Tango
Lo zoppo era grasso e agile. Trascinava quel che era rimasto della sua gamba, con un movimento del corpo perfettamente sincronizzato. Per questo l’avevano soprannominato Tango.
A dirla tutta, non era esattamente il passo di un tango a ricordare la menomazione, ma, si sa, in un piccolo paese di montagna di mille abitanti, l’immaginazione si ferma all’interno della valle circondata dalle cime, innevate per buona parte dell’anno.
Così che quando nacque, Tango doveva averlo avuto un nome, ma, gli durò troppo poco per essere memorizzato dalla collettività. Già che a nascere ed essere abbandonati fuori di un convento dentro a una cesta, non è il massimo della fortuna, le suore gli avevano tuttavia permesso l’accesso ufficiale a questa vita terrena. Le prime e uniche mani femminili ad accarezzargli il corpo, furono le loro. L’unico profumo della pelle di una donna, miscelato all’odore di minestrone, restò nella memoria olfattiva, legato a loro: alle suore.
Nei giorni seguenti fu affidato all’orfanotrofio e altre consorelle si presero cura di lui.
Gli odori, le percezioni olfattive, imbrigliate in quel piccolo mondo che esalava aromi confusi. Pietanze e acqua santa, una tantum, il profumo del sapone.
L’unico viaggio in macchina Tango lo fece a quattro anni, dentro all’ambulanza che a sirene spiegate l’aveva portato al nosocomio del capoluogo più vicino, in una tarda mattinata di diciotto anni addietro.
L’ortolano che si curava delle piccole coltivazioni dell’orfanotrofio, manovrando il trattore non si avvide del piccolo sgusciato dal refettorio.
E anche in quella occasione Tango, Felice all’anagrafe, dovette ringraziare il suo santo protettore.
San Felice era caduto per puro caso nel calendario un gelido 14 gennaio, giorno in cui fu trovato.
In fondo, per come era iniziata la sua vicenda terrena, non si poteva del tutto definirla una propria e vera “sfiga”.
‐ La gamba maciullata non è stata amputata.
‐ Vedi che Gesù ti ha tenuto stretto al suo cuore?
Alla fine, anche il più scettico e ostinato degli atei, si convincerebbe.
Tango non ebbe negli anni seguenti molte opportunità per farsi una propria idea personale relativamente alla fede, né di lasciarsi cullare la mente dalla fantasia. Meno che meno di oltrepassare la soglia di un’istruzione primaria.
Effigi di santi, madonne e crocifissi stigmatizzarono il suo immaginario anche quando, negli anni della pubertà certi riflessi involontari del suo basso ventre lo lasciavano attonito.
Poi ci si abituò, come un cane maschio, quando da cucciolo diventa adulto e, automaticamente alza la zampa.
‐ E’ la natura ‐ gli disse un giorno l’ortolano al quale aveva fatto domande confuse.
‐ E’ la natura ‐ confermò una delle suore più evolute.
In un certo qual senso, lo zoppo grasso e agile, viveva all’interno di una bolla di plastica opacizzata.
Quelle di cristallo erano già state esaurite nel gran mercato dei destini, quando nacque.
Qualcosa aveva imparato negli anni trascorsi in convento: come e quando si concima il terreno.
Quanto si ricava dalla vendita delle patate e tutto sommato a ventidue anni, non era neppure l’ultimo barbone della terra. Un letto nel convento assicurato per il resto dei suoi giorni, grazie alla carità dei fedeli. Un lavoro che gli garantiva la pagnotta e, la vita che gli aveva donato il suo Dio. Eh, sì
‐ “La vita che ti ha donato Dio è una cosa preziosa” ‐ avevano ripetuto fino allo sfinimento le monache, ignorando forse, chissà, che la vita la doveva formalmente a una donna che si prostituiva e non avrebbe saputo cosa farsene di lui.
Quello che Tango non riuscì mai a spiegarsi, fu il cumulo di emozioni che lo travolsero quel giorno memorabile. Il giorno dell’innamoramento al primo sguardo, benedì le sue sensazioni segrete, suonò le note sconosciute di uno strumento percussivo.
Il cuore iniziò a battere così forte che temette di udirlo echeggiare nella valle.
Jlenya gli si parò alla vista in una mattinata di inizio estate. Alla fermata del pulman che collegava il paese, era sola ad aspettare la prima delle quattro corse giornaliere; l’unica via di congiungimento con la rete ferroviaria distante trenta chilometri.
Tango, a bordo dell’Ape carica di patate destinate al mercato, arrancava sulla salita e l’ebbe di fianco, come se la visione di un angelo si fosse improvvisamente materializzata.
Rallentò a tal punto che la tre‐ruote si spense e Jlenya incrociò il suo sguardo beota per la frazione di un istante.
Com’è vero che sono i nostri occhi a vedere quello che vogliono vedere.
Jlenya nello sguardo di Tango non lesse null’altro che quello che c’era: un grande vuoto la cui assenza di vita interiore appiattita, rendeva innocuo.
Lui, invece, vide il riflesso degli aghi dei pini, il più bel tono di verde dell’erba e, le forme acerbe di Jlenya gli ricordarono Suor Giselda, quand’era giovane e lui la spiava dalla grata del dormitorio prima di dormire.
Così iniziò quell’amore. E divenne l’amore segreto di Tango‐Felice.
Divenne un tale fisso e costante pensiero che forse ci fu qualcuno ad accorgersi che in lui qualcosa stava mutando. Era più Felice che Tango.
Quegli incontri si moltiplicavano; lui l’aveva rivista altre volte alla stessa fermata della corriera e, alla fine, si convinse che quello era una sorta di appuntamento tacito.
Jlenia dalla pelle bianca e gli occhi verdi, non aveva nome per lui. Non lo conosceva.
Era semplicemente la “ragazza bionda” che lo aspettava tutte le mattine.
Nello scambio delle stagioni, l’estate volò e l’autunno giunse con il suo bel carico di nuvole e pioggia, che in montagna durano per giorni e giorni.
Quella pioggia era benedetta come l’acqua santa.
Se non fosse piovuto con una tale intensità quel mattino, chissà mai se Jlenya, fradicia e inzuppata fino al collo, avrebbe fatto segno con la mano a Tango, di fermarsi. Tutto era assurdamente in ritardo quella mattina alle sei e trenta.
Anche lo zoppo agile e grasso lo era, con il suo solito carico di patate, ma si fermò.
‐ Mi daresti un passaggio fino alla piazza? Forse riesco ancora ad acchiapparlo il pulman ‐
Tango guardò all’interno dell’abitacolo, lo strapuntino del tre‐ruote aveva posto per il corpo esile del suo amore segreto. Alzò il braccio dal manubrio e lo sporse in fuori, parallelo al busto, così che Jlenya sgusciò dentro e gli fu sotto l’ascella.
Ecco, quello fu il momento più bello di tutta l’intera esistenza di Tango ‐Felice.
Un momento di un’intensità fuori da ogni grazia terrena e, non si sarebbe potuto spiegare a nessuno quello che lo zoppo avvertì scorrergli dal cuore alla testa.
‐ Sono Felice ‐ riuscì a balbettare lo zoppo e, per davvero, la sua mente danzò un Tango denso di virtuosismi e caschè.
Jlenya sorrise, pensando che essere felici sotto quell’acquazzone era a dir poco originale e si sapeva che, in fondo in fondo, ogni donna iniziava proprio in quell’età adolescenziale ad avvertire la forza della propria femminilità. Non che le importasse poi molto di essere valutata da uno come lui.
Era una sensazione vaga di vittoria mescolata al fastidio.
Il tergicristallo segnava come un compasso una mezza luna che immediatamente si opacizzava e il rumore nell’abitacolo pareva il suono di una vecchia sveglia.
La pioggia scrosciava come se migliaia di secchiate d’acqua cadessero contemporaneamente su loro.
Svicolando attraverso la strada sterrata che passava in un tratto di bosco, le fronde degli abeti funzionavano a mo’ di ombrello e, Tango, arrestò all’improvviso il trabiccolo.
Chiusa nella stretta di quell’abbraccio obbligato, Jlenya fu presa da una strana vertigine di paura.
Cercò con la mano la leva d’apertura della portiera, ma lui la tenne stretta a sé.
Tango stava sequestrato all’interno di onde dense e liquide.
Il calore gli saliva a flutti sulle gote e gli colorava il viso di chiazze.
All’improvviso, era stato all’improvviso.
Come una folata di vento annoiata di posarsi sulle fronde degli alberi e decide di infischiarsene della rotta. Può essere che il vento ha questa improvvisa voglia di spazzare via tutto, stanco d’essere considerato brezza, ponentino?
Le sensazioni aggredirono Tango nell’arco temporale che passa tra l’istinto e l’azione, scavalcando a piè pari tutti i comandamenti.
Aveva tra le braccia il corpo della ragazza dalla pelle bianca che si divincolava.
‐Non piangere, non gridare. Non voglio farti male ‐
Avrebbe voluto accarezzarla, accarezzarla, ma lei riuscì ad aprire la portiera di latta di quell’inferno e si mise a correre incespicando nel fango.
Era zoppo, grasso, ma agile e gli fu subito alle spalle; l’agguantò per una caviglia.
Caddero entrambi sulla terra bagnata impastata di aghi di pino e muffe.
Il terrore stravolgeva i lineamenti di Jlenya: il viso contratto in un’accozzaglia di smorfie. Paralizzato dalla paura.
La mano libera dello zoppo scivolò lungo l’altra gamba.
La pelle umida di Jlenya era un fiume che scorreva. Oltre gli argini, distese di prati estivi e lusinghe sconosciute.
Lo ebbe sopra; l’alito dello zoppo disegnava brevi fiotti di condensa nell’aria fredda.
Allora lei gli piantò le unghie sulle guance, iniziò a scalciare come una forsennata sentendo quell’arma nascosta di Tango, farsi largo tra le sue gambe.
Se non fosse piovuto, se non avesse chiesto quel passaggio, se Tango fosse nato in un’altra situazione o non fosse mai nato, chissà se sarebbe andata così.
‐ E’ la natura. E’ la natura ‐ ripetè allo spasimo Tango ‐Felice
La natura bruciò in pochi secondi e, lui, l’ebbe nuovamente di fronte come la prima volta che l’aveva vista, solo che sembrava un’altra.
Lo sguardo paralizzato, catturato da un punto invisibile del cielo scuro come la terra, che filtrava dai rami dei pini.
Tutt’intorno il silenzio interrotto dal rumore del diluvio incessante.
Il sangue colava dalla testa di Jlenya e veniva mano a mano che scorreva, lavato dalla pioggia.
In quel gran cataclisma della natura Tango non si era neppure reso conto di averla colpita più volte con quel sasso alla fronte, che teneva ancora in mano.
Gli occhi immobili e spalancati di Jlenya intrappolati al di là delle curve della vita, avevano rubato un lembo al cielo per l’ultima volta.