Splendido Iran
Sono appena rientrato da un viaggio in Iran . Sono uscito da un sogno, tra le pagine de “Le mille e una notte”, o sono riemerso da un incubo, da una sensazione di oppressione indicibile per noi occidentali ? Sogno ed incubo si alimentano ad una medesima fonte fantastica, che a volte cela la realtà.
Ad occhi chiusi, sul terrazzo di casa, in una fresca notte di agosto, mi riappare lo sguardo profondo, tigresco di Khomeini. La sua effige è stata il motivo conduttore del mio viaggio: un volto sciamanico, non affatto indulgente, a tratti tremendo. Lo scorgi dovunque tu vada: aeroporti, alberghi, uffici. Ti colpisce dai manifesti stradali, dagli schermi televisivi, dalla carta moneta che maneggi. L’Homa Hotel di Shiraz, un grattacielo di quaranta piani, gli dedica l’intera facciata, a metà condivisa con il suo successore Khamenei, attualmente al potere religioso. Sotto il ritratto , una scritta: “Obedience to Imam Khomeini” .
Attendendo la consegna della chiave nella vastissima hall, in stile occidentale, mi colpisce una scritta a grandi lettere dorate, che a mo’ di stendardo attraversa l’entrata: “Down with U.S.A.” (abbasso gli U.S.A.). Il cameriere mi ha appena servito una freddissima “PIPI”, una copia perfetta della Coca‐Cola. Mi invita in inglese a pagarlo in dollari!
Shara, la nostra guida, è un’iraniana di ventisette anni, longilinea sotto la veste nera, monacale. Il chador le incornicia il volto olivastro. I capelli sono pudicamente celati per legge islamica. Solo occhi e labbra scure, dense. Molte sue frasi riportano il termine”rivoluzione islamica”. Sicuramente è un’integralista, ma non lo confessa. Mi descrive a sera, sdraiata su di un rosso cuscino damascato, i bombardamenti missilistici su Theran da parte degli iracheni, con l’aiuto bellico americano :‐“ Catastrofi non annunziate, silenziose, quasi magiche. Nel turbinio di vita di una città di nove milioni di abitanti, la casualità di un missile cancella in pochi secondi alcuni edifici, lasciando cadaveri e feriti. Subito dopo o si continua a vivere come se nulla fosse accaduto o si cede al terrore e si diventa talpe in oscuri cunicoli.”
Shara sin dal mattino è attentissima all’abbigliamento delle donne del nostro gruppo: chador a coprire i capelli, vestito lungo sino ai piedi e,nei momenti religiosi, un soprabito scuro, offerto dai guardiani. Per due volte il nostro pulman è stato fermato: un attento passante aveva scorto attraverso i cristalli un ciuffo di chioma, il candore di un collo. La denunzia, l’intercettazione del mezzo, il salire a bordo di una poliziotta che ci imponeva un maggior riguardo alle leggi islamiche, altrimenti “ tutti alla stazione di polizia”.
L’Iran è un immenso deserto, posto su un vasto altopiano roccioso. Le verdi oasi sono le sue città. Si viaggia per ore tra camions monumentali, intrecciando sorpassi azzardati in assenza di un codice stradale. L’aria condizionata diviene ben presto insufficiente, dato anche la vetustà degli impianti. Il cristallo del finestrino è una griglia a raggi infrarossi. L’acqua riacquista una sua essenzialità per noi smarrita da tempo. Scende giù bollente,insapore ma necessaria.
L’Iran scolastico di Ciro e di Dario lo incontri a Pasagard, a Persepoli. Stupisci di fronte a stili che culturalmente non ti appartengono. Intrecci sulla polvere i tuoi passi con quelli dei Babilonesi, degli Assiri. Il tempo sembra contrarsi e prenderti in una morsa spazio‐temporale. Il tuo piede sale la scala che ha sentito la pressione del piede di Dario e Alessandro. E’ un momento di stupore psichico. Ti perdi nel sole rovente dei 45° in un vaneggiare di storia che non ricordi più. Una bevanda ghiacciatissima e carissima ti riporta alla realtà.
Le moschee sono esplosioni policrome. L’oro abbonda. Sembra che un computer impazzito abbia elaborato tutti gli intrecci possibili di linee e colori. Folla, vasta, indomabile; voci, suoni, urla, pianti, lamenti, sentori, afrori, profumi, aromi. Scarpe lasciate a mucchi all’entrata. Il piacere del piede su tappeti morbidissimi e di fine fattura. Un vecchio singhiozza all’entrata, altri sono prostrati in preghiera. Alcune donne si aggrappano urlando ad un sarcofago d’argento. Altri più in là, dormono stesi, incuranti.
Fuori nel folto giardino sacro, tre tombe. Fotografie di ragazzi. Sulla lapide è raffigurato un mitra. Sono i Pasdaran, autori di stragi in occidente. Qui sono eroi nazionali e santi. C’è calca per toccare, sfiorare la lapide.
I bazar sono densi di oggetti e di tipi umani: le razze sembrano chiamarsi ad un appuntamento. Azerbagiani, armeni, pachistani, mongoli. Mi sorprendono donne velate con il volto coperto da una mascherina nera a becco d’uccello. Scendiamo in una sala da thè: il clima è quello di un romanzo di avventure ottocentesco. Tappeti e cuscini morbidissimi, colorati narghilé dal fumo denso e profumato. Un flauto ritma un motivo irraggiungibile. Volti muti nella penombra di loculi scavati nella roccia. Un biondo thè ti ristora in cristalli finissimi. I pasticcini racchiudono datteri cremosi.
Bham, una cittadina sormontata da un forte. Sorge nel deserto, ed è costruita con mattoni cotti al sole. Tranne una corona di verdi palme, predomina il colore della sabbia su tutto. Le ringhiere di ferro sono intoccabili, sembrano incandescenti. Ad una inattesa fontana immergiamo teste e cappelli. Anche Shara ha caldo e si bagna il viso, scostando per un attimo il chador.
‐“ Shara hai capelli bellissimi, di un nero corvino”.‐ Mi sorprendo a dirle. La sento irritata. Solo adesso comprendo di aver infranto la sua intimità.
Ad Isfhaan, la sera dell’addio, nella piazza della Moschea dell’Iman, cara a Pasolini, la luna è di scena. L’oro delle cupole e dei minareti riflette una luce lattea sul prato antistante. Intere famiglie sono venute ad un bivacco notturno come nomadi del deserto. Cucinano sull’erba, mangiano sdraiati, discorrono animatamente. I bimbi si rincorrono. Un flauto emette note rauche.
Guardo questa gente vivere in un modo antico. Per un attimo dubito sulle mie certezze di occidentale.
Raineri Lucio Paolo ( da un viaggio dell’agosto 97)