Strada
Ho intrapreso un viaggio e non me ne pento, perchè un viaggio è come un libro: un impiego di tempo che viene ripagato con l'esperienza.
Nel bagaglio a mano ho un maglione marrone, una maglia di pile verde, delle magliette a maniche lunghe, una calzamaia, un cappello, una sciarpa, un quaderno, una penna, una mappa di Amsterdam centro e un beauty case. Nelle tasche dei jeans ho i miei documenti, 300 euro in contanti, un pacchetto di Winston blue e un accendino.
Ho cambiato la prima banconota da 50 euro acquistando il biglietto per la linea 2, il treno che passa a Central Station. Benchè fossero quasi le 12 e non avevo toccato cibo dalla sera del giorno prima, la vista di olandesi distratti a mangiare panini dolci all'uvetta mi stomacava, anzichè stimolarmi l'appetito.
Decisi di bermi una spremuta d'arancia per prendere energie, perciò mi fermai nel primo coffee shop che vidi, infrattato in una stretta vietta che si diramava dalla Damrak e univa quest'ultima alla sua parallela interna, la Nieuwendijk.
Il locale non aveva insegna, solo la scritta "coffee shop" verde spento sopra la porta d'ingresso.
Dentro era buio, la luce filtrava pochissimo dalla vietta ombreggiata dai palazzi. Tuttavia l'atmosfera era giusta, i miei occhi si erano stancati dell'intenso bagliore del mezzogiorno. Ordinai un'aranciata, un grammo di erba e mezzo di hashish ad un ragazzo di colore che non parlava volentieri, pagai 17 euro e mi addentrai nel locale fino a raggiungere l'angolo più buio e isolato, dal quale, tuttavia, l'ambiente sembrava leggermente meno scuro.
La poca clientela era costituita per lo più da gente del posto, pochi turisti si intravedevano dalle finestre dell'ingresso proseguire noncuranti dell'insegna verso i negozi della Nieuwendijk.
Girai una canna di erba (NewYork Diesel) aspettando che l'aranciata, ghiacciata, raggiungesse una temperatura più alta. Sorseggiavo dalla cannuccia e fumavo avidamente, con la testa già annebbiata dal fumo, pesante eppure molto vuota. Non si affollavano pensieri nella mia testa, mi limitavo a guardarmi intorno, a scrutare le facce delle persone (la faccia del negro al bancone era imperscrutabile, una parete di piombo attraverso la quale nemmeno Superman avrebbe visto un cazzo).
Ad un certo punto, mentre mi apprestavo a scaldare l'hashish di bassa qualità, una ragazza attraverò a fatica l'angusta porticina d'ingresso portando con sè una valigia quasi più grossa di lei.
Aveva dei pantaloni bianchi che le aderivano perfettamente alle gambe lunghe, il busto appariva più tozzo e meno slanciato, appesantito dai maglioni e dal cappotto, ma lasciava intravedere un seno prosperoso.
I suoi capelli erano scuri, neri come la pece e belli e lunghi, le conferivano quel fascino che solo le more hanno. Da amante delle donne, alte e basse, rimango sempre colpito dall'aria angelica e dolce che le bionde trasmettono, ma le more, dio, loro sono come diavoli tentatori, passionali e sensuali, irresistibili e così ingannevoli.
Ammirai le sue linee che con l'immaginazione affioravano da sotto i vestiti invernali e seguii i suoi movimenti con uno sguardo timido, facendo bene attenzione a guardare prontamente da un'altra parte qualora necessario.
Ordinò un cappuccino e venne dritto verso di me, verso il mio angolo buio e desolato, dal quale si vedeva tutto più chiaro. Nel fondo del locale, accanto alla porta del ripostiglio, c'era spazio per due tavolini, due sgabelli per ogni tavolo e un lungo divanetto che seguiva il perimetro della parete e faceva da ponte tra i due tavolini.
Io occupavo il tavolino di destra, la mora quello di sinistra. Ci fu un veloce scambio di sguardi seguito da un sorriso dolce e spavaldo di lei (deve sapere di essere bella, non c'è alcun dubbio) e, in risposta, un mio timido cenno con la testa.
Volevo parlarle, così con una scusa mi lanciai: "Ciao, avresti una cartina da darmi? Devo aver perduto le mie" mentii.
Lei mi sorrise di nuovo, un sorriso quasi studiato, imparato a memoria e ripetuto allo specchio milioni di volte. Un sorriso fiero di una donna consapevole delle proprie forme e degli uomini.
"Tieni". Mi porse una cartina e subito continuò: "Come si capisce che sei nuovo.. Qui le cartine sono gratis, le puoi prendere al bancone".
Lo sapevo bene come funzionava, ma ero certo che lei sapesse benissimo che la storia della cartina era solo una scusa. Abbozzai timidamente un sorriso.
"Sono un turista, ho ancora con me la valigia. Piuttosto, vedo che ne hai una anche tu.." e il mio sguardo scivolò a terra, dove un grosso trolley blu notte era posato accanto a lei.
Mi rispose che era appena rientrata da un viaggio in Francia, che era nata ad Atene e che viveva ad Amsterdam da quasi tre anni.
Perdemmo una buona mezzora a fumare e chiacchierare; io tentavo di essere il più eloquente possibile e lei era molto comprensiva nei confronti del mio inglese improvvisato.
"Sai già dove passare la notte?" chiese.
"Pensavo di andare verso l'Amstel, di lì potrò percorrere il canale dirigendomi in periferia. Sono sicuro che troverò qualche pensione o hostello a basso costo".
Mi guardò con aria soddisfatta, come se stesse aspettando proprio quella risposta, poi rispose: "Perchè non scendiamo insieme fino a piazza Dam, mangiamo qualcosa e poi ci dividiamo?".
Accettai.
"Come ti chiami?" chiesi appena uscimmo dal coffee shop. "Aurora".
Mangiammo in un ristorante di carne argentina dietro il Palazzo reale De Dam, a pochi metri di distanza dal Magna Plaza, sulla sinistra, e ancora più vicini al museo delle cere, sulla destra. Ci demmo appuntamento per il giorno seguente, stesso ristorante, 12.30.
Non mi restava altro da fare se non andare in cerca di qualche ostello economico e, mentre camminavo trainando la valigia dietro di me, cominciai a pensare all'incredibile incontro.
Stavo passeggiando a testa alta, fiero, mi sentivo uomo come non mai.
Raggiunto l'Amstel percorsi la riva est verso sud, dopo non molto trovai un bed&breakfast adatto a me.
Pagai per tre notti, 90 euro totali, tasse comprese, colazioni comprese, bevande calde ad ogni ora comprese. Mi sistemai in una stanzetta al terzo piano, letto ad una piazza e mezzo sistemato di fronte ad una grossa finestra bianca, vista sul fiume Amstel.
Il materasso era duro al punto giusto e, con una canna di erba in bocca, mi stesi pensando ad Aurora.
Strano nome per una greca.
Mi svegliai dopo un ora e mezzo, le palpebre pesanti avevano bisogno di una rinfrescata per aprirsi del tutto. Andai in bagno, cagai, feci una doccia e per tutto il tempo pensai a quella bellissima ragazza mora, dalle gambe lunghe e il sorriso trascinante.
Quel pensiero dolce mi attraversò l'anima e mentre mi chiedevo se fossi diventato vittima dell'amore a prima vista, decisi di andare a sfogare le mie passioni e frustrazioni al quartiere a luci rosse.
Eccolo lì, il Red Light District.
Dovevano essere le dieci di sera e io mi trovavo di fronte al Hash, Marijuana&Hemp Museum.
Il canale (Oudezijds Achterburgwal) era affollato su entrambi i lati.
Le vetrine e i locali coloravano di rosso la notte che cresceva sempre di più, mentre l'interno di ogni vetrina, occupato da una o due belle signorine in biancheria intima, si discostava dall'intensità del colore rosso per sfumare sempre più verso un viola pallido.
Le ragazze fumavano, parlavano al cellulare, lanciavano occhiolini maliziosi ai passanti arrapati e divertiti al tempo stesso, mentre io, che distrattamente passeggiavo volgendo lo sguardo quà e là, presi una banconota da 50 euro ed entrai, senza pensarci troppo, a far visita ad una signorina a caso.
La prima carina e dagli occhi simpatici che ho trovato. La prima mora carina e simpatica che ho trovato.
Tornando verso il mio Bed&breakfast mi fermai in un ristorante italiano gestito da una famiglia che, però, non parlava italiano. Ordinai mezzo litro di Heineken, due braciole con accanto una patata al cartoccio. Bevvi la birra, mangiai mezza patata, ordinai un altro mezzo litro (di Amstel, per cambiare) e iniziai a mangiare le braciole.
Ero stanco e soddisfatto della mia giornata, decisi di andare a riposare e il litro di birra mi provocò una piacevole sensazione di leggerezza e incertezza nelle gambe. Avrei dormito bene quella notte, mi sarei svegliato la mattina presto e sarei andato a cercare lavoro, per poi presentarmi all'appuntamento con Aurora.
Sono passati dodici giorni dal mio arrivo in città.
Il lavoro lo trovai già il terzo giorno, da "Mike bike – rent a bike!". Il gestore del negozio, un olandese di nome Vincent, era un biondino simpatico che non aveva più di quaranta anni.
Il mio lavoro era semplice: Vincent mi passava i numeri delle biciclette che dovevo prendere, io le prendevo nel retro del negozio e le portavo vicino al bancone. Provavo davanti ai clienti che la ruota girasse senza intoppi, che la catena fosse ben oleata e, in fine, che i freni fossero sicuri.
Raramente capitava qualche problema; in quei casi Vincent mi mandava a prendere un altra bicicletta. Io non riparavo un bel niente, anche perchè non ne ero capace.
Il negozio si trovava nel punto in cui il Singelgracht si incontra con il Jacob Van Lennepkanaal, non distante da Leidseplein. Avevo il vantaggio di poter utilizzare una bicicletta del negozio, gratis ovviamente, e potevo portarmela a casa quando finivo di lavorare.
"Mike bike" pagava abbastanza e comunque il bed&breakfast era troppo costoso, perciò andai in un appartamentino al quarto piano sull'Overtoom, quasi alla fine di Vondel Park.
Ero piuttosto lontano dal centro, ma a lavoro arrivavo in pochi minuti.
Quasi ogni sera vedevo Aurora, io e lei cenavamo insieme (le prime volte al ristorante, successivamente a casa sua o a casa mia) ci ubriacavamo, facendo l'amore, fumando, passeggiavamo di notte tra i canali, ci ubriacavamo di nuovo cantando per le stradine di periferia, poi rifacendo l'amore, a casa o nascosti dai cespugli nei parchi.
Quando ero con lei non sentivo freddo, non provavo paure di alcun genere, la vita pesava poco e soprattutto mi emozionavo all'idea che lei provasse lo stesso. Ma non avevamo mai parlato di sentimenti, certo non dopo così poco tempo: sapevo davvero poco di lei, spesso quello che mi diceva non mi convinceva del tutto, come se volesse cancellare una parte del suo passato (o semplicemente nasconderla a me) e, per tutta risposta, lei sapeva ancor meno di me, che non ho mai amato parlare sul serio.
Tuttavia, poco importava a me, che stavo come non ero mai stato prima: indipendente, libero e in compagnia.
Non ci addormentavamo mai insieme per risvegliarci al mattino e fare colazione prima di andare a lavoro: ogni volta che ci incontravamo, anche se facevamo tardi, lei insisteva per tornare a casa.
Diceva che era una questione di abitudine, che sennò non sarebbe riuscita ad andare a lavoro.
Che lavoro facesse non me lo spiegò, o meglio, non avevo capito bene, ma credevo si trattasse di una specie di impiego in un ufficio, probabilmente come segretaria.
Aveva una bellissima presenza, non mi stupiva l'idea che qualche notaio la volesse accanto come segretaria personale; sembrava una ragazza molto sveglia e intraprendente, sapeva giocare bene le sue carte.
Il suo viso era spesso segnato dalle occhiaie, probabilmente non aveva un lavoro rilassante, pensai, guardando le borse pesanti sul quel viso così dolce.
Mi trovavo bene con lei e ci continuammo a frequentare al punto che mi fece conoscere alcuni suoi amici: per lo più gente bizzarra, le sue amiche erano sempre ubriache o fatte, amavano scherzare molto con gli uomini; mi presentò due amici, una specie di hippy russo, il cui nome non saprei scrivere, e un ragazzo moldavo apparentemente scortese e riservato.
All'inizio credetti che fossi io il motivo della sua insoddisfazione, poi Aurora mi spiegò (e lo notai da me) che lui era così un po' con tutti.
Ad ogni modo, non strinsi amicizia con loro, perchè le occasioni non furono molte, tre o quattro.
Infatti era passato un mese e io, che iniziavo ad avere la mia vita monotona e felice ad Amsterdam, stavo per lasciare quella città.
Un mercoledì freddo di inizio dicembre, verso mezzogiorno, chiesi a Vincent il permesso di staccare prima dal lavoro. Inventai una scusa non troppo assurda, limitandomi a chiedere il pomeriggio libero per fare delle commissioni.
Non c'era molto lavoro quei giorni, caratterizzati da maltempo e freddo, un freddo insolito e penetrante fino alle cavità delle ossa.
Non avevo commissioni da fare, solo la voglia di mangiare qualcosa di caldo e poi, magari, passare un oretta a fumare in qualche locale poco affollato.
Erano circa le quattro del pomeriggio quando, ben sazio e riscaldato, pronto per affrontare il gelo, uscii nel pomeriggio grigio, guardandomi intorno e vedendo solo grossi ammassi di maglioni sciarpe e cappotti che si muovevano frettolosamente con andamenti più o meno goffi.
Avevo passato del tempo a fumare hashish al Baba, in Warmoesstraat, e, invece di scendere verso Leidseplein, mi addentrai nel RLD.
Non avevo intenzione di far visita a quelle graziose signorine, semplicemente volevo allungare un po' la mia passeggiata.
Senza alcuna intenzione mi divertivo a guardare le prostitute che mi stuzzicavano con ammiccamenti vari, ma i miei appetiti erano più che soddisfatti.
Molte vetrine erano vuote, solo quella soffice luce viola e opaca faceva finta di riempirle. Le ragazze che fanno il turno di sera sono decisamente più numerose, così come più numerosi sono i passanti. A quell'ora, invece, c'era poco movimento e le ragazze erano visibilmente stanche, in attesa di farsi dare il cambio.
Il cuore mi balzò in gola e lo stomaco si strinse in una morsa contorta, si attorcigliava e piano piano rimpiccioliva. Per una frazione di secondo riuscii a sentire il sangue scorrere sù dalle dita delle mani, freddo ma indeciso, e, senza sapere come prenderla, rimasi stupito alla vista di Aurora.
Mi affrettai a raggiungere l'ingresso di un locale di striptease e sesso dal vivo. L'insegna gialla disegnava una banana e il nome del posto, in corsivo, Bananabar.
Aurora era lì, impassibile, senza vergogna, sopra una specie di marines palestrato e tatuato che glie lo infilava sù per la figa, in bella vista, quel dono così prezioso! La bocca era in procinto di leccare una banana e, ritratta nell'attimo prima dell'atto, formava un sorriso spavaldo sul volto... quel suo sorriso caratteristico e dolce, seducente, da proteggere. Qualcosa che non si è in grado di descrivere.
La locandina parlava chiaro: lei lavorava lì.