Stories from Palestine - Il nuovo "martire" di Burqa

 Ahmad Hikmat Saif aveva soltanto ventitré anni: è morto il nove marzo scorso nell'ospedale An ‐ Najah di Nablus, Palestina occupata, dove era stato condotto in gravissime condizioni per ferite di arma da fuoco alla colonna vertebrale, al polmone destro, nella coscia e nella gamba sinistra. Era nato nel villaggio di Burqa, situato a poca distanza dalla stessa Nablus dov'era stato colpito mortalmente. Ora è un nuovo martire di Palestina, immolatosi in nome di una causa che definire eterna è quasi eufemismo; nel nome di un popolo continuamente vessato da oltre sette decenni. Adesso anche lui è un martire del villaggio di Burqa, il quale in nome di tale causa ha pagato altissimo tributo di sangue: è il primo di questo 2022 (oltre ad Ahmad, tuttavia, in tutta Palestina sono state sette le vittime, soltanto a marzo: Abdul Kahman Qassim, Karim Qawasmi, Ammar Abu Afifah e Abdullah Al‐Hosari, tutti di ventidue anni; il tredicenne Mohammed Shehada, il quindicenne Yamin Jaffal e il diciottenne Shadi Najim) e non sarà di certo l'ultimo perché quel villaggio è votato alla morte, è segno del destino che l'ha contraddistinto sin dalla prima Intifada palestinese, quella del 1987 che tutti chiamarono "Intifada delle pietre" visto che quelle fossero l'unica arma che i Palestinesi potevano opporre ai carri armati israeliani e perché nacque in modo del tutto spontaneo, dal basso: prendendo di sorpresa gli stessi vertici di Fatah e della OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) guidata allora da Yasser Arafat. E' segno del destino che questo piccolo villaggio, posto nella parte settentrionale del West ‐ Bank (territori di Cisgiordania occupata, nella dicitura non anglofona) debba votarsi al martirio attraverso molti dei suoi abitanti: è peculiarità che contraddistingue chi lotta e la lotta, in terra di Palestina, sovente e volentieri è sinonimo di sangue e morte, appunto. Su israelpalestinetimeline.org è scritto: "I soldati hanno sparato ad Ahmad con tre proiettili veri al petto e all'addome durante una protesta scoppiata una settimana addietro quando l'esercito ha invaso il villaggio ed ha attaccato dozzine di palestinesi che manifestavano in solidarietà verso i prigionieri politici detenuti da Israele e che subiscono continue violazioni dei loro diritti". E' da dire come, oramai, quella di sparare proiettili veri piuttosto che di gomma, sia una prassi consolidatissima nei territori occupati; altresì è da dire come i detenuti politici attualmente rinchiusi nelle carceri israeliane siano tantissimi, di ogni età e sesso: molte, infatti, anche le donne ed i minori (cifre pubblicate lo scorso settembre dalla emittente AlJazeera, le quali riprendono fonti della organizzazione umanitaria Addameer, parlavano chiaro: quattromilaseicento prigionieri in totale, di cui duecento giovanissimi e minori, quaranta donne e ben cinquecento in detenzione amministrativa, ovvero imprigionati in modo del tutto arbitrario senza processo e prove a carico).  Le carceri, in Israele, bisogna infine sottolineare, che non godano affatto la nomea di essere dei luoghi di villeggiatura o delle residenze turistico ‐ alberghiere "pentastellate", tutt'altro: sono esse, invece (anche per colpa, invero, dei carcerieri stessi i quali sono ‐ in massima parte ‐ persone arruolate nell'esercito piuttosto che civili), tra le più dure esistenti al mondo, insieme a quelle iraniane, egiziane e turche, probabilmente. A proposito di Burqa, nel dicembre scorso, quando si erano avute altre proteste, Bassam Saleh aveva scritto: ‐ Oggi questo piccolo villaggio rappresenta la resistenza popolare palestinese, insieme a quelli di Betna, Kufrkaddum, Neelin, Belin, etc. (np. ma anche a quello di Al ‐ Masara, posto nei pressi di Betlemme, alcuni anni orsono noto per i "venerdì di protesta" nel corso dei quali gente del luogo e dei villaggi limitrofi, insieme a quella arrivata da più lontano, scendeva in strada per protestare contro il muro di divisione; a quello di Beita, sito nel distretto di Hebron, a sud, di fianco alle alture dei monti Sabih, dove operano da quasi un anno i "guardiani delle montagne", gruppi di persone, per lo più giovani, che si battono come meglio sia possibile contro le incursioni armate dei coloni e dell'esercito che va appoggiandoli. Il villaggio ha donato alla causa palestinese nove uomini nel corso dell'anno passato; a quello di Budrus, situato una trentina di chilometri a nord ‐ ovest di Ramallah, la quale fu in passato ‐ a volta sua ‐ il sancta sanctorum ed esilio dorato di Yasser Arafat e la quale molti considerano essere la capitale morale di Palestina: esso balzò agli onori della ribalta come simbolo di coraggio e lotta popolare, nel duemilatre quando l'attivista arabo ‐ palestinese Ayed Morrar riuscì ad unire le opposte fazioni di Hamas e Fatah, oltre a centinaia di civili israeliani, nelle proteste contro la barriera di separazione tra Israele e Palestina eretta dal governo israeliano. Tutto fu poi immortalato in un noto film ‐ documentario, intitolato "Budrus" e presentato alla mostra del Cinema di Berlino del duemiladieci, della regista brasiliana Julia Bacha; a molti altri piccoli villaggi che sono la linfa vitale della ex Palestina "libera" come lo erano ‐ in fondo ‐ prima ancora che fosse instaurato il mandato britannico nei territori della Palestina storica e molto prima della nascita dello stato di Israele). Il villaggio, al pari di ogni altro villaggio vicino, è sotto costante minaccia di ingiustificati attacchi  (np. appunto) di coloni estremisti (np. in inglese vengono chiamati "settlers", termine derivante dalla parola settlement la quale significa colonia, distretto, colonizzazione), generalmente appoggiati dall'esercito (np. meglio sarebbe usare le parole "quasi sempre" o "in massima parte", visto che l'esercito israeliano si rende del tutto complice dei coloni stessi e delle loro violente incursioni e malefatte, col placet molto più che supposto e nemmeno tanto silenzioso delle autorità centrali, in più del 90% delle occasioni: nonostante ciò gran parte della corrente opinione pubblica ‐ anche in Italia ‐ si ostina ancora a identificarlo, non so se facendolo in buona fede oppure del tutto ‐ e colpevolmente ‐ consapevole, con "forze armate di difesa" o IDF mentre ‐ in realtà ‐ esse lo sono soprattutto di "occupazione"!). A Silat  Al Dhahr i coloni hanno attaccato gli abitanti e le loro case ditruggendo ovunque e cercando di incendiarle. Un gruppo della Resistenza ha reagito, una settimana fa, sparando contro una macchina uccidendo così un colono e ferendone un'altro. Ciò dimostra che la protesta è più forte del piano di annessione e del governo di estrema destra, presieduto da Naftali Bennett. A Burqa esiste una colonia che si chiama Homesh, già evacuata nel duemilacinque. Nel duemilanove i coloni hanno istituito una scuola religiosa al posto della colonia e da questa scuola partono gli attacchi dei coloni di cui si è detto con aiuto e complicità dell'esercito. Burqa fa parte della storia della resistenza palestinese, nell'Intifada del 1987 si autoproclamò Repubblica libera di Burqa perché l'esercito non poté sottometerla nonostante molti morti e feriti. A Burqa, oggi tornata in prima fila, c'é tutta la Palestina. Un corrispondente scrive: "C'é chi da fuoco a pneumatici e ruote di gomma di auto e camion, vi è chi erige lo "strappo" di sassi nelle strade. C'é chi incita, invece, alla resistenza dai tetti delle case, altri distribuiscono cipolle al pubblico (per sopportare i lacrimogeni). Questa è l'atmosfera dell'Intifada, il suo profumo, il suo colore". Esce il primo comunicato: "Le famiglie stanno tutte bene. Le persone stanno bene, non saranno spezzate, non arretreranno di un passo. Battaglia in Burqa, la dignità e il fuoco sono in Burqa come se tutta la Palestina fosse la. Giovani vengono da ogni dove: Jenin, Jabaa, Araba, Yabad, campo di Jenin, Silat Al Dhahr, al Fandakoumieh, al Atara, Anza, al Zawiya, al Assa, Sanur, Mithloun, al Yamoun, Tulkarm, Noor al ‐ Shams, campo di Tulkarm, Anabta, Beit Lid, Ramin, Bala'a, Kafr Rumman, Nablus, Deir Sharaf, Iginesinia, Zawata, Tell, Surra. Tutta la Palestina è quì. Fuochi nei cuori delle persone, basta un fiammifero per accendersi. Mahmoud al ‐ Aloul, numero due di Fatah, grida: "Resisteremo fino al martirio". ‐ Un dipinto molto bello, ‐ scrive ancora Saleh nel suo racconto ‐ cronaca dei fatti,  ‐ venite a Burqa, venite alla bellezza. Salviamo Burqa! ‐. Il racconto ci dice quanto succedeva a dicembre passato, alcuni mesi orsono soltanto: le cose, però, non sono affatto cambiate, adesso; non cambieranno mai, a Burqa, forse (incursioni dei coloni, spari dei soldati, proteste e reazione della resistenza del villaggio). Il villaggio, da qualche giorno, ha un'altro (nuovo) "martire" che si chiama Ahmad. In realtà, tuttavia, non importa il suo nome ma quello che rappresenta; egli, cioé, avrebbe potuto chiamarsi Rafeef o Hisham, Bashir oppure Yousef, Amir, Mohammed, Nadim, Shady, Ahmed. Quel che importa, sopra ogni cosa, è che ve ne sia sempre uno nuovo, pronto a rimpiazzare quello precedente. Da queste parti, in fondo, non conta il giorno né il mese dell'anno, importa poco pure se sia inverno oppure estate, se faccia freddo o caldo: quel che importa è che vi sia sempre un nuovo martire perché è il solo, unico modo per andar avanti e resistere! 
(fonti: If Americans Knew & contropiano.org, giornale comunista online).

Taranto, 10 marzo 2022.