sempre aiutati, che mai si era tirato indietro per risolvere ogni piccolo problema, dovesse finire i suoi giorni in una casa di riposo, mai.
E invece lui aveva deciso di sì; solo in quel modo avrebbe conservato intatta ai loro occhi la propria dignità, lo faceva anche per il loro bene: dopo la sua morte dovevano ricordarlo con lo stesso amore di sempre, come un aiuto, un conforto, un punto di riferimento, non come un peso, fastidioso e insopportabile.
Sentì picchiare alla porta e la voce di Stefano, l’assistente sociale del mattino, che lo invitava a scendere per la colazione, gli trafisse le orecchie. Era ancora alla finestra, e anche il pescatore era ancora sul fiume, con la sua canna in mano, in attesa che la trota abboccasse.
La pesca non gli era mai piaciuta, ma in quel momento lo invidiò, con quella mano destra che girava veloce il mulinello. E forse per soffrire un po’ di più, come se ce ne fosse bisogno, si svegliava ogni mattina alle sei, per spiare dalla finestra quello sconosciuto, che non aveva bisogno di bastoni, che teneva stretta nelle mani la canna per ore e faceva girare così velocemente il mulinello con la destra.
‐ Signor Luciano, vuole scendere per favore? Sono le sette passate, troverà il latte freddo. I suoi amici sono già tutti a tavola.‐
Si vestì alla meglio, dopo essersi sciacquato il viso con l’acqua tiepida ed essersi ravviato i capelli bianchi come neve.
Stefano lo aspettava sul pianerottolo, con la porta del piccolo ascensore aperta chissà da quanto. Sorrise, ma a lui sembrò che lo facesse solo perché era pagato per sorridergli.
Nella sala da pranzo il solito brusio, i tavoli già tutti occupati, solo il suo posto ancora vuoto. Andò a sedersi tra Michele e Gianni, che lo accolsero come sempre con il loro viso malinconico e buono.
‐ Buongiorno a tutti!‐ disse, con tutto l’entusiasmo possibile ‐ Dormito bene?‐