Son Of God
L’idea di andare a scoprire un aspetto sconosciuto del territorio, nel quale ci ritrovavamo a vivere, portava con sé un fascino ed un'eccitazione indescrivibili. Dopo aver affrontato i pericoli della scalata alla Star Cavern quest'iniziativa risvegliò nuovamente l’interesse degli Outcast.
Ci munimmo ancora una volta di rampini, caschi, torce, scarponi, martelli, scalpelli, e ci preparammo a seguire Stew (il più esperto tra di noi) e Chalmers (che meglio aveva udito, tra tutti noi, lo scrosciare delle acque). L’atletico figlio di Johnson ed Irina Montrose sembrava stanco, provato, non in perfetta forma fisica. La notte, evidentemente, non era stata riposante per lui. L’idea di dividere la posizione avanzata con un compagno sembrò rasserenarlo. Era la prima volta che lo vedevamo in difficoltà e non c’eravamo abituati. Tuttavia, tenemmo questi pensieri lontani dalla nostra mente, durante tutto il tragitto. Se volevamo portare a termine l’impresa senza rischiare di perdere la vita dovevamo avere la mente sgombra e concentrata. Non sapevamo con precisione cosa avremmo potuto trovare ma fu proprio questa incertezza a far scattare la molla dell'interesse nel nostro piccolo nugolo di avventurosi.
Immaginavamo che dal settore Ovest si dovesse puntare in direzione Nord, almeno, di qualche grado ancora. Stew e Chalmers davanti, Moe, Jimmy, James, Jasper ed io subito dietro, poi Roy, Bernie, Roger, Mary ‐ Anne, Elizabeth ed Heather chiudevano la fila. Fu più difficile del previsto giacché a mano a mano che ci avvicinavamo al nostro obiettivo, le pareti di roccia diventavano più umide, scivolose ed insicure. Diverse volte rischiammo di cadere ma continuammo a procedere come arsi da un fuoco che nemmeno tutta l’acqua di questo mondo sarebbe stata in grado di spegnere. Il nostro metodo di arrampicata, già collaudato con la missione alla Star Cavern, prevedeva ancora una volta l'utilizzo dei ponti tibetani. Ci spostammo, come previsto, verso il basso ed in direzione Nord. Impiegammo tutta la giornata prima di raggiungere il diciassettesimo piano. Le pareti di roccia si erano dimostrate più tenaci e caparbie della nostra volontà di riuscire nell'impresa. Ci rallentarono. Ci spossarono. Non ci fermarono.
L’indomani mattina, dopo una notte di sonno ristoratore, ricominciammo la nostra missione con piglio ed attenzione. Raggiungemmo l'altezza desiderata solamente dopo un paio di giorni. Quello che iniziammo a scorgere aveva dell'eccezionale. Se in lontananza la nuova grotta ci era sembrata assai simile alla Star Cavern, ad una visione più ravvicinata ci accorgemmo di aver preso una cantonata, di esserci clamorosamente sbagliati. Quando raggiungemmo il luogo, meta del nostro viaggio, entrammo in un varco largo qualche decina di metri ed alto altrettanto. La volta naturale, di roccia e terriccio, di humus e ghiaccio, aveva una conformazione che poteva ricordare quella di un arco romanico. Ci trovavamo circa all'altezza del ventesimo piano. Avevamo disceso una parete rocciosa con pendenze impossibili per cinque piani. Eravamo euforici e cacciammo un urlo di gioia che aveva un sapore primitivo. Restava da svelare il mistero dello scrosciare dell'acqua e fummo consci che avremmo alzato il sipario definitivamente di lì a pochissimo tempo.
Ci avviammo verso un’apertura che sembrava un passaggio. Il rumore dello scorrere dell'acqua si faceva sempre più intenso e fragoroso. Percorremmo circa una ventina di metri prima di vedere il fiume interno. Fu una vista spettacolare. Ne valse la pena. Pur se illuminate dalla sola, debole, luce delle torce elettriche dei nostri caschi, vedemmo delle acque spumeggianti che s’infrangevano sulla nuda roccia creando spettacolari serpentine. Si trattava di una vista unica nel suo genere. Quando avevamo deciso di intraprendere questa seconda spedizione, ancora non sapevamo di quali meraviglie saremmo stati testimoni. Le fatiche, i pericoli, cui eravamo andati incontro, incoscienti e spensierati, non avevano per noi più alcun valore se rapportati a quella visione d’incalcolabile bellezza. Tutta la stanchezza e le paure che ci avevano accompagnato durante il lungo e faticoso viaggio, sparirono come per incanto. Fu una sinfonia di suoni e di colori. E il buon Dio ne era il Direttore d'orchestra.
Ci prendemmo tutti per mano e giurammo che qualunque cosa ci riservasse il destino l'avremmo affrontata come se fossimo stati fratelli. Fu Moe a dire che il nostro gruppo era come una famiglia. Anzi di più. E nessuno di noi era in grado di dargli torto. Rimanemmo a ridere ed a scherzare per diverse ore. Con orgoglio, scegliemmo proprio in quei momenti un nome per quella meraviglia del creato. Fummo tutti d'accordo nel chiamarlo SOG, in altre parole Son Of God. Se l'interno di Mount Withney era stato denominato Satan’s Womb, pensammo che non potesse esistere nome migliore per quel torrente impetuoso che, con la sua forza vitale, lo trapassava dalla punta più alta sino a valle. SOG era diventato qualcosa di più di un semplice fiume sotterraneo. Rappresentava per noi l'ultima frontiera, quella del mistero, della scoperta.
Esso era ciò che aggiungeva avventura ed imprevedibilità a quella vita preordinata e programmata che ci eravamo obbligati a vivere. E’ vero, a tutti piaceva il lusso, il divertimento. Nel Satan’s Womb ve ne era in abbondanza. Nel medio e lungo periodo le pareti di quella gabbia dorata si stringevano attorno a noi fino a soffocarci. La vita, dopotutto, è fatta di conquiste, di obiettivi da raggiungere, di traguardi da superare. Il nostro pensionamento forzato nell’Utero di Satana ci toglieva tutti questi stimoli, ci impediva di crescere, tendeva ad appiattire le nostre giornate. Anzi, faceva anche di peggio. Nonostante fossimo arrivati già da qualche mese, e tante coppie etero si fossero già formate, nonostante le Sale del Piacere fossero abbondantemente usate, non riuscivamo a spiegarci come non fossero ancora giunti i primi segnali dell'arrivo di fiocchi azzurri o rosa. Nessuna donna rimase incinta. E non sembrava essere un problema di anticoncezionali troppo efficaci. Il Dottor Lampard scomodò i suoi analisti e diagnosticò una sorta di attenuata capacità del seme maschile nel risultare reattivo al punto giusto nel momento del bisogno e, al contempo, dell'ovulo femminile di essere fecondato. La spiegazione che diede sulla questione aveva natura meramente psicologica.
L'ambiente chiuso del Satan’s Womb, insomma, sembrava non giovare per nulla alla voglia di maternità e di paternità degli Outcast. Col tempo, ci si abituò anche all'impresa di SOG ed essa perse di significato, sprofondando noi Outcast nel grigiore e nella monotonia della nostra ricca prigione. L'unico momento che sembrò degno d’interesse, in grado di creare un poco di eccitazione, di dare qualche sussulto alla nostra piccola comunità, fu il Super Bowl. Ad Atlanta si sfidavano i San Diego Chargers ed i Washington Redskins. Il miglior attacco della Lega contro la miglior difesa. I passisti californiani contro i runner columbiani.
Uomini e donne si divisero quella sera in simpatizzanti dell'una o dell'altra squadra. Decidemmo di guardare l'evento, tutt'insieme, nella Sala Grande al tredicesimo piano, dove venne allestito uno schermo gigante. Il tifo si fece esageratamente straripante. La partita incominciò. Il primo gioco toccò ai Chargers che ritornarono il calcio d'inizio per venticinque yard. In campo, uscirono gli special team ed entrarono la squadra d'attacco dei californiani e quella di difesa dei columbiani. Il Quarterback Jess Levy, ventiquattro anni, guidò il gioco. Al primo tentativo il wide receiver guadagno quattro yard. Nel gioco successivo, Jess fece una finta nella corsa per poi scartare il suo avversario e voltarsi. Stava attendendo il movimento dei suoi uomini quando fu travolto da un sack operato dal corner‐back di colore Walt Pittman, sganciatosi per l'occasione dalla marcatura del receiver, in applicazione di uno schema difensivo del Coach Cutter.
Mentre la partita stava giungendo al culmine della sua spettacolarità, ed i Washington si erano portati sul ventuno a sette, notai in lontananza lo sconosciuto personaggio che si trovava sempre vicino al Dottor Lampard o al Direttore Quinlan, mentre stava parlottando con Steve Cough. Amo il football americano e vedere i miei Washington Redskins vincere il Super Bowl era quanto di più bello potessi immaginarmi in quello sport. Tuttavia, molte cose erano cambiate con il mio ingresso nel Satan’s Womb e ancor di più ne sarebbero seguite. La curiosità di sapere chi fosse quest'uomo misterioso fu tale che mi alzai dalla seggiola di metallo e plastica e, tra il disagio dei miei compagni di fila e di settore, sgattaiolai via per poterli spiare. Dovetti fare un largo giro per raggiungere il mio obiettivo. Mi affrettai. Corsi lungo diversi corridoi. Il settore nel quale mi trovavo ad assistere all'evento sportivo dell'anno si trovava esattamente nel punto più lontano della Sala Conferenze e Concerti del tredicesimo piano, spostato di centottanta gradi rispetto alla direzione che stavano prendendo i due dirigenti. Avevo qualche centinaio di metri da percorrere per raggiungere il posto dove avevo intravisto lo sconosciuto che parlava con il Responsabile della Sicurezza.
Non badai alla fatica ed infine raggiunsi il corridoio nel quale avevo visto quella coppia. Non c'era più nessuno. Sicuramente, nel frattempo, si erano spostati. Corsi ancora per raggiungere il fondo del corridoio. Prima di giungervi, rallentai e cercai di allertare i miei sensi per riuscire a sentire o anche solo di capire quale direzione potessero avere preso. Udii una flebile voce provenire dalle rampe di scale. Arrivai alla porta di accesso. La aprii cercando di non far rumore. Entrai. Udii le voci provenire dal basso. Steve e lo sconosciuto stavano scendendo. Mi appiattii contro il muro e feci altrettanto. Non smisi di cercare di scoprire la verità su questo mistero. Udii e compresi le loro prime parole.
Incredibile. Non avrei mai creduto che potesse esistere un simile orrore. Riconobbi la voce di Steve Cough ed una sottile preoccupazione.
Eppure, e le nostre più recenti scoperte lo testimoniano, le cose stanno proprio così. Rispose il suo interlocutore.
Diavolo, signor Cayce, ma si rende conto che con queste rivelazioni questo posto diventerebbe una polveriera pronta ad esplodere ed a travolgerci tutti? Domandò Steve.
Me ne rendo perfettamente conto. Fu la risposta dell’uomo che aveva appena chiamato… Cayce. Per questo motivo voglio ricordarle ciò che ho premesso e cioè che i contenuti di questa conversazione devono rimanere segreti. Spero che comprenda il grave pericolo che correrebbe ognuno di noi se, quanto ora sa anche lei, arrivasse alle orecchie degli Outcast...
Steve rispose scrollando le spalle. Il mistero s’infittiva. Non solo diventava importante scoprire l'identità ed il ruolo dello sconosciuto nel Satan’s Womb ma sembrava che ci fosse anche un segreto dalle conseguenze terribili che lui e Steve conoscevano e che, per qualche ragione, occorreva non rivelare a noi Outcast. Stavo cercando di ascoltare con maggiore attenzione, quando fui colto come da una premonizione improvvisa. Cominciai ad avere la forte sensazione di essere seguito. Alzai lo sguardo verso l'alto e mi parve di vedere qualcosa ritrarsi dal bordo esterno del corrimano. Non mi riuscì a individuare chi o cosa fosse. Tuttavia, da quella direzione non udii alcun rumore. Mi sporsi in avanti, verso il bordo esterno del corrimano. Decisi di verificare più tardi cosa stesse accadendo poiché lo sconosciuto, che Steve Cough aveva chiamato Cayce, ed il capo della sicurezza avevano appena lasciato la rampa di scale per dirigersi verso il portone d'ingresso del nono piano. C'era un solo settore che poteva essere la loro meta: quello dei laboratori e dell'ufficio del Dottor Lampard.
Feci molta attenzione a non emettere alcun suono e giunsi all'ingresso del nono piano. Avevo avuto ragione. Lo sconosciuto e Steve si stavano recando proprio verso la direzione che avevo previsto. Purtroppo, mi sarebbe stato impossibile proseguire oltre. Con rammarico, tornai indietro. Come colto da un’improvvisa intuizione, guardai nuovamente verso l'alto. E ancora una volta vidi qualcosa ritrarsi, nascondersi tra gli angoli più bui e nascosti delle scale. L’istinto m’indusse a svelare questo mistero. Cominciai a salire gli scalini, tre a tre, ben deciso a scoprire chi fosse l'ignoto personaggio che stava cercando di spiarmi e che si ritraeva, facendosi scudo delle scale e delle ombre, sperando che io desistessi dall'inseguirlo. Cosa che mi guardai bene dal fare.
La creatura era veloce, anche più di me. Per quanto affrettassi il passo e velocizzassi la mia corsa, non mi riuscì a raggiungerla e svelare, dunque, il mistero. Percorremmo, correndo l'uno dietro l'altro, almeno una ventina di rampe prima che io, esausto, decidessi di rinunciare. Ripensandoci, eravamo giunti al primo piano. Il portone si stava chiudendo proprio in quel momento. La creatura era probabilmente appena entrata. Cambiai idea, strinsi i denti e provai a fare un ultimo tentativo. Entrai con cautela e fui inondato dell’azzurra luce notturna. Feci molta attenzione. Mi concentrai per udire ogni più piccolo rumore.
Sentii la creatura respirare, qualche decina di metri davanti a me, nel corridoio successivo. Stava cercando di capire se intendevo continuare questa caccia. Avanzai e le mie gambe risposero ovviamente di sì. Allora la creatura fuggì in direzione opposta. La sentii ansimare. Era umana. Percorremmo quasi tutti i corridoi al primo piano e, mentre mi stavo accingendo ad aprire le porte dell'ultimo settore, cominciai a sorridere. C'era una sola direzione che poteva prendere: la piattaforma per il paracadutismo. Chiunque fosse, di qualunque creatura si trattasse, non poteva avere indosso un paracadute. A circa una ventina di metri di distanza vidi, attraverso le finestrelle di vetro delle porte antipanico, che la creatura si trovava sul bordo del trampolino di lancio. Ero sicuro di averla finalmente raggiunta quando intuii che si stava buttando nel vuoto.
Pazzesco. Un volo di un centinaio di metri che terminava nella nuda roccia avrebbe ucciso chiunque. Raggiunsi il bordo del trampolino e guardai verso il basso. Il buio m’impedì di vedere quale fosse stata la fine della creatura. Sconvolto, diedi l'allarme. Nel giro di sette minuti accorsero, in quel punto del primo piano, una ventina di addetti alla sicurezza, compreso Steve Cough. Sul fondo, intanto, altrettanti Guardsmen controllarono la triste fine della creatura. Ma di essa non si trovò traccia. Nemmeno l'ombra. Sembrava essere sparita nel nulla. Il Direttore Quinlan mi fece due volte la stessa domanda guardandomi fisso negli occhi.
E’ sicuro di avere visto qualcuno buttarsi dalla piattaforma senza paracadute? Quell'uomo dal fisico corpulento mi si avvicinò con fare minaccioso. La sua intenzione, con ogni probabilità, era quella di intimidirmi e di capire al contempo se gli stessi mentendo oppure no, se si trovava di fronte alla bravata di un millantatore oppure alla più pazzesca delle testimonianze.
Ne sono certo. Fu la mia risposta. Il comportamento tenuto dal Direttore Quinlan non ottenne i risultati sperati. Non mi scomposi e continuai a ripetere ossessivamente la mia tesi, ogniqualvolta mi fu richiesto. La mia fiducia, in ciò che gli occhi avevano visto e le mie orecchie avevano udito, era incrollabile.
Il fondo roccioso di quel settore del Satan’s Womb fu setacciato da cima a fondo per ventiquattro ore circa. Furono controllate anche le sporgenze laterali per evitare che la creatura potesse aver sfruttato chissà quale particolarità del suo vestito per deviare la traiettoria della caduta e scalare in seguito la parete. Tuttavia, con mio sommo rammarico, tali ricerche furono infruttuose. Della creatura non si riuscì a trovare traccia. Nel Direttore, e in molta parte degli Outcast, cominciò a diffondersi l'ipotesi che mi fossi sognato tutto e che avessi immaginato di vedere la creatura.
La stessa sorte era toccata a coloro che prima di me si erano imbattuti in una stessa sfuggente visione. Ma avevano evitato di raccontarlo. Solamente i membri del nostro gruppo sembravano darmi ragione e sforzarsi di credere alle mie parole. Persino io, a volte, dubitavo di ciò che i miei sensi mi avevano chiaramente mostrato. Eppure non potevo essermi sognato ogni cosa. Avevo percepito la creatura. Ne avevo udito il passaggio. L'avevo inseguita. L'avevo vista, anche se nascosta nel buio che circondava la rampa di paracadutismo. Quegli occhi di fuoco non avrei potuto dimenticarli per nessuna ragione al mondo. (Tratto da Satan's Womb/L'Utero di Satana).