Sonic Youth
Quando mi hanno fatto nascere, stavo dormendo.
Almeno, questo è quello che mi hanno sempre detto i miei genitori, imputando a questa fortuita coincidenza la mia difficoltà a prendere sonno.
Il mio è stato un parto programmato.
Per sicurezza, per comodità.
Credevano fossi morto.
Stavo dormendo.
Non posso parlare per me, per il me che ero, ma non credo di averla presa bene.
Da allora comunque, che è come dire da sempre, ho seri problemi ad addormentarmi.
A questo si aggiunge, conseguentemente, l’impossibilità di dormire per più di poche ore di seguito.
E poi mi chiedono perché sono sempre nervoso, perché ho la faccia stanca, le occhiaie, il colorito pallido.
Perché sembra che non dorma da anni.
Forse perché effettivamente non dormo da anni.
Il fatto di dormire in maniera frammentata mi ha portato a sviluppare un’ossessione: annotare sistematicamente l’orario segnato sulla mia sveglia digitale ogni volta che di notte apro gli occhi.
I numeri rossi, testimoni oggettivi, si ergono asettici riflettendosi sulla mia iride.
O almeno così immagino.
Sta di fatto che paiono tizzoni ardenti nel buio assoluto della mia camera.
3:33; 3:56,4:12,4:25 e così via.
Ne ho un quaderno pieno di cose così, apparenti codici, linguaggio cifrato o quant’altro, invece si tratta semplicemente di compulsioni notturne.
Il vecchio quaderno sdrucito che tengo sul comodino ha oramai tutte le pagine spiegazzate, piene dell’inchiostro rosso che dipinge le 4 cifre che di volta in volta compongono il codice d’accesso del risveglio, le parole magiche che richiamano la mia mente alla veglia.
1:35; 1:58; 2:16; 2:45 e così via.
Un aspetto inevitabile di questa intermittenza è che i sogni che faccio si interrompono di continuo, si mischiano gli uni agli altri, inglobano i tanti brevi momenti di veglia che segnano le mie notti, e mi insinuano il dubbio che quello che vivo e quello che sogno non siano poi così nettamente separati.
Tanto che molto spesso non so dire con certezza se alcuni avvenimenti siano accaduti realmente o li abbia solo sognati.
Che è quello che avviene in molte persone della terza età.
Notevole.
Fallimento nel test di realtà, lo chiamano alcuni.
Se mi ci sottoponessero, forse finirei rinchiuso.
È superfluo sottolineare come tutto ciò mi crei problemi nella vita di tutti i giorni, nella mia vita sociale.
Non posso dire di essere un recluso, un monatto o un isolato, però forse non si sbaglierebbe a dire che mi trovo molto bene da solo, nella mia stanza, i pugni che stringono le lenzuola, a fissare il soffitto.
È la cosa che faccio più spesso, nel corso della giornata, e, avendo giornate molto simili tra loro, per estensione, nella mia vita.
Fisso il soffitto, da quando non riesco più a dormire a pancia in giù, da quando i dolori alla schiena mi hanno impedito di privargli il contatto col materasso.
Il soffitto rappresenta per me un baluardo di sicurezza, di familiarità.
Nelle notti insonni, al buio assoluto, i miei sensi, ridotti a 3 (vista e gusto sono in libera uscita), si rafforzano,si acuiscono diventando ipersensibili.
E questo, ne sono convinto dopo notti e notti di esperienza in prima persona, non è un bene.
Stanotte una zanzara si è posata spavaldamente sul mio avambraccio sinistro.
Ne ho seguito tutto il percorso, ascoltando la sua manovra di avvicinamento, il ronzio in fade‐in, l’avvicinarsi minaccioso di ali che battono a velocità inimmaginabili per animali di stazza più grande.
Ne ho seguito la manovra di atterraggio, l’ok della torre di controllo ed ho potuto visualizzare la leggiadra seppur all’apparenza brusca traiettoria che il pilota ha deciso di imprimere al suo velivolo.
Ho immaginato il sospiro di sollievo dei passeggeri, perché c’è sempre un sospiro di sollievo da parte dei passeggeri, che non rappresenta sfiducia nei confronti del pilota, quanto l’atavica paura del volo, l’irrazionalità che sembra permeare l’idea che un oggetto possa librarsi in aria e portare con sé anche delle altre cose, degli altri esseri viventi.
Si è tentati di pensare che qualora qualche passeggero del velivolo smettesse di credere alla possibilità che questo possa accadere, l’aereo cadrebbe giù in picchiata.
Riusciamo così ad unire due poli opposti come la fisica e la fede.
Quando dormi poco, quando dormi veramente poco, non ti sorprendi più dei deliri in cui la tua mente vaga.
Deve trattarsi di una reazione psicologica ad una situazione fisiologica incongruente, un tentativo di cognitivizzare il tutto: il cervello viaggia da solo, sono le sue ore di intervallo, è il suo break, la pausa caffè: in quelle ore notturne, dove la coscienza dovrebbe essere a dormire, è lui a comandare.
E se ciò non avviene, beh, è sempre lui a comandare, solo che noi, invece che percepire vagamente cosa sta succedendo tramite quel guazzabuglio emotivo‐cognitivo‐ormonale che sono i sogni, lo viviamo in presa diretta, lucidi e coscienti.
Sogni lucidi, dicono alcuni.
Spettatore non pagante mi sembra più calzante.
Se riuscissimo ad inviare al nostro cervello degli impulsi precisi, raffinati, identici a quelli che riceviamo dal mondo esterno e che veicolano le emozioni ed i sentimenti, se ci riuscissimo, ed inviassimo questi impulsi artificiali al nostro cervello, potremo quindi vivere una simulazione così perfetta che il concetto stesso di virtuale scomparirebbe?
Io non sono qui.
Questo non sta succedendo.
Ma, detto questo,
che differenza c’è?
Come farebbe il nostro corpo a discernere la verità dalla menzogna?
Come farebbe il nostro corpo a decidere che cos’è la verità, che cos’è la menzogna?
Tutto quello che vedo, tutto quello che sento e provo, lo do per scontato.
Come può non essere vero?
Già.
Dicono tutti così.
Non c’è niente al di là di quello che proviamo di cui abbiamo esperienza, non abbiamo prove che quello che proviamo non va bene.
Le illusioni ottiche.
I primi tentativi di ingannare la percezione umana avrebbero dovuto suggerirci una realtà ben più complessa di quella che ci si para davanti agli occhi.
Come si può dare per scontato che tutto sia esattamente così come appare?
Purtroppo, siamo ingenui per definizione.
Per non rimarcare le infinite obiezioni al solo verbo essere.
“noi siamo”.
Io sono.
Io non sono.
Io non sono qui.
Questo non sta succedendo.
Ecco quello che mi è successo stanotte, cosi come l’ho trascritto sul mio quaderno delle insonnie.
Lo vedo come in un sogno, come se non potessi entrare nella conversazione che stiamo tenendo.
Rispondo in automatico alle sue frasi, è uno scambio di battute ed io mi sento il giudice di linea piuttosto che uno dei giocatori.
Sono intrappolato dentro me stesso, sono come il pilota di uno di quei robot giapponesi della mia infanzia.
Il robot è fuori controllo, è dotato di una coscienza propria, veniamo a sapere, non riesco più a fargli eseguire i movimenti che voglio.
Guardo R. sapendo che è questa è l’ultima volta che lo vedo.
Non riesco a dirglielo, non riesco ad avvertirlo.
Non partire.
Rimani qui.
Stai attento.
Stiamo per perdere tutto.
Sorride, ed io non riesco a dirgli che già mi manca, lo vedo e mi manca, mi stringe il braccio, mi guarda negli occhi e già mi manca.
Non sarà che tra diversi giorni che mi arriverà la telefonata.
Alza le spalle, tendendo quella logora maglietta dei Sonic Youth che è sempre stata troppo piccola per lui.
Chissà quante volte gli ho detto che probabilmente si trattava di un modello femminile, ma lui non faceva che ribattere con un ghigno che non era vero e che se anche fosse stato così per il prezzo che l’aveva pagata andava più che bene.
Quella maglietta è la stessa che indossava quel giorno.
Ho visto le foto della polizia stradale.
Uno schizzo di sangue copre, rendendo quasi illeggibile, la parola “youth”.
Macabra ironia del destino, vero?
Qualche pubblicitario senza scrupoli potrebbe usarla come campagna pubblicitaria per la sicurezza al volante.
“pubblicità progresso”.
Non ho nemmeno la forza di produrmi in un ghigno sarcastico.
R. è lì, ignaro di tutto, ed anch’io sono lì, e sembra che anch’io non possa immaginare cosa succederà, non ho controllo del mio corpo, non riesco contrarre la fronte, il muscolo corrugatore non risponde ai comandi, le leve che ho davanti agli occhi sono inceppate, il mostro è animato da vita propria.
Io non sono qui.
Questo non sta succedendo.
I segnali che arrivano al mio cervello sono artefatti.
Di alta qualità, molto realistici, ma pur sempre artefatti.
Quello che provo si sta manifestando nei confronti di un simulacro, non dell’oggetto delle mie emozioni.
Sono in una grande macchina simulatrice, ma non ne vedo l’uscita, non c’è un oblò sul mondo esterno.
In questo momento, questa simulazione è tutto il mio mondo.
Io sono in questa simulazione, e, sillogisticamente, io faccio parte di una simulazione.
Non riesco a trasmettere al mio amico angoscia, dispiacere, perdita, lutto, mutilazione, silenzio.
Niente di tutto ciò.
Anzi, sento che sto sorridendo.
Sento che il mio corpo sorride.
Rumorosamente.
Ottusamente.
Rido, ed anche R. ride con me, e penso che forse è così che lo voglio ricordare, vivo, sorridente, con la sua maglietta troppo stretta, con la scritta Sonic Youth immacolata, mentre si scherza, si ride e si è felici, perché si, forse allora non lo pensavo, la credevo una frase stupida, ma ero felice, così come non sarei più stato dopo, anche se c’è ancora tempo, e spero prima o poi di accumulare giorni che diano del filo da torcere a quelli in quanto a felicità.
Quando apro gli occhi sono le 4:24.