Storia di sofferenza, d'amicizia, di solidarietá
Trovo che Viale Regina Margherita sia fra le strade più belle di Catania, con le sue ville patrizie, gli alberi che a primavera si addobbano di fiori coloratissimi, i giardini pubblici affollati di bambini festosi. Lo percorro non mancando di un lieve compiacimento, un po’ per la bellezza dei luoghi, un po’ per l’esplosione della primavera che qui è già estate, e per i suoi colori e i suoi odori che inducono gradevoli sensazioni, finché mi ritrovo a Piazza Santa Maria del Gesù, una bella piazza sulla quale si affaccia l’antico Ospedale Garibaldi, un grande edificio sobrio ed austero, quasi nascosto dalle chiome imponenti di alcuni ficus disposti ai lati di una fontana, perennemente sudicia e gravida di acqua stagnante di un brutto colore marrone e maleodorante. Ripenso al giorno lontano di quasi estate come oggi, quando attraversai quel grande portone di ingresso che dà sulla piazza, accompagnato dai miei genitori per curare una sinusite nasale. Era il 1956 ed ora tutto mi sembra come allora, come se il tempo non fosse mai passato: il rumore del traffico, l’urlo delle sirene delle ambulanze, il chiosco dove si vendono giornali ed il bar “Privitera” con i tavoli disposti sul marciapiede, persino un barbone di passaggio mi sembra come quelli che allora stazionavano d’abitudine davanti l’ospedale. Ricordo di essere stato adeguatamente preparato per restare a lungo. Da solo, perché i miei genitori non avevano la possibilità di soggiornare in città, ma venivano con l’autobus da Vittoria ogni domenica per restare l’intera giornata. In quell’ospedale vi trascorsi un mese, condividendo una grande stanza con altri sette bambini provenienti dai comuni più disparati. Ricordo che passato il momentaneo senso di smarrimento e di paura, la compagnia degli altri bambini stemperò la momentanea sensazione di abbandono. Fu il giorno successivo al mio ricovero a cambiare decisamente il corso di quella storia, allorché ebbe inizio la terapia. Da quel momento, quella che doveva essere una disgrazia si trasformò in un'autentica avventura. Di buon mattino, con il cielo ancora albeggiante, irruppero nella stanza due infermieri abbastanza corpulenti, almeno così apparvero a noi bambini, peraltro pallidi e piuttosto emaciati. Uno dei due spingeva un carrello sul quale poggiavano bacinelle, bottiglie, siringhe. Cose strane, insomma, che nessuno di noi aveva mai visto, ma delle quali l'infermiere ebbe modo di chiarire subito servivano per le iniezioni. Ebbe inizio un subbuglio, alcuni scoppiarono a piangere, altri tentarono di scappare cercando di guadagnare la porta. Nessuno di noi , prima di allora, aveva mai fatto un'iniezione e ciò spiegava la reazione disperata, ma gli infermieri fulmineamente ci presero in braccio due alla volta rimettendoci a letto. A loro modo cercarono di rassicurarci, ma l'impresa sembrava impossibile, le grida di alcuni diventarono isteriche, il più piccolo gridava disperato: "Mi spagnu, mi spagnu!". Ad un certo punto uno degli infermieri puntò il dito verso di me. "Vedete questo bambino, lui non piange e la puntura la fa, non è una femminuccia!" ‐ disse ‐ "Guardate com’è coraggioso!". Ma non era vero niente, io mi sentivo paralizzato, e avevo il nodo in gola e gli occhi quasi umidi e tremavo per la paura. L'infermiere fu rapido ad abbassarmi i pantaloni del pigiama e fulmineo nel pungere. Non sentii nulla, nemmeno un pizzico e rimasi così fermo tutto tremante in attesa, come un Cristo sulla croce aspetta la punta della lancia romana. "Fatto, hai visto, non ti ho fatto male!". Mi alzai dal letto senza avvertire nulla, mentre tutto intorno era un concerto di strilli, un vociare accanito e un dimenamento che alla fine cominciò ad innervosire gli infermieri. Appurato che in fondo l'iniezione non era un fatto così drammatico e malgrado un piccolo dolore che avvertivo lungo la gamba, presi a tranquillizzare i bambini più riottosi, così alla fine la puntura la fecero tutti. Gli infermieri si spesero in grandi elogi nei miei confronti apostrofandomi come un bambino forte e coraggioso. Presto cominciammo a socializzare e, mio malgrado, divenni un punto di riferimento per tutti, anche per gli infermieri, i quali all'occorrenza mi chiamavano per accompagnare qualche bambino a fare la terapia con l'aerosol, che non era la macchinetta che oggi abbiamo in casa. Capitò persino che qualcuno per andare in bagno mi chiedesse il permesso. Fu così che cominciai a prendere coscienza di potere esercitare un ruolo e provavo, pensandoci, un che di soddisfazione, tanto che alla domenica successiva, quando arrivarono molto preoccupati i miei genitori, persino li rassicurai dicendo loro che in fondo io là ci stavo bene. Quando chiesi ad uno dei bambini perché si ostinasse a chiedermi il permesso per andare in bagno, mi rispose candidamente: "perché tu sei il capo!". Dunque ero un capo riconosciuto e questo riconoscimento era condiviso spontaneamente da tutti gli altri bambini, cosa che mi convinse di avere delle responsabilità nei loro confronti. Ma c'era dell'altro, provavo un sottile sentimento di compiacimento nel sentirmi di una qualche utilità nei confronti degli altri bambini e che insieme potevamo persino osare. Fu così che arrivata la sera, dopo avere ascoltato la preghiera recitata dalle suore e divorata la cena, ci organizzammo per uscire dall'ospedale e fare una passeggiata, per sentire i brividi di una riconquistata libertà, anche se per una manciata di minuti. Attendemmo che le suore di ritirassero e che gli infermieri si chiudessero nella guardiola in fondo al corridoio a giocare a scopa dopo avere spento le luci, guadagnammo quatti quatti la porta che si apriva sulle scale e in un attimo ci ritrovammo nel cortile, dopodiché, attraversato l'atrio, ci ritrovammo in Piazza Santa Maria di Gesù. Fuori era vita, le luci, il traffico,la gente. Improvvisamente scoppiammo a ridere, quasi non ci veniva di smettere, ci sbellicammo dalle risate. Ad un certo punto, percorsi un centinaio di metri, avvertii che poteva essere pericoloso, mi fermai e dissi che dovevamo tornare indietro. Rientrammo a malincuore, ma con la consapevolezza che avevamo compiuto un'impresa, sentivamo il cuore scoppiare, palpavamo l'emozione. La notte non fu come le precedenti, ogni tanto qualcuno scoppiava a ridere e tutti gli altri a seguire finché non cominciò ad albeggiare. Quando arrivarono gli infermieri per l'iniezione, uno di loro percepì che l'aria s'era fatta frizzante, cominciò a fare domande, per un attimo ho avuto paura pensando che qualcuno raccontasse cos'era successo la sera prima, ma non accadde e ognuno mantenne il segreto. Si era creato un clima di forte solidarietà ed empatia. La paura era scomparsa perché sapevamo di potere contare l’uno sull’altro, ci si confidava tutto, ci si riprometteva che nessuno sarebbe rimasto da solo. La solidarietà è un sentimento di fratellanza, cresce con la sofferenza, quando la paura ci assale e ci sentiamo soli e incapaci di affrontare la vita, cementa l’amicizia, crea fiducia nei confronti degli altri, fa la differenza tra l’essere primordiale governato dagli istinti e l’uomo governato dalla cultura, l’uomo che tutto si spiega, l’uomo che ama conoscere, l’uomo capace di costruire il proprio futuro. Ignazio, Roberto, Giacomo, Giovanni, Sebastiano, Franco, Salvatore, non ricordo più i vostri cognomi per potervi cercare su facebook, ma conservo nel cuore il ricordo dei vostri volti, sento ancora le vostre voci e l’abbraccio forte dell’ultimo giorno in cui siamo stati insieme, se vi ritrovate in questo racconto datemi un segno che ci siete ancora.