The king
“Racconto libero con ironia”: così recitava il bando del concorso di narrativa.
Visto che è libero, pensò, uno dovrebbe poter scegliere se far ridere, piangere o tutte due le cose insieme. Lo mettevano di cattivo umore certi accostamenti impropri di parole, del tipo “Pranzo di lavoro” (o si lavora o si mangia, non si possono fare bene tutte due le cose insieme); oppure: “Divieto assoluto” ( ma un divieto non può essere relativo e se una cosa è proibita, è proibita e basta); o ancora: “Libertà vigilata” (ma se uno è controllato non è più libero).
Quel titolo, “Racconto libero con ironia”, proprio non gli piaceva, ma nemmeno voleva passare per uno incapace di accettare le sfide; decise quindi di partecipare al concorso letterario e aprì lo schedario delle idee.
Lo schedario altro non era che l’applicazione pratica di un metodo di lavoro consigliato da un noto scrittore americano agli aspiranti raccontatori; consisteva nello scrivere, titolare e archiviare in ordine alfabetico, tutto quello che via via passava per la testa.
Un po’ come fanno certi maniaci del fai da te, che conservano meticolosamente, nelle loro cantine trasformate in officine artigianali, viti, bulloni, guarnizioni e quanto altro nel corso della vita potrebbe tornare utile; il tutto naturalmente in un ordine perfetto fatto d’armadietti, cassette, scomparti. Vuoi mettere la soddisfazione di trovare una vite autofilettante a testa svasata lunga due centimetri virgola cinque nel tempo di uno schiocco delle dita.
Sfogliando l’archivio si rese conto che negli ultimi anni la sua mente aveva lavorato molto e che però alla fine, nei suoi racconti, ben poco era riuscito ad utilizzare di quel pacchetto di pensieri, battute, citazioni, modi di dire, ricordi in lista d’attesa.
Arrivato alla lettera T, sotto la voce Testate, trovò alcune schede; ricordava vagamente il contenuto di quei fogli. Decise quindi di rinfrescarsi la memoria, e iniziò a leggere.
Volevo afferrarla e spingerla più in alto, ma la corda dell’altalena nel ritorno si arrotolò.
Il ripiano in legno del seggiolino mi colpì in fronte; sentii un colpo secco e subito dopo vidi tutto quello che stava intorno a me tingersi di rosso.
Mi ritrovai steso per terra, confuso, incapace di muovermi e con uno strano sapore di ferro in bocca.
La suora si avvicinò correndo e poi, stringendomi tra le braccia, mi portò nel locale dov’erano sistemate alcune piccole brande per il riposo pomeridiano.
‐ Non è successo niente, ‐ ripeteva in continuazione ‐ adesso ti medichiamo e poi potrai tornare a giocare.
C’era preoccupazione ma anche dolcezza nei suoi gesti e nel tono di voce, ed era la prima volta che succedeva.
Odiavo quella suora, quella donna nera che, per impedirmi di disegnare le asticine con la sinistra, mi legava la mano alla sedia; e che quando poi riuscivo a liberarmi e tornavo a scrivere nel modo che a me sembrava più naturale, diventava ancora più cattiva.
A forza di urla e sberle tra capo e collo, imparai a scrivere con la destra, ma per quanto riguarda il resto continuai ad usare la “mano del diavolo”.
Se ripenso a quella donna, non riesco a visualizzarne il volto; ricordo invece il calore del suo corpo in un giorno di primavera, e il gelo di tanti altri momenti.
Un’escursione termica di sentimenti che ancora oggi fa male.
‐ Mai più una domenica con parenti che hanno bambini piccoli! ‐ dissi a mia moglie durante il tragitto verso casa.
Faceva un caldo “a morte” quel giorno a Borgomanero e allora, per sopravvivere, ci rifugiammo in un bar dove almeno c’era l’aria condizionata; ordinammo una birra e per i bambini, alquanto agitati, un bel gelato.
Così si calmano, pensammo.
Prima di uscire mio figlio chiese e ottenne una bibita in lattina, che una volta fuori mostrò con orgoglio ai cugini.
‐ La voglio anch’io! – gridò uno; ‐ anch’io la voglio! – urlò l’altro; ‐ anche me – disse piagnucolando il terzo, che ancora si pisciava addosso, ma sapeva bene come farsi capire.
Per bloccare la crisi isterica collettiva che da lì a poco sarebbe inevitabilmente esplosa, decisi di tornare indietro per comprare altre lattine.
Entrai deciso nel bar, anzi non c’entrai proprio, perché non vidi che la porta, tutta in vetro e trasparente come un cancello aperto, era chiusa.
Andai a sbatterci contro e sentii un dolore pazzesco, soprattutto al naso per via del contraccolpo degli occhiali.
Vidi il barista, i camerieri e tutti i clienti del locale girarsi verso di me e ridere apertamente.
Oltre al dolore anche l’umiliazione: era troppo!
Con le lacrime agli occhi, la mano sul naso e una bestemmia trattenuta a stento, mi girai verso i pargoli e, con voce decisa, gridai: ‐ Lo spettacolo è finito e anche le bibite! Si torna a casa!
Accadde in uno di quei periodi in cui le sole cose che non mancavano erano i problemi.
Casa, lavoro, soldi, famiglia, politica: tutto sembrava rotolare verso un fondo valle d’incertezza.
Non ero molto socievole in quel periodo, faticavo ad ascoltare gli altri, soprattutto quando aggiungevano i loro problemi ai miei.
Cercavo soluzioni e trovavo confusione; si, la testa era attaccata al collo, ma stava sempre altrove.
Insomma, per farla breve, non era proprio una situazione da “Mulino Bianco”.
Ero già salito sul motorino per tornare al lavoro.
‐ Beh non si saluta? ‐ Gridò mia moglie dalla porta di casa.
Beccato! pensai.
Alzai il cavalletto del motorino e tornai verso di lei; quando la baciai sentii un rumore strano; la vidi ritrarsi e colsi sul suo viso una strana espressione di sorpresa, quasi di dolore.
Ripensai al faticoso momento che stavamo vivendo, ai problemi irrisolti, alla mia perenne distrazione; pensai a tutto ciò in un vano tentativo di comprendere le ragioni di quel dolore improvviso, di quell’allarme del cuore.
‐ Ti voglio bene, ‐ disse mia moglie – però la prossima volta ricordati di togliere il casco.
L’ufficio dove lavoravo aveva chiuso e da un paio di mesi ero stato assunto come operaio in un magazzino; la mansione principale consisteva nello scaricare merce dai container.
Si lavorava all’aperto, con qualsiasi tempo, ma quello, almeno per me, non era l’aspetto peggiore, il problema principale era la fatica fisica, a cui non ero abituato; e poi non avendo esperienza e la giusta manualità alla fine sudavo il doppio.
Un giorno mi sporsi dalla ribalta per vedere se la porta del container era tutta aperta; non lo era, e me n’accorsi perché ci picchiai contro la fronte. L’impatto mi aveva quasi tramortito, ma ero ancora in prova e non potevo permettermi il lusso di un infortunio; cercai quindi di mascherare il dolore. Le preoccupazioni iniziali dei miei compagni di lavoro si trasformarono quasi subito in risatine e battute ironiche. Il camionista poi volle esagerare e affermò che tornando in sede si sarebbe fermato dal carrozziere per quantificare i danni al portellone.
Era genovese e si sa, i genovesi sono tirchi: guai a rovinargli qualcosa che gli appartiene.
Sono ad una festa natalizia, in uno di quei luoghi che accolgono persone che non hanno avuto la fortuna di nascere sani come Gesù bambino e che la croce, nel corpo e nell’anima, la portano dal primo giorno di vita.
Tra loro intravedo un ragazzo con un casco da pugile in testa; mi spiegano che spesso, così, all’improvviso, sviene e cadendo picchia la testa: ecco spiegato il perché di quella protezione.
Io non resisterei un giorno in questa residenza per figli di un Dio distratto, e mi rendo conto del valore che le operatrici che ci lavorano aggiungono alla vita delle persone che assistono.
Penso, mentre le osservo, che c’è fatica nel loro mestiere, se così si può definire, visto che ci mettono anche una buona dose d’amore, e non potrebbe essere altrimenti.
Se poi è vero, come ho sentito dire, che si può voler bene al mondo, ma non si possono amare più di cento persone nel corso di una vita, allora vuol dire che gran parte di quel patrimonio del cuore loro lo stanno donando a chi sta lì. Penso anche, con una punta d’ironia, d’aver trovato uno che in fatto di capocciate mi supera alla grande. La conferma arriva subito dopo, perché quando il ragazzo si gira sul casco di gomma leggo: “The King“. Non ci sono dubbi: è lui il re delle testate.
Il giorno dopo trascrisse al computer tutte le cartelle in un solo testo, che poi stampò.
Di più non sapeva cosa aggiungere a quel racconto; rimaneva però una riga vuota e allora, prima di chiuderlo nella busta e spedirlo all’indirizzo dei promotori del concorso, in quello spazio scrisse:
“ Racconto libero… ironicamente testato “.