Tre dita nell'anima
È una bella mattina di settembre. Sulla carta dovrebbe essere ancora estate, ma la natura sembra essersene scordata. La tramontana ha tirato tutta la notte e il termometro adesso segna 11°. Non proprio il calduccio estivo in cui tutti speravano… Sono seduto a un tavolino in Piazza del Campo. La nostra bella città si gonfia per l’inverno: nuovi studenti, residui turistici, gerontocrazia ai colonnini. Sopra il tetto della Cappella, l’orologio segna le dodici. In punto. Sorrido e ordino un altro vino rosso alla piccola barista slava. È nuova e ancora entusiasta del lavoro.
Dieci minuti e il cielo cambia colore. La tramontana spazza via il sole, per poi farlo tornare dopo pochi istanti. La gente sembra accusare il primo freddo. Ma tutti sanno che il caldo tornerà. È così da qualche anno, ormai. Niente più mezze stagioni – evviva quei luoghi comuni dei nostri nonni. Anche se non ci sono più i nonni di una volta.
Scrivo sull’orlo dell’abisso. Scrivo perché il personaggio che mi hanno dipinto addosso me lo impone. Maria dice che sono un po’ pazzo, che non vivo in un mondo reale, ma nel cosmo fittizio di un clown. Beato me, penso, non capendo un’acca di quel che vuole dire. Guardo il mondo e mi chiedo quale sia reale: il tuo Maria?
Scrivo sull’orlo dell’abisso, dicevo. Sono quello che al mondo alcuni chiamano artista, altri vagabondo, altri pazzo, altri zecca. Ma quest’ultima definizione la rifiuto a priori! Per concetto e sostanza è praticamente impossibile che io sia una zecca. Una zecca se ne sta quatta quatta nel suo angolo, nell’erba o sopra un ramo, e aspetta che la vittima le passi accanto. Aspetta ore, giorni, anni, secoli, questa zecca paziente. E poi zac – al momento buono salta giù e s’incolla alla bestia giusta. Io no! Io non ho pazienza! Non aspetto, ma corro incontro alla vita, la divoro, la sbrano, la dilanio. Me ne drogo e ubriaco fino alla pazzia – allora sono pazzo davvero…‐ me ne imbevo come fosse crema, e dall’acido ne prendo forza. E poi, francamente, sbaglio sempre bestia…
Per il resto, possono chiamarmi come vogliono. Le definizioni servono solo a creare scompiglio. Certo aiutano. Un medico non può mica farsi trovare ubriaco come un tegolo, a mezzogiorno nel bel mezzo della piazza principale, qui in città. Un avvocato non può certo sedersi a terra con la chitarra a tracolla e mettersi a cantare Sweet Jane a squarciagola. Un politico non deve permettersi di ballare, saltare e gridare nel cuore del giorno, così senza motivo. E pensate a un bancario che tutto a un tratto salta su dal tavolino del bar e scoppia a ridere come un invasato, da solo! Certo, tutti farebbero tutto. Ma a un artista è permesso dare di matto ogni tanto… finché non fa male a nessuno. E non c’entra niente se i desideri repressi degli altri si trasformano poi in giudizi e condanne. All’artista tanto cosa vuoi che freghi?! Allora ringrazio le convenzioni, le formalità, le definizioni a priori che mi permettono di fare come un monaco zen: ho fame‐mangio, ho sete‐bevo, ho sonno‐dormo, ho voglia di scopare in un angolo della strada e scopo in un angolo della strada. Badate bene, anche gli altri lo fanno. Ma se li beccano sono grane, mentre se beccano me… “beh è un artista, cosa vuoi farci?” A libertà donata…
Questo dogma però, mi schiavizza anche un po’. Se non faccio qualcosa di inaspettato, la gente mi guarda come per dire: “Cosa diavolo avrà, guardalo è così calmo, starà male?”… E io hai voglia a spiegare che non c’è una regola, che oggi mi va di essere così, incolore come un tassista o un avvocato. Un po’ zecca, ecco…
Sono al quarto bicchiere di vino rosso adesso. Forse vaneggerò un po’, ma rientra negli schemi. E poi sono stanco morto.
Ho passato tutta la notte in bianco. Anche stanotte. Sono quasi venti giorni che non riesco a dormire bene. Mi giro e rigiro nel letto, fino a quando mi alzo inviperito, mi vesto e esco per strada. Siena di notte è un incanto. Un pizzico di nebbia, silenzio e luci soffuse. Il passato esce dai mattoni e si ritrova in piazza per danzare. Ho visto spesso Cecco, Dante, Simone e Jacopo. Il Savonarola immerso in un pentolone e dietro, ai fornelli, San Bernardino con una birra Poretti in mano. Rosy deve essere ancora aperta… Faccio un salto al bar, ma mi scordo che ancora non è autunno e l’estate è già finita: quindi è tutto chiuso. Poco male. Ci sono due o tre bottiglie di vino in terra, semipiene – vedo il lato grasso della vita adesso. Le travaso come un oste provetto, senza far cadere neanche una goccia e mi metto quella semi‐piena sotto braccio. Adesso ho tutto: il nettare, scarpe ai piedi e un buon cappello. La tramontana soffia forte. La sento ghiaccia sul viso, così il sonno mi passa del tutto. Vado verso il Duomo, che è sempre il luogo più silente di Siena. Devono essere le pareti della cattedrale che assorbono il rumore del giorno e non lo liberano che all’uscita del sole. Gli scaloni sono freddi, marmorizzati. Mi siedo e do un sorso alla bordolese. Porca puttana, quanto è fredda!
La notte è un guanto di lana: riscalda e riesce sempre a non farmi sentire solo. Sono uscito di casa con un pizzico di tristezza addosso. Ci sono giorni in cui accade anche questo. Anzi, nel mondo dicono che un artista deve essere così: solitario, malinconico, introspettivo e profondo. Ad alcuni annoia, a me resta indifferente. Ho chiuso la porta di casa e ho sentito una fitta. Pensavo fosse il fegato, ho toccato un po’ con tre dita, ma niente. Allora ho toccato più a fondo e ho capito che era l’anima. È leggermente ingiallita in questo passato prossimo.
Giulia dice che ho bisogno di stare male.
‐Cosa ti manca? Fai la vita che vuoi fare, mangi scopi scrivi e sorridi, ma sembri sempre inquieto. Vuoi di più? Bene, allora rassegnati. Se vuoi di più devi fare di più.‐ E allora le rido in faccia, perché capisco che non capisce niente e che quel suo “di più” altro non sono che soldi. Chi se ne frega dei soldi? Ho un gran bel mucchio di soldi nella mente. E guarda caso non mi manca niente, se non un po’ di sguardi in meno. In meno, attenzione. Voglio meno sguardi e meno mani, meno occhi, dita, bocche, fiche, capelli, datteri e corvi. E Giulia continua:
‐ Ridi? Ridi! Bene, ridi… Tanto a me che me ne frega. Ma guardati: vuoi il sogno e non appena lo trovi, lo distruggi, poi corri da me e piangi come un bimbo.‐ E il bello è che non sono mai corso da lei, piango come un bimbo è vero, ma non sono mai corso da lei.
‐ Gracchi, come un corvo gracch i‐ continua lei ‐ Sei l’immagine sbiadita di un uomo. Ciucci al mio capezzolo e non ti basta mai. E io non mi tiro indietro, bada bene. Io sto qui, ferma e accetto tutto. Ti ascolto, ti consolo, ti scopo quando ne hai voglia e ogni tanto ti allungo anche qualche soldo. Eppure tu non mi mostri neanche un minimo di riconoscenza. Che razza di ingrato sei, che mostro sei? Sei una zecca ecco cosa sei. ‐ Poi mi guarda e mi chiede se ho voglia di passare la notte da lei. Certo, penso: e così sarei io la zecca? Tu che mi sfoghi addosso le incazzature di una settimana giuridica, tu che mi ammorbi di offese e giudizi, tu che ti liberi della merda accumulata per codardia, tu… dai della zecca a me? Bene, sono una zecca e vengo a dormire da te.
‐ Avrei anche bisogno di cinque euro, giusto per comprarmi le sigarette. ‐ Mi guarda, sorride e me ne regala dieci, per fare la scorta.
Giulia è l’esempio lampante di quanto gli artisti siano necessari all’umanità. Capri espiatori, permettiamo alla gente di purificarsi attraverso noi. Attraverso l’arte, attraverso i sorrisi, attraverso la rabbia che si trasforma in bile e li sotterra. Siamo la pace e il centro dell’universo. Giulia è talmente contenta di offendermi e poi scoparmi che quasi quasi mi sento felice. Se non fosse per la sua lingua dura, mi sentirei davvero al settimo cielo. Ma quella lingua è un supplizio al quale devo sottostare se voglio godere un po’ anch’io. Lei ha il suo bagaglio di leggi, scartoffie e processi money‐maker, io la sua pala d’acciaio che frulla come un ventilatore. Tiro un po’ di coca, l’avvocatessa ne dispone sempre in quantità e poi mi ci ficco come un centometrista. Ogni volta che esco da quella casa, sazio, svuotato e pieno di soldi, mi accorgo di quanto bella e facile sia la vita.
Ma ieri notte Giulia non c’era. Ero al Duomo, solo e un po’ malinconico. Il cielo scuro di nubi non lasciava intravedere nient’altro che se stesso. Ho finito di scolarmi la bottiglia di vino rosso e ho preso a camminare per le vie vuote. Che silenzio, che pace! Il grido di un bambino mi avrebbe ferito a morte. Chissà quanti bambini dormono dietro quelle finestre chiuse? Per fortuna nessuno di loro ha gridato. Solo la macchina di Trilloro è passata sobbalzando sulla pietra serena. L’ho visto curvare verso il Duomo, col suo carico di mangime per piccioni al seguito. Il comune vieta che si dia cibo a quei volatili. Ma vai a vietare qualcosa a un pazzo…
Non so per quanto tempo ho camminato. La cosa che più mi piace della notte è che riesce a spogliarmi la mente dai pensieri. È la sua informità, le sua deforme indifferenza. Cammino con la mente vuota e così non sento il nulla nella pancia. Lei grida, certo, ho una tale fame, ma la mente asettica non percepisce più niente. Ed è il primo passo verso la felicità.
Ripenso al mio dottore, che è la parodia ciondolante di un medico. L’altro ieri l’ho chiamato a casa. Avevo un po’ di mal di gola e la febbre alta, almeno così gli ho detto. Non c’era motivo di farlo, ma volevo vedere la sua buffa faccia almeno per cinque minuti.
Lui ha scosso la testa: ‐ Sempre male stai, eh Giacomino! ‐ Giacomino… mannaggia a te dottorino…
‐ Già ‐ gli ho detto – sono cagionevole. Troppi antibiotici da piccolo.
Mi guarda. Ghigna. Esplica.
‐ Gli antibiotici sono la colonna portante del sistema farmaceutico italiano, Giacomino. Non devi condannarli così, a caso ‐ mi ha risposto quasi offeso. – Che sintomi hai?
Mal di gola, febbre alta, mal di testa e ossa doloranti.
‐ Porca vacca! ‐ ha esclamato allontanandosi un po’.
‐ I primi sintomi della lebbra? ‐ gli ho chiesto vedendo il suo ribrezzo.
Così mi ha controllato gola, occhi, respiro, ghiandole, petto, schiena, riflessi: un check‐up completo, da distanza siderale‐anticontagio, è ovvio.
‐ Ahi, siamo messi male ‐ ha sospirato poi. – Facciamo così: ti prescrivo questi antibiotici. Due al giorno, dopo pasti, per una settimana.
‐ Una settimana?
‐ Sì, fino alla fine della scatola… E riguardati che non sei messo per niente bene!
Perfetto! Sette giorni di antibiotico e quarantena, poi convalescenza e vitamina C. E tutto per…niente!
Ho comunque preso la scatola in farmacia, non si sa mai.
Continuo nella mia passeggiata esfoliante. Ho aperto i sensi e sono in allerta. Se il giorno ti esclude dal mondo, la notte ti ci riconcilia. Basta non pensare ed essere pronto a ogni evenienza. Cammino, ma la malinconia è sempre lì, sottobraccio. Arrivo in piazza Salimbeni, dove il mostro di Pio non so quale, mi guarda con aria grave e contratta. Sono un profano, libertino e impenitente, lo so; perdonami… Proseguo oltre, quello sguardo è troppo forte. Alla Lizza, splendido giardino, sento il vento aumentare. Mi calzo il cappello più a fondo e alzo il colletto della giacca. Posso sembrare un tipo losco, ma ho solo freddo. Costeggio un po’ il Palazzo di Giustizia, pensando al porco che ha avuto il disgusto di pensarlo e al demente che ne ha approvato il progetto. Spero perlomeno che ci debba vomitare, una volta o l’altra. Mi tolgo dalla vista quel mostro fabbrica‐mostri e corro fino al laghetto dei cigni. Loro dormono, hanno la coscienza a posto. O forse è l’acqua, nera, torbida e puzzolente, che li atrofizza. Mi viene voglia di oppio. Aprono bar, pizzerie a taglio, negozi d’alta moda; mentre io chiedo solo due cose: un bordello e una fumeria d’oppio. E una carrozza che mi riporti a casa quando sono tutto fatto.
Salgo i gradini, dietro al laghetto. Il puzzo di piscio è devastante, ma fingo di non sentirlo. Mi appoggio ai bordi della finestrella e guardo i cigni grigi ripiegati su se stessi, dormire come cigni ripiegati su se stessi: scomodi… Il cespuglio accanto a me si muove per il vento. Guardo dentro e tacchete! una rosa selvatica. Corro giù, mi assicuro che nessuno sia in giro, e la colgo all’istante. È bella, rossa, piena di spine e profumata. Una rosa rossa come si deve! Forse che il piscio di qualche ubriaco l’abbia nutrita e fatta così regale? Stacco lo stelo pungente e lo lancio nel laghetto. Mi ficco la rosa nel taschino sinistro della giacca, dopo averla annusata ancora, proprio sopra il cuore.
Fa freddo adesso. Decido che è ora di tornare a casa. M’incammino, ma una fitta mi buca ancora lo stomaco. Tre dita, ma niente, è ancora l’anima. Così mi siedo su una panchina. Il campanone della Torre del Mangia rintocca le quattro. Il mondo è vuoto. Sono l’unico essere umano sveglio. E mi godo quell’attimo di pace. Mi torna alla mente una canzone che ho sentito alla radio, quella mattina. È orecchiabile e la fischietto un po’, per tenermi compagnia. Il paradosso dell’artista: c’è gente e non la vuoi, sei solo e ti senti troppo solo. L’artista ha bisogno della gente – questa è la verità – per sentirsi solo senza soffrire. La solitudine forzata è una gabbia, né più né meno.
Fiero di quel pensiero chiudo gli occhi per un po’.
Dopo qualche minuto sento dei passi dietro me. Mi volto di scatto e vedo una ragazza sbandare a destra e sinistra, come su una nave in tempesta. Si avvicina piano e vedo che è ubriaca fradicia. La prima cosa che mi viene in mente è: ma da dove cazzo viene? Pensavo fosse tutto chiuso in questo periodo, ma forse qualche bar è ancora aperto. La ragazza mi nota. Mi si fa incontro e impastando grida: ‐ Scusi, che ore sono? ‐ Mi fa sorridere, scusi, sono già così vecchio? Un bambino qualche giorno fa mi ha lasciato il suo posto sul tram, dicendomi “venga signore, venga”. L’avrei ucciso… Ma questa povera ubriaca non riuscirebbe a distinguere una stringa da una scarpa, così le sorrido.
‐ Mi spiace, non ho l’orologio‐ le dico mostrandole il polso.
‐ E il cellulare? ‐ fa lei imbronciata.
‐ Neanche, mi spiace.
‐ Accidenti! ‐ sospira battendosi il pugno nel palmo della mano.
Gira i tacchi e si allontana, barcollando. Quando è a qualche decina di metri da me, mi viene in mente il campanone e quei suoi quattro rintocchi. Le corro dietro e le dico. – Ehi, aspetta. Sono le quattro e mezza, minuto più minuto meno.‐
‐Oh grazie! ‐ esclama. E dal nulla tira fuori un sorriso meraviglioso.
Adesso sono sulla via di casa. Passo da Piazza per dare un’ultima occhiata a quella notte. Ancora nessuno a giro, solo il vento che continua a spazzare il nulla. Alzo gli occhi verso il cielo e miracolo! nessuna nuvola. Solo stelle e una splendida luna piena all’orizzonte. Sta quasi per sparire, ancora pochi istanti e tramonterà. Sento l’ennesima fitta allo stomaco. Riprovo e finalmente lo sento, lo stomaco che si lamenta. Niente più anima inquieta, è solo fame…
Corro verso casa, mi spoglio in fretta e furia e chiudo gli occhi sotto le coperte. Ecco cosa intende la gente, quando dice “artista”. Ora dormo, perché ne ho voglia. Sono uscito per fare una passeggiata, solo e malinconico. Ma adesso, nella stessa casa, appena due ore dopo, non sento più niente se non qualche crampo di fame. La vita è bella, meravigliosa! E questo è l’artista: un uomo che esce nella notte di tramontana e nella sua malinconia vaga fino allo sfinimento. Sono uscito, ho vagato, mi sono sfinito: e quello che ho raccolto sono un fiore, un sorriso e la luna – la vita!
Fine
Siena, 6 settembre 2007