Stalking

Non ci sono verità; c’è solo quel ricordo.
Era maggio, faceva caldo, c’era una panchina verde e una signora in fondo alla strada emetteva un gorgoglio di tacchino strozzato. Pisa aveva l’aria stanca forse perché l’ultimo treno della sera aveva sputato una miriade di piedi puzzolenti dal viaggio e i mendicanti di strada suonavano troppo. Marlene non scese dal treno quella sera e non chiamò.
Io rimasi seduto sulla panchina verde finché non fu silenzio, poi tornai a casa.
Era stato tanto tempo fa: il 27 marzo 1987 per la precisione; il mio pene aveva appena iniziato ad alzarsi ad ogni profumo in gonnella e brufoli orrendi marchiavano la mia adolescenza. Marlene mi baciò sotto casa e fuggì; so perché fuggì ma non capii mai perché mi baciò.
La rividi cinque anni dopo accovacciata ad un angolo di strada con una lattina di birra ai piedi, un lungo impermeabile sporco di catarro, sputo e piscio di gatto. Il suo odore mi nauseò, ma non glielo dissi né quella sera né mai. Le presi la mano con condiscendenza e subito avvertii che per lei fu sesso dei più intimi e accoglienti. Quel giorno Marlene si ossessionò di me.
Marlene, la donna che per prima avevo amato, diventò la mia ombra costante. Rincasavo ed era lì ad aspettarmi, al bar mi fissava dal tavolino vicino alla porta, arrivavo al lavoro e Marlene mi sorrideva dal marciapiede accanto. Io guardavo le sue borse piene di cibo, i cartoni del latte, i capelli mai pettinati e la pelle erosa dal tempo e dalla mancanza di cura.
Non mi parlò mai più di sé, non mi salutò, non mi fece domande e non mi sfiorò. La ricordavo bella, alta, magra, con il seno prospiciente, le cosce calde e l’ombelico perfetto, rotondo, scavato, i capelli mori lunghi lisci fino alle rotondità più ambite. Ora era gobba, rinsecchita, smunta, alghe al posto di capelli spenti. Non volli sapere cosa le era successo, perché si era ridotta così, ma la mia curiosità mi portava a fissarle il ventre incavato. Forse l’ho guardata con insistenza, forse le ho dato modo di sperare di tornare alla vita ordinaria: lavarsi, pettinarsi, sentire l’odore del cibo dal forno la domenica, grattarsi senza avere sguardi indiscreti addosso. Non aveva più una casa, né un affetto, di certo non lavorava la dolce Marlene. La sua occupazione principale ero io: Giacomo Stanzi, venditore di caldarroste in autunno, barista d’estate.
Il primo giorno in cui mi inseguì fino a casa sentivo sulle mie natiche indurite dal lavoro, il suo sguardo tagliente, mi sembrava di sentire l’impercettibile schiocco delle sue labbra, il respiro più fitto, il gorgoglio dello stomaco per la fame. Mi inseguì fino al portone e lì si rannicchiò fino l’indomani. All’alba strisciò dietro di me fino la mia baracca fumante e rimase in attesa di un mio cenno. Non le diedi mai un boccone, mai un po’ d’acqua; non per cattiveria, ma non ci pensai. Di giorno in giorno persi la mia libertà. Marlene solo Marlene.
Devo confessare che, quando una vecchia cliente, rugosa e senza denti, mi disse che gli assistenti sociali avrebbero ricoverato d’urgenza in un reparto psichiatrico il mio dolce primo amore, un po’ mi dispiacque. Quando sentivo la sua presenza, in mente mia, si presentava nitida l’idea dei suoi capezzoli rinsecchiti, come prugne in scatola. Forse a mio modo ho incoraggiato la piccola Marlene. Nei pressi della stazione aveva il suo nido. Non appena mi vedeva, montava su un treno fermo, poi scendeva come un’eroina e mi correva incontro e gridava Giacomo e io ero un uomo perfetto, amabile, desiderabile, anche se non ebbi mai il coraggio di porgerle nemmeno una caldarrosta.
Era maggio, faceva già caldo e le crisi psicotiche erano incoraggiate dal cambio di stagione. La presero, la chiusero in ospedale e gli psicofarmaci, forse, la fecero disinnamorare di me. Pisa diventò noiosa da quel giorno, dal momento in cui Marlene non scese più da un treno per corrermi incontro. Mi lasciò come un uomo qualunque, seduto su una panchina verde della stazione a pensare che io, invece, di ossessioni non ne ho avute mai.