Tarquino

La malattia imperava, infervorando gli angoli e le porte e i vetri delle finestre, tutti.
[Tutto‐rosso diventando.]E dunque Tarquino arava la terra. Dopo la rimescolava. Dopo un po’ poi la bagnava.[La terra.] Ci riversava tutto se stesso nella terra. Con il roteare della testa diventava sua sorella. Sua nemica. E poi l’amava, riposando. La malattia, nell’altra stanza faceva rumore. Tutto poi diventava verde. Tutto era soffio nel  fiore del momento. Tarquino amava la terra, il rumore non lo infastidiva e dunque il sole e il gelato, posato sulla punta del cappello rosso a sciogliersi ingrato. Colava come le  lacrime di un granchio al ricordo della grande madre lasciata a rinsecchire, avvolta in un amaca storpia che non aveva motivo di esistere, sul lungomare di Bahia in seguito al crollo della casa, in cui tutti persero le scarpe e le punte dei denti. E l’essenza razionale di una grande realtà, Tarquino scoprì l’amore per la terra e  per l’eterno su cui sempre poteva contare. Su cui sempre avrebbe potuto ballare a piedi nudi, rivelando così all’acqua, agli insetti e a tutte le strutture sotterranee e a tutte quelle trascendenti il mondo, il suo amore per la danza che alla luce del sole era poesia e disillusione, trasformandolo poi in concime per far crescere  pulcini in serra. Alla fine crollava esausto in un pianto di grano, sommesso e talvolta disperato che, tuttavia, servito in un piatto di rame risultava sempre gradito.